mercoledì 5 novembre 2008

2. Piera Mattei – OBAMA: SODDISFAZIONE E AUTOCRITICA

Finalmente possiamo sperare in un'America che realizzi i suoi principi democratici. Già lo svolgimento di queste elezioni sembra darne una prova. Sono andata ripetendo per anni che la politica mondiale poteva cambiare solo se l'America dal suo interno avesse prodotto un cambiamento profondo. Ricordo nel 1991 un lite violentissima con un amico, un noto giornalista che porta l'America nel cuore, a cui questa mia dichiarazione sembrò forse un augurio di rivoluzione civile. Sembra invece che un CHANGE, sia possibile seguendo fedelmente le regole democratiche, anzi attivandole. E mi sento orgogliosa d'averlo atteso quel cambiamento e di vederne oggi le solide premesse.

Infine noi, l' Italia, serva Italia di dolore ostello! Noi, caduti nella recidiva di un governo Berlusconi, noi e la Lega delle piccole rivendicazioni di gravi conseguenze, dei minuscoli paricolarismi che rendono gretta la nostra politica e la nostra cultura, che è stata in altri periodi storici, universale e universalistica. Noi, che oggi festeggiamo l'evento storico di questa elezione, ci sentiamo al confronto umiliati, perché costretti a rendere nel mondo un'immagine meschina e talvolta risibile.
Noi che quando vogliamo ispirarci all'America democratica facciamo cattive traduzioni. "Yes, we can" è: "Sì, noi possiamo farlo" (riempiendo di contenuti quel suffisso pronominale). "Si può fare" che è stata la traduzione prescelta in campagna elettorale dal nostro Partito democratico, è una cattiva traduzione perché introduce una sfumatura bonacciona e accomodante, quella italianità, mi permetto di dire, in cui non mi riconosco, che ci danneggia e che dobbiamo, sì, se vogliamo sopravvivere, veramente CAMBIARE.

1. Piera Mattei – OBAMA E MARTIN LUTHER KING

Alcuni anni fa mi trovai a Miami, durante il Martin Luther King day. Si celebra, dal 1986, tutti gli anni come una festa di tutta la nazione americana, al terzo lunedì di gennaio, in memoria del giorno in cui il leader nero nacque, il 15 gennaio. Certo Miami non è Atalanta, ma rimasi delusa dall'atmosfera: sfilavano i carri con la scritta "I have a dream", le majorettes con la banda, ma non c'era entusiasmo, sembrava la ripetizione di un rituale in cui nessuno credeva più.
Ecco invece la sorpresa di questo nuovo Presidente di colore. Lo ha eletto anche la Florida, lo hanno eletto la grande maggioranza dei cittadini in tutti gli Stati dell'America, e inoltre porta con sé alla Casa Bianca una moglie bella, colta, lei sì discendente degli afroamericani, nata nella Chicago del gelido vento e del jazz.

Oggi Barack Obama, nuovo Presidente degli Stati Uniti, di origine americana e keniota – non proprio quello che s'intende per afroamericano, lui – porta i suoi 47 anni con l'agilità di un atleta con la grazia naturale di un ragazzo. Ha il sorriso e l'atteggiamento di un uomo coraggioso e libero.
Esattamente quarant'anni fa, quando venne ucciso il più grande leader dell'uguaglianza tra bianchi e neri d'America, nessuno pensò allora che fosse stato ucciso un giovane uomo, ma Luther King aveva nel 1968 solo 39 anni essendo nato nel 1929. Il suo viso non ha il fascino che emana Obama, forse perché nel suo sguardo c'è ancora tutta la sofferenza dei discendenti da quegli africani che furono portati in America come schiavi.
Il colore della pelle di Obama non rimanda invece in nessun modo al crudele sfruttamento dell'uomo bianco. Lo stesso nome che si pronuncia proprio com'è scritto, un nome africano che oggi non richiede neppure di essere adattato alla pronuncia anglosassone è un nome da portare con orgoglio, come americano, come Presidente degli Stati Uniti. Questo permette di vedere in Obama il simbolo di un'apertura che non conosce il risentimento, che gli consentirà d'interpretare, come ha promesso, le esigenze di tutti, di portare avanti la concreta realizzazione al di sopra delle parti, dei DIRITTI UMANI, nella sua nazione e di conseguenza nel mondo.