nota critica di Piera Mattei
Se stiamo alla data che riguarda l’occasione per la quale è
stato scritto il poemetto nella sezione finale del libro – un incontro
con Betocchi a Cosenza, dove il poeta affermato era venuto a tenere una
conferenza, nel lontano 1957 – dobbiamo dedurre che il legame di Carlo
Cipparrone con la poesia, con la buona poesia, è lungo quasi come la sua intera
vita.
Un matrimonio giovanile. E come spesso in quei matrimoni sembra che
tutto sia corso via troppo presto, che quanto si desiderava con passione non si
sia infine veramente realizzato. Recriminazioni, rimpianti, ma infine accettazione del
fatto che il matrimonio non si poteva celebrare che così, nella fedeltà che non contraddice all’insoddisfazione.
Questa ultima raccolta di Carlo Cipparrone è infatti un
libro tematico: l’autore, lo dichiara nella premessa, ha raccolto qui le sue
“poesie sulla poesia”, scritte nel corso degli anni.
Lo stile delle poesie antologizzate, occorre sottolinearlo,
si è mantenuto sostanzialmente uniforme negli anni, forse con un’accentuazione
progressiva dell’ironia e del sarcasmo, che si s’impegna talvolta a ritrarre i
peggiori difetti della categoria dei poeti, ma anche, con non minore crudeltà,
a infierire contro se stesso, autodenigrandosi, o dichiarandosi pentito di
avere accolto alcune false ispirazioni (INVETTIVE contro gli altri e contro se
stesso). La poesia non è cogliere un'aerea ispirazione né tenace tecnica scrittoria, poesia
è passione, è consapevolezza di appartenere al mondo "di lei" e sentire sulla
propria sensibile pelle la contraddizione tra quella certezza e la "sua" tiepida
accettazione.
Il poeta è del tutto consapevole che il bisogno di continuare a fare poesia – per tutta la vita – ha più a che vedere con la sfera personale erotica che non con quella della pubblica utilità:
Non è questione di vita o di morte,
questo è chiaro.
Se lasciassi in bianco
il foglio su cui scrivo
tutto filerebbe lo stesso.
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Poetare – come comandare –
è meglio di fottere?
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nonostante la mia matura età
ho ancora voglia di scrivere,
come i giovani di far l’amore...
[...]
Poesia, amore taciuto
celato agli occhi degli altri
come un vizio, una colpa, un peccato.
Una passione, quella della poesia, che s’impianta come
anomalia su una formazione da scuola tecnica,
sulla scelta e/o la necessità di un mestiere di tecnico. Per questo è così
importante quell’incontro con Betocchi, quasi un volto nel quale specchiarsi, una
conferma che si possa diventare poeti, senza essere poeti di mestiere, anzi
esercitando una professione apparentemente lontanissima dalla poesia. Su questa
perplessità la risposta di Betocchi è pronta:
Tra coloro che scrivono non siamo
un’eccezione, geometri sono anche
Quasimodo, Lisi, Bargellini – disse,
un po’ compiacendosi – aggiungendo
all’elenco gli ingegneri Gadda, Sinisgalli
e l’assistente edile Vittorini.
Sono tornata qui sul già
citato poemetto La Comune Strada – Betocchi perché mi sembra veramente una
summa dello stile di Cipparrone: una scrittura piana, di grande agilità
narrativa, che, tratta dei temi fondamentali della sua poesia e, tra l’altro, comprende
tra i suoi versi quello scelto a dare il titolo all’intera raccolta: il poeta è un clandestino.
Il tema delle due anime, quella del poeta e quella del
costruttore, che possono fondersi, che di fatto si fondono, ritorna spesso, con
esiti assai felici, come ad esempio, nella prima strofa di Senza domani:
Noi operai, artigiani, maestri della parola
dai nomi oscuri o più o meno conosciuti,
seppelliti domani in libri mastri –
cataloghi datati coperti dalla polvere –
rimasti o ricacciati nel limbo dell’anonimato,
condannati a un misero solitario destino.
Noi popolo di manovali muratori capomastri
gruisti ruspisti camionisti badilanti sterratori
geometri architetti ingegneri:
chi una pietra aggiunge e chi la toglie
chi edifica e chi distrugge.
Altra volta dall’arte della costruzione Cipparrone tira assai
convincenti metafore, che gli servono a difendere una poesia leggibile,
costruttiva, contro disordinati sperimentatori:
Ci sono poeti in bilico
su traballanti ponteggi,
che – parola su parola,
mattone su mattone,
pietra su pietra –
innalzano brandelli di frasi
difficili a leggersi,
muri costruiti a secco,
precari nel reggersi.
Dovunque in questo libro l’arte della costruzione o l’atto
opposto e parallelo, l’atto chirurgico della demolizione, sono fonte di poesia
forte, originale. Citiamo tra tutte l’atmosfera sospesa, tra gli sguardi dei
curiosi, nell’apparente trionfo anarchico dei demolitori, della poesia I
ruspisti. Costruire, gettare fondamenta, riempire lo spazio verso l’alto, e
poiein, fare poesia, due attività per le quali, a innalzare l’opera, sono
necessarie responsabilità e passione – i piedi saldamente piantati a terra.
Immagine: antiche mura nei pressi di Bordeaux (foto Piera Mattei)