lunedì 21 febbraio 2022

Pietro Roversi per Cristina Annino (Arezzo, 11 dicembre 1941 – Roma, 28 gennaio 2022)

 





Il poeta e il suo amico ventriloquo

 

Nel Novembre del 2009 leggevo in rete tutta la poesia contemporanea che mi capitasse a tiro. Incappai nel sito in cui Biagio Cepollaro raccolse libri importanti che erano ormai fuori commercio, c’era il PDF di “Madrid”, il libro del 1987 con cui Cristina Annino vinse ex aequo nel 1988 il Premio Pozzale Luigi Russo. 

 

La prima poesia [1] bastò per catturarmi e non mi sono più liberato, né credo mi sarà possible sottrarmi a questo testo finché campo:

 

Se un ospite mi lascia la casa, io

le faccio domande, frugo ovunque, specie

nei materassi. Quando esco, è passato un ladro.

Ma non la dimentico, la ripenso. Dove mettono

l’amore gli altri? Che non sia visibile, un oggetto

ad esempio, mi terrorizza. Odore c’è, quasi

sale a volte fumo o cemento rigido, o quel

senso di lavato che dà le vertigini.

Mi porterei

dietro un cane se l’amore non dovesse essere

concreto. Come io credo.

 

Quale fu ed è la forza di questo testo per me: parte sparato, con l’immagine del poeta ospite (da amici si presume, erano gli anni in cui Cristina passava molto tempo a Madrid senza fissa dimora) e l’ossessione investigativa con la quale egli cerca in casa altrui le tracce domestiche dell’amore. Le immagini si scompongono e il visibile e l’invisibile si alternano come l’interno e l’esterno della cosa di cui si sta parlando. Il testo vive d’ambiguità e di polisemia (è l’amore concreto o astratto? È l’amore un luogo, un oggetto, un odore?). L’asciuttezza, il rigore, l’esattezza mi avvincono in questo testo, e persino quel che costituiva per Franco Fortini un aspetto problematico (da una sua lettera ad Annino: “Unica, ma seria, obiezione: ogni composizione si ciude su sé stessa, e questo mi va benissimo ma la sequenza rischia una specie di monotonia o di monomania, di iterazione immobile del procedimento.” [2]). Perché a me – anche grazie a quell ripiegamento su sé stesso - appena finisco di leggere vien voglia di tornare all’inizio (e il testo diventa un microcosmo).

 

Trovai il sito web del poeta e l’indirizzo E-mail, le scrissi : “Due righe per dirLe che per la prima volta oggi la leggo avidamente e divento subito un suo grande amico.”  E lei la sera stessa mi rispose: “La ringrazio, Pietro, non ci conosciamo, ma è bello quello che mi dice, sta leggendo Magnificat? A presto e, spero per me, con la stessa stima. Cristina Annino. Se diventiamo amici, dovremo darci del tu, non crede?”

 

Così iniziò per me l’avventura di lettore e allo stesso tempo di corrispondente epistolare di Cristina e poi dal 2014 (quando andai per la prima volta a trovarla a Roma) la nostra amicizia: il tutto con le difficoltà del caso, certo – ma il piacere, la meraviglia e l’emozione che trovo nei suoi testi sono rimasti forti come all’inizio, e finché lei è stata in vita - anche l’intensità la generosità l’intelligenza della sua compagnia.

 

Questo però è il poeta che nel suo Curriculum [3] scrive:

 

“Penso: vorrei fosse

nota soltanto la mia opera, io dieci

figli, portare – si dice? – una croce. Correndo

sempre avanti così mi ritorna lo spirito

indietro.”

 

associando il proprio lascito artistico (“la mia opera”) alla propria identità (“io”), alla discendenza che non volle avere (“dieci figli”, anche se poi suoi libri veri e propri saranno dodici) e tutt’assieme in un sol colpo anche alla difficoltà del vivere e all’assurdità/il ridicolo del parlarne (“-si dice?-”). 

 

Da qui in avanti vorrei quindi continuare questo contributo semplicemente attraverso qualche altro testo, iniziando personalmente e pubblicamente il processo di trasformazione dell’amico poeta nel poeta già amico. Scelgo la lealtà e la fedeltà assolute che Cristina aveva per sé stessa (nel bene e nel male) come principii guida della gestione del ricordo dell’amico e della permanenza del poeta. O almeno ci provo.

 

Per l’occasione mi concentro su due tipi di testi: quell in cui fanno capolino il “signor Mortis” [4] – e quelli che parlano dell’eredità del poeta - perché in questi giorni m’interessa a posteriori rileggere specialmente quel che Cristina “correndo / sempre avanti” [3] disse anzitempo della propria futura scomparsa e del proprio lascito artistico. 

 

In “Troppe fiches, signor Mortis” [4 ] il poeta siede con la morte al tavolo della roulette (“alto il tono della / partita”) e regge per un po’ la sfida, lo ascolta e lo osserva “che / finge e lo sa, che fa scappare I santi dalle / teche. (…) barando”. Ci vuole insomma coraggio per stare al gioco sporco del signor Mortis, soprattutto sapendo che la partita è impari in quanto lui bara (il gioco di parole macabre è mio qui involontario – o sta nascosto nel testo?) e si sa dall’inizio come andrà a finire (“Scordo, alla / fine chi io sia.”).

 

Il testo seguente nel libro [5] lo riporto qui di seguito per intero invece:

 

“Moriranno le passioni, nostre

criniere, passando

per strada coi colli

pesanti di lana, agili

gambe in avanti, dietro, di

lato. Le

guarderemo stupefacenti – almeno

come la vedo io – in questa

serata che sembra

mammina d’Europa. Tristi

e tonali, accese. Mai

vissuto un

tempo più madre di questo

ricordo di loro, care, nate

eterne, scolo del

mondo magari ma forse

vere, il

meglio di noi chissà, gregarie

comunque nella volata.

 

Le passioni qui sono le figlie del poeta, sono il meglio di sé (e difatti sono animali), non importa che morranno perché saranno tutte assieme fino all’ultimo, collettive/corali – segno sicuro che qui il poeta parla di sé stesso: “L’io, quando troppo presente, mi infastidisce, preferisco non parlare di me stessa in maniera diretta; spesso succede, ovvio, e in questi casi, cerco di rendere il mio io il più possibile corale o ironico.” [6]

 

Ho già scritto altrove [7] della natura profetica dello scrivere di Cristina e trovo naturale che in un testo recente [8] si colga una riflessione sull’affievolirsi del suo ruolo, sull’attenzione del mondo al suo dettato (come ogni profeta anche questo riflette sull’impatto del proprio messaggio): 

 

“Ci vorrebbero

giorni di grande udito per 

dire che sto sparendo. Su chi 

correranno, ora penso, i 

titoli della tele, giornali che 

che svuotano piatti

più lesti d’un ladro; io

zitto.”

Questo, riprendendo la citazione di cui sopra, è l’altro tipo di io di questo poeta – quello in chiave ironica: mentre il poeta sta sparendo e soprattutto quando arrivi al silenzio finale, come riempire la smodata attenzione mediatica per la sua voce importantissima? Lezione per i poeti che dimenticano che la poesia è per la maggior parte inascoltata o dimenticata.

 

E si arriva al testo-testamento [9]:

 

“Penso: non ci fossi più m’aprirebbero

con cerimonia, su fondo turchino e

le dita fari, leggendo quanto

ci misi a scalare

una casa vivendo. Sarebbe

la Verità, perch’avevo ragione

in tutto, e parlavo ai pesci del mare.”

 

dove il poeta morto è diventato tutt’uno con il suo proprio libro e i posteri lo aprono solenni e lo scansionano (“le dita fari”) portando alla luce la sua fatica di vivere. Di nuovo l’Ego ironico ipertrofico asserisce al tempo stesso il valore esagerato del proprio lavoro (“la Verità, perch’avevo ragione / in tutto”) e ribadisce la scelta obbligata o ostinata di parlare a chi non ascolta né può propagare il messaggio (“parlavo ai pesci del mare”).

 

Infine: Cristina era acutamente conscia che un poeta è sopravvissuto dal proprio lavoro quando questo sia di valore, ma che - sparendo il poeta - toccherà ad altri il lavoro di far brillare la sua opera. Questo rapporto tra il poeta e i suoi proseliti (che aspettano la sua scomparsa per attivarsi al servizio della sua memoria) è una delle forme esplosive dell’amore  - ovvero di quella forma di schiavitù che è l’eredità [10]:

 

“Ecco, lo

dico a chi mi capisce, all’idea tormento

d’esserci, che l’amore empie le

tasche di mine. E Lui farà 

faville vedendola

svenire, aspetterà il

via, ginocchio sul piancito, che

parli, alla

fine. Poi bravo “Sì!!”. Bagna

il buio alberi radi coi gradi del

famelico Ma, mentre astratta

sul lenzuolo con gatta, rimbalza

la baia notturna. “Sì! se ti serve uno

schiavo”.

 

Mi fermo qui e concludo mettendomi ancora una volta nel mezzo: durante il 2021 ho avuto il privilegio e la gioia di seguire (prima per lettera e poi durante la mia ultima visita a Ostia) la scrittura dell’ultimo libro di Cristina, che uscirà postumo.  È un altro campo minato di testi del tipo di cui sopra, in cui la prospettiva sulla fine e sul quel che segue si fa vorticosa, veloce e sempre più densa di emozioni – alcune nuove ed altre rivisitate – o dovrei dire ridigerite e poi rigurgitate. La mia menzione di quel libro che deve uscire postumo qui possa fungere da piccola anteprima cinematografica – sia pure nel rispetto dei diritti d’autore. Questo assaggio negato piacerebbe a Cristina che era sempre avida d’essere letta ma solo in prima persona e soprattutto in contesti da lei scelti. Non dirò altro per non rovinarvi il finale!

 

Riferimenti bibliografici

 

[1] “Se un ospite mi lascia la casa, io” da Madrid, Corpo 10,Milano 1987; seconda ed., Stampa 2009, Azzate (Varese) 2013

[2] Lettera di Franco Fortini a Cristina Annino, riprodotta in Magnificat (Poesie 1969-2009), Puntoacapo, Novi Ligure 2010

[3] Curriculum, in Gemello Carnivoro, Quaderni del circolo degli artisti, Faenza 2002

[4] Troppe fiches, signor Mortis, in Magnificat (Poesie 1969-2009), Puntoacapo, Novi Ligure 2010 https://rebstein.wordpress.com/2008/09/28/accordando-luce-con-vertebre-cristina-annino/

[5] “Moriranno le passioni, nostre” in Magnificat (Poesie 1969-2009), Puntoacapo, Novi Ligure 2010

[6] Intervista di Franz Kraunspenhaar a Cristina Annino: https://www.nazioneindiana.com/2007/12/27/scriverei-anche-di-un-sasso/

[7] Pietro Roversi, L’allarme ipnotico di Cristina Annino, Premio per la Critica “In realtà, la poesia” 2014

[8] Santa Sauna, con una foto di Teresa Mancini e un aforisma critico di Ugo Magnanti, Anzio, FusibiliaLibri, 2021

[9] Casa d’aquila, in Casa d'Aquila, Levante, Bari 2008

[10] Canna lunga, la notte ” in Magnificat (Poesie 1969-2009), Puntoacapo, Novi Ligure 2010

mercoledì 2 febbraio 2022

"Il libro ebbro" di Raffaele Marchi: una Vita Nuova del Ventunesimo secolo? di Piera Mattei



 Il libro si apre su alcuni versi e su altri versi si chiude. Altri versi sparsi o in linee compatte sono alternati alla narrazione in prosa. Sono versi, certamente, sono rime, ma non bisogna farsi trarre in inganno. Ci interroghiamo: che tipo di poesia è questa?

 

Modigliani, Rimbaud e Verlaine:

assenzio, laudano e Lagrein

 

Munch, Baudelaire e Van Gogh

 vedi sopra e inoltre Grog

 

Hemingway, Sartre, Bukowsky:

Rum, birra scura e whisky

.......

E così rimando per altre strofe.

 

Siamo, certo, nella parodia, sono questi distici etilici, come appunto recita il titolo. Ma di poesia, soprattutto al di fuori dei versi, in questo libro ce n’è davvero tanta, nelle pagine scritte in prosa. Raccontano episodi della vita e dell’amore di uno studente arrivato al bivio della maturità. Proprio l’amore è quell’inganno che lo trascina via dalla baldoria incosciente della giovinezza, col desiderio di fornirsi di una tana, meglio se è una comoda casa, dove vivere da solo con l’amata.  Può capitare così che un’agente immobiliare un po’ particolare, abbozzolata in un vestito giallo stretto ma lunghissimo e con gli orli impolverati, conduca la coppia nella casa che dà sulla corte dei bianchissimi gigli a schiere, antico miracolo dell’amore che va tenuto vivo attraverso l’amore. 

 

L’amore, qui, anche raccontato come una favola, è intenso e credibile, ma mai si concede i toni del sentimentale. Quelli dello scherzo, sempre. Qui il tono è sostenuto dall’ironia, dal riso: C’è qualcosa di spaventosamente sano nel ridere[...]Tu guarda i più bei poeti della storia, guardali! Guarda Baudelaire, guarda Ungaretti, guarda Puskin, guarda Campana, guarda Whitman, guarda pure Leopardi, guarda! Non sono dei cazzo di stercorari ghignanti con le spalle gravi di pazzia?

 

Versi e prosa, un prosimetro che tratti d’amore non può non richiamare il suo archetipo. Ma “Il libro ebbro” non può passare per una Vita Nuova dell’anno 2021, anzitutto perché, ad apertura di libro, all’opposto del sommo Poeta,  Raffaele Marchi si premura di  assicurare che personaggi, avvenimenti e luoghi sono frutto dell’inventiva dell’autore. L’altro carattere che lo rende irriconciliabile con il capolavoro del Dolce Stile è appunto il tono disperato-burlesco, di cui si è detto e riportato. 

 Ma allora perché mi è venuta in mente la Vita Nuova, anche se per negarne la  discendenza? Mi rispondo: perché si tratta di una storia d’amore, non di sesso, come nella maggioranza dei romanzi contemporanei. Anche l’atmosfera toscana, direi pisana, che nei toni talvolta traspare, contribuisce a risvegliare quell’associazione. Il sesso non è escluso, certamente, ma Marichka, l’amata, è tutta compresa e, direi, protetta, nello sguardo del suo amante. Il quale, tuttavia non ama solo lei, ma anche il vino, altra grande fonte e stimolo all’ispirazione, così da entrare in competizione e avere quasi la meglio sull’altra passione.

 

 Ho solo accennato alla bellezza, all’abilità della prosa di questo “Libro ebbro”. Le parole scorrono e scaturiscono le une dalle altre con un’abilità quasi acrobatica che mi ricorda Gadda, ma  questa scrittura è molto più facilmente godibile. Per fare un esempio, poiché questo è un libro che parla del presente, succede che un certo capitolo si apra su queste parole: ”Scoppiò il morbo di Pan, dovreste saperlo”. Una trovata davvero scanzonata quella di chiamare la pandemia con quell’abbreviazione che la trasforma in dispetto della divinità-principe dei satiri, così sottraendola a tutto l’affannoso parlare che se n’è fatto, e se ne fa, in resoconti quotidiani. Raffaele Marchi proietta la pandemia nella mitologia, senza tuttavia preoccuparsi di mantenersi stretto allo scherzo linguistico, attenendosi all’invenzione quel tanto che gli permetta però d’intitolare il capitolo seguente: “Dei satiri e delle ninfe, o l’arte di rincorrersi fuggendosi”.

 

 Ho conosciuto la scrittura di Raffaele Marchi dapprima nel suo lavoro di traduttore, per il libro “La strada fantasma” di Aleksander Snegirev, che uscirà per le edizioni Gattomerlino, proprio domani. Lavoro di traduzione che ho subito trovato straordinario, anche se mi era difficile confrontare la sua versione con l’originale russo. Ora, leggendo il suo “Libro ebbro” mi pare di capire che le due attività, quella di traduttore e quella di romanziere, nella scrittura di Raffaele Marchi si nutrano reciprocamente, restituendoci il profilo di un originale, direi audace, scrittore, di un agile, intelligente, ricreatore (conferisco, anch’io, a questa improvvisata parola una valenza doppia) della narrazione in prosa.


Raffaele Marchi– Il libro ebbro–Porto Seguro 2021