COMMMENTO A:
“I Ragazzi di Via Panisperna” di Gianni Amelio
4^scientifico A,
Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II, Roma
Il film “I Ragazzi di Via
Panisperna” ha fatto vibrare dentro di me molte corde: non perché sono un
intenditore cinefilo, ma perché sono un ragazzo profondamente appassionato di
matematica. Alcune tra le prime scene del film – quella in cui Ettore Majorana,
esasperato dalla poca eleganza con la quale un professore svolge un calcolo
durante una lezione, lo apostrofa con: “se qualcuno trattasse lei come lei
tratta la matematica, finirebbe in galera” e un’altra, poco dopo, mentre fa la
conoscenza di Fermi in occasione di una sfida di calcolo e gli dice: “in realtà
a me piace la matematica ma mi dà fastidio che tutti se ne servano” – fanno
immediatamente sentire allo spettatore l’amore feroce e possessivo di Ettore
per la materia. I posteri lo ricorderanno per i suoi contributi alla fisica ma
dal film io porterò come ricordo la sua passione per la matematica.
Gianni Amelio affronta moltissimi
temi su cui riflettere e uno dei più centrali è certamente il rapporto tra
Ettore ed Enrico. Nel ritratto dei due protagonisti il regista mostra gli
opposti esiti di uno stesso intenso percorso di vita votato alla conoscenza.
Entrambi sono uomini geniali ma affrontano la vita in modo diverso per via
delle loro storie personali e delle loro personalità. Stabile, positivo,
costante e concreto l’uno, quanto tormentato, introverso e mancante di buon
senso l’altro. Il primo finirà per
vincere il Premio Nobel e scegliere di non “avere rimpianti”, continuando a
vivere a pieno la propria vita di uomo e di scienziato; l’altro continuerà a dilaniarsi
e a distruggere il proprio lavoro (atto paragonato da Fermi all’assassinio di
un figlio) e a fare una fine da emarginato e disperato. Eppure sono legati da
un profondo legame di affetto e amicizia. La mia opinione è che ciò che li lega
così fortemente sia l’enorme e reciproca stima dell’intelligenza altrui. La
differenza di età tra i due è pochissima e malgrado il loro rapporto inizi con
Enrico come professore di Ettore, ben presto si troveranno su un piano di
parità. Anche mio fratello, Alberto, di
poco meno di quattro anni più grande di me, è un brillante studente di fisica in
una prestigiosa università americana.
Fino a poco tempo fa è stato per me il migliore degli insegnanti e
tutt’ora il più prezioso dei consiglieri. Ora, però, ci confrontiamo quasi alla
pari su temi scientifici, matematici e di vita, parlando per ore e estraniandoci
da tutto e da tutti. E malgrado la distanza fisica, di età e i nostri caratteri
alquanto diversi, siamo migliori amici.
Un altro importante
aspetto del film è, a mio parere, quello psicologico che permea molte delle
vicende, come per esempio la fragilità emotiva di Ettore o le insicurezze di
Enrico. In questo contesto, sono anche tanti i riferimenti del regista al
rapporto di Majorana con la madre, che si intuisce essere molto complicato. Il sogno di Ettore adulto che ricorda in forma
di incubo la scena di lui piccolo che deve esibirsi suo malgrado di fronte alle
signore amiche della madre, come se fosse un animale da circo mi ha fatto molta
tenerezza, in quanto anch’io da piccolissimo ero molto bravo con i calcoli
complessi a mente e, a volte, anche i miei genitori si inorgoglivano a farmi
dare dimostrazione delle mie capacità con i grandi – ma a me, per fortuna, ha
lasciato solo il ricordo di un gioco divertente. E poi ancora Ettore che dice, “è
mia madre che dispone della mia vita, ma io la lascio fare”, altra frase che fa
intuire un legame manipolatorio; e ancora, la felicità di quando si trasferisce
a casa di Enrico e Laura per qualche giorno e non vuole far sapere alla madre
dove si trova. Tutti spiragli di un
rapporto complesso che deve aver segnato non poco Ettore. Anche con la scena di
Ettore che, per scherzo, porta alla festa la cugina presentandola come la sua
fidanzata, il regista vuole forse accennare a qualche difficoltà di Majorana
con le donne.
Un tema ancora oggi attualissimo
affrontato dal regista è il ripetuto evidenziare il problema del reperimento di
finanziamenti per la ricerca, specialmente per un campo così innovativo - ed è
incredibile come nulla sia cambiato da allora. Anche oggi le scuole e le
università faticano a far capire ai nostri politici quanto sia fondamentale
investire soldi sull’educazione e sul sostentamento della ricerca. Penso che il
problema sia che i risultati di un investimento sull’istruzione si vedano solo a
lunga scadenza e purtroppo nella politica non c’è spazio per la lungimiranza –
poi, però, non ci possiamo stupire della fuga di cervelli, come in fondo
avviene anche nel finale del film con Fermi che emigra negli USA. Vediamo come
è solo grazie agli sforzi continui del Prof. Corbino, con le sue doti diplomatiche
e i suoi contatti politici, che i ragazzi di Via Panisperna ottengono fondi
sufficienti per andare avanti con i loro studi, “persino i miracoli costano”! Ho trovato buffa e significativa la scena
(che si ripete due volte nel film) in cui Enrico, vedendo una foto incorniciata
di Ettore vestito con un pomposo abito da gala per un evento ufficiale, prende
in giro il suo amico, quasi offendendolo dandogli del ridicolo. Enrico per
tutta risposta, gli risponde con la sua solita serenità che “è solo un piccolo
sacrificio che però aiuta a far raddoppiare i fondi per la ricerca”. Qui ancora
vediamo il solido buon senso dell’uno e l’insofferenza ribelle dell’altro.
Oltre alla politica come
mezzo per ottenere fondi, c’è anche la politica del regime fascista che fa da
sottofondo a tutto il film. Dalla voce
fuori campo all’inizio che esaltano la razza italiana, fino alla fine quando
sia Fermi (per via della moglie ebrea) che altri scienziati del gruppo di Via
Panisperna e da tutta Europa dovettero scappare per via delle leggi
razziali. Chi capisce e ama la scienza, invece,
sa che avanza quasi sempre grazie al gioco di squadra, grazie alla
collaborazione di menti eccelse che vedono solo la necessità di collaborare per
arrivare alla conquista di nuove scoperte e nulla hanno a che spartire con
assurde questioni di razza. A un certo punto nel film si ribadisce il concetto
che come uomini di scienza gli esseri umani sono tutti uguali, all’opposto di
dove c’è un solo uomo al commando, riferendosi a Mussolini immagino. Per fortuna, oggi, ovunque ci sia la volontà
di imparare e scoprire grandi cose, come per esempio nelle Università, al Cern,
nelle missioni spaziali, nelle basi scientifiche in Antartica, si cerca di
mettere insieme le menti più diverse per aumentare il fermento di idee.
L’amore per la fisica o
per la matematica sta dentro all’animo e richiede dedizione, tempo e sacrificio
– ma tutto questo sforzo è ripagato dalla soddisfazione della scoperta, dalla
conoscenza e dall’appagamento della curiosità. La scelta dei colori della
fotografia nel film mi ha molto colpito: tutto sui toni dei grigi e dei
marroni. Infatti, per chi è curioso, ambizioso, appassionato non servono
“trucchi” per superare le difficoltà di una vita di studio perché la ricompensa
è già nel percorso. Gianni Amelio riesce
perfettamente a trasmettere questo vigore intellettuale anche senza colori
forti. La scena nell’Osservatorio, quasi
in bianco e nero, dove Fermi esprime a Majorana la sua eccitazione all’idea di
penetrare il segreto del nucleo paragonandolo alla conquista di una stella e
all’appropriarsi della sua energia, è una scena pazzesca che non può non
emozionare qualsiasi giovane che ambisca a grandi cose nel mondo della matematica
o delle scienze. L’estate scorsa ho avuto la fortuna di vincere una borsa di
studio per un programma di matematica avanzata, “Ross Mathematics Program”, a
Columbus nell’Ohio, dove per sei settimane ho studiato Teoria dei Numeri. Non facevamo altro che fare dimostrazioni, sempre
più approfondite, dalla mattina alla sera tardi, compreso il fine settimana,
non dando mai niente per scontato neanche le premesse più semplici. Il motto era “Think deeply of simple things”
(pensa in profondità a cose semplici).
Ebbene, in quelle settimane, e anche quest’anno allenandomi tante ore al
giorno nella solitudine della mia stanza per le gare delle Olimpiadi della
Matematica, ho forse potuto intuire cosa vuol dire perdere il contatto con la
realtà, con le cose che ci circondano e immergersi pienamente in un sogno – che
spero che un giorno diventerà la professione della mia vita.
Purtroppo l’immersione
totale può diventare ossessione se non si hanno delle basi solide, come una
famiglia amorevole, una personalità stabile, la salute e una buona dose di
umiltà. Tutte cose che a Ettore purtroppo mancavano. E qui arriviamo al nodo fondamentale: la
scomparsa di Ettore. Non penso che
Gianni Amelio abbia voluto dare un’interpretazione univoca al mistero che
tutt’ora avvolge la scomparsa di Ettore Majorana. A me è parso però che l’idea che più spesso
affiora sia quella che, nella sua genialità assoluta, Ettore avesse intuito prima
degli altri che gli esperimenti di Via Panisperna avrebbero portato alla
fissione del nucleo e poi, inevitabimente, alla realizzazione della bomba
atomica. Questo tormento angoscioso si coglie principalmente dalla bellissima
scena nella campagna siciliana dove Ettore parla con il suo vecchio amico prete
e intravede un “miracolo orribile” in cui la terra verrà distrutta, finiranno i
semi e si morirà di fame. Il Prete ci ride su, ma Ettore dice “qualcuno questo
potere ce l’ha ma è cieco”, riferendosi probabilmente alle ricerche sulla
fissione di Enrico. La scomparsa quindi,
per suicidio o per scelta di nascondersi, come conseguenza del non voler
partecipare a un piano criminale. Anche
le due scene di quando brucia i suoi appunti – una volta per dispetto ad Enrico
che aveva chiamato la madre di Ettore per avvertirla che lui era ospite a casa
Fermi, e una volta in Sicilia dopo aver lavorato sul progetto che Fermi gli
aveva lasciato – sembrano voler dire che lui conosca la soluzione agli enigmi
dell’atomo ma non voglia divulgarla per paura di essere complice di un futuro
disastro.
Purtroppo in un disastro Ettore
è, suo malgrado, coinvolto ed è uno dei momenti a mio parere più terribili del
film. Quando Ettore si trova in Sicilia ed inizia ad insegnare l’aritmetica ad
una bambina di una famiglia contadina e molto ignorante. La bambina si appassiona ai suoi compiti intuendo
forse che è un modo per emanciparsi; ma un giorno, trovandosi all’aperto e stanca
di dover sempre accudire il fratellino, lo lascia piangere disperatamente pur
di non interrompere i suoi calcoli sul quaderno. Il bambino morirà bruciato dentro
casa per via di un incendio di cui nessuno si era accorto. Non so bene che senso abbia voluto dare il
regista a questo episodio terribile, ma forse dall’ottica un po’ alienata di
Ettore può essere letto come una metafora del pericolo del sopravvento della
voglia di conoscenza sulle responsabilità verso l’umanità.
Di questo film ricorderò
anche l’ironia e la bontà di Ettore Majorana, la sua fragilità, la pena che ci
fa provare Amelio nel condividere con Ettore la sua angoscia e insofferenza a
vivere in un mondo che a lui appare rallentato in confronto alla sua velocità di
pensiero supersonica e alle sue capacità immense. Ma la nota positiva con la
quale vorrei concludere, è che il film ci insegna che si può essere grandi,
anzi grandissimi anche senza soffrire i tormenti dell’inferno – ed Enrico Fermi
ne è l’esempio.