martedì 29 marzo 2022

Sistematica ibridazione tra reale e immaginario – Note di lettura a ‘La strada fantasma’ di Aleksandr Snegirëv di Isabella Capurso

  



Come ogni testo dotato di originalità e intelligenza, ‘La strada fantasma’ si presta a più letture.

Una lettura affezionata alle categorizzazioni potrebbe forse classificare il romanzo come un prodotto di meta-narrazione: un protagonista-autore fuori e dentro la finzione narrativa, una dimensione spazio-temporale prestata al meccanismo di una trama ricursiva e, letteralmente, impossibile (senza tuttavia sfociare nel magico), uno svolgimento appena consistente, piuttosto conseguito tramite episodi allacciati precariamente e il fil rouge di personaggi che, da figure interne alla narrazione, si fanno via via marionette, interlocutori, critici. Ora funzionali alla narrazione, ora voci controverse dotate di un’autonomia che, se pur fittizia, interroga il lettore circa il confine tra fantasia e realtà, tra autore-creatore e oggetti narrati. Nello svolgersi della storia, non vi è una gerarchia stretta tra gli eventi: questi si accumulano in maniera orizzontale uno accanto all’altro. Una regia che libera l’attribuzione di senso, dunque.

In linea con una tendenza trasversale a tutti i costrutti culturali contemporanei, il prodotto narrativo di Snegirëv chiama a una certa destrutturazione stilistica: l’incedere è liberato dai più tipici vincoli romanzeschi ed il patto tra autore anagrafico, scrittura autobiografica e intenti letterari conduce il lettore in uno spazio, appunto, meta-narrativo. Di lì, si può ricavare una seconda lettura, ovvero il portato filosofico che un’architettura di questo genere implica. Realtà e fantasia non solo si confondono, ma si contaminano al punto da mettere in dubbio il senso stesso del loro antagonismo. 

Cosa mi fa credere che io sono io, e il demone non è me? Può darsi che io sia lui, e lui sia me. Può anche darsi che non ci sia nessun me, ed esista soltanto lui?

Il demone di Snegirëv inevitabilmente ci riporta all’idea del ‘daimon’ ispiratore, insieme tiranno di ogni autore e tramite di divinità. In quest’ottica, lo scrittore offre una riflessione filosofica sulla produzione artistica ma, forse, più estesamente, sul rapporto tra realtà immaginata e realtà agita, sul confine tra noi e gli altri, sul rimescolamento, letteralmente, sensuale dei tempi passato, presente e futuro.

Ancora, il romanzo può essere letto attraverso i suoi elementi ricorrenti. I rifiuti, in prima battuta. Questi si stagliano all’orizzonte fin dalle prime pagine e, periodicamente, si ripresentano. L’immondizia di cui ci parla Snegirëv è un’immondizia antica, stratificata, inesorabile. Come è inesorabile l’umana pervicacia nel tentativo (fallace) di sbarazzarsene. I rifiuti sono sotterrati, dissotterrati, abbandonati, trascinati, barattati, inceneriti. Alla stessa stregua, oggetti vintage e apparentemente privi di senso narrativo compaiono e scompaiono dalla scena a interrogare sia il protagonista che il lettore: il boa dell’orfana, la zampa di cavallo impagliato, il vestito del nonno. Indizi del passato o di qualche dimensione altra ritornano, a torto o a ragione, nello svolgersi degli eventi. Un fatto, quello del risorgere, che magistralmente è fatto attribuire anche a uno dei personaggi. Il passato non è più passato. 

Così come il tempo, anche lo spazio di Snegirëv è soggetto a sollecitazioni ultraterrene. Lo spazio siderale è, sì, misterioso, ma anche costellato di biglietti obliterati. Ancora, si assiste ad una contaminazione di posizioni. Non v’è niente che non si possa immaginare  e anche ogni immaginazione subirà la sua dose di realtà. 

Ulteriori elementi ricorrenti a supporto di una visione ‘liberata’ (o destrutturata) del racconto, sono le rappresentazioni della strada. La strada è insieme la fu gloriosa via che ha visto la sfilata delle truppe napoleoniche e, ora, un lembo di terra dietro la casa, stratificato di rifiuti. La strada ospita personaggi ora reali, ora fantasmi. La strada è perduta per i sentieri del bosco dietro casa dove, nonostante la familiarità, ci si perde vergognosamente.

Il dispositivo ironico accompagna la narrazione e, dove c’è parossismo, c’è realtà, c’è politica. È, infatti, politica, l’ultima (temporanea) lettura che si potrebbe fare del romanzo. Forse (e qui consistono i limiti della scrivente che di storia russa sa poco, se non per il tramite dei tristi avvenimenti attuali) l’azione politica di Snegirëv non consiste in una critica più o meno palese che, pure, compare qua e là nel testo (le mostrine di un fasto passato vanamente ribadito, la povertà diffusa, i GULAG degli assassini poveri ma onesti, i riferimenti all’Ucraina e ai profughi), quanto piuttosto nel suo stile. Sciolto, irriverente, a tratti cinico, eppure, in tutto ciò, estremamente serio. 

In certe letterature, come quella ispanoamericana o lusitana, l’elemento magico e ironico entrano nel romanzo quando vi è una impossibilità storica di raccontare il reale tramite un dispositivo di verosimiglianza. Forse, ma è solo un’ipotesi, il senso di sistematica ibridazione tra reale e immaginario si mescolano, in Snegirëv, anche come forma di deriva dalla realtà storica? I personaggi narrati appaiono inerti, in un certo senso a-politici e, in ciò, esprimono bene un andamento culturale contemporaneo volto alla chiusura individualista (paradossalmente fondata sui Social). La rappresentazione di questa diffusa pallidità ideologica non è anch’essa densamente politica?

lunedì 21 febbraio 2022

Pietro Roversi per Cristina Annino (Arezzo, 11 dicembre 1941 – Roma, 28 gennaio 2022)

 





Il poeta e il suo amico ventriloquo

 

Nel Novembre del 2009 leggevo in rete tutta la poesia contemporanea che mi capitasse a tiro. Incappai nel sito in cui Biagio Cepollaro raccolse libri importanti che erano ormai fuori commercio, c’era il PDF di “Madrid”, il libro del 1987 con cui Cristina Annino vinse ex aequo nel 1988 il Premio Pozzale Luigi Russo. 

 

La prima poesia [1] bastò per catturarmi e non mi sono più liberato, né credo mi sarà possible sottrarmi a questo testo finché campo:

 

Se un ospite mi lascia la casa, io

le faccio domande, frugo ovunque, specie

nei materassi. Quando esco, è passato un ladro.

Ma non la dimentico, la ripenso. Dove mettono

l’amore gli altri? Che non sia visibile, un oggetto

ad esempio, mi terrorizza. Odore c’è, quasi

sale a volte fumo o cemento rigido, o quel

senso di lavato che dà le vertigini.

Mi porterei

dietro un cane se l’amore non dovesse essere

concreto. Come io credo.

 

Quale fu ed è la forza di questo testo per me: parte sparato, con l’immagine del poeta ospite (da amici si presume, erano gli anni in cui Cristina passava molto tempo a Madrid senza fissa dimora) e l’ossessione investigativa con la quale egli cerca in casa altrui le tracce domestiche dell’amore. Le immagini si scompongono e il visibile e l’invisibile si alternano come l’interno e l’esterno della cosa di cui si sta parlando. Il testo vive d’ambiguità e di polisemia (è l’amore concreto o astratto? È l’amore un luogo, un oggetto, un odore?). L’asciuttezza, il rigore, l’esattezza mi avvincono in questo testo, e persino quel che costituiva per Franco Fortini un aspetto problematico (da una sua lettera ad Annino: “Unica, ma seria, obiezione: ogni composizione si ciude su sé stessa, e questo mi va benissimo ma la sequenza rischia una specie di monotonia o di monomania, di iterazione immobile del procedimento.” [2]). Perché a me – anche grazie a quell ripiegamento su sé stesso - appena finisco di leggere vien voglia di tornare all’inizio (e il testo diventa un microcosmo).

 

Trovai il sito web del poeta e l’indirizzo E-mail, le scrissi : “Due righe per dirLe che per la prima volta oggi la leggo avidamente e divento subito un suo grande amico.”  E lei la sera stessa mi rispose: “La ringrazio, Pietro, non ci conosciamo, ma è bello quello che mi dice, sta leggendo Magnificat? A presto e, spero per me, con la stessa stima. Cristina Annino. Se diventiamo amici, dovremo darci del tu, non crede?”

 

Così iniziò per me l’avventura di lettore e allo stesso tempo di corrispondente epistolare di Cristina e poi dal 2014 (quando andai per la prima volta a trovarla a Roma) la nostra amicizia: il tutto con le difficoltà del caso, certo – ma il piacere, la meraviglia e l’emozione che trovo nei suoi testi sono rimasti forti come all’inizio, e finché lei è stata in vita - anche l’intensità la generosità l’intelligenza della sua compagnia.

 

Questo però è il poeta che nel suo Curriculum [3] scrive:

 

“Penso: vorrei fosse

nota soltanto la mia opera, io dieci

figli, portare – si dice? – una croce. Correndo

sempre avanti così mi ritorna lo spirito

indietro.”

 

associando il proprio lascito artistico (“la mia opera”) alla propria identità (“io”), alla discendenza che non volle avere (“dieci figli”, anche se poi suoi libri veri e propri saranno dodici) e tutt’assieme in un sol colpo anche alla difficoltà del vivere e all’assurdità/il ridicolo del parlarne (“-si dice?-”). 

 

Da qui in avanti vorrei quindi continuare questo contributo semplicemente attraverso qualche altro testo, iniziando personalmente e pubblicamente il processo di trasformazione dell’amico poeta nel poeta già amico. Scelgo la lealtà e la fedeltà assolute che Cristina aveva per sé stessa (nel bene e nel male) come principii guida della gestione del ricordo dell’amico e della permanenza del poeta. O almeno ci provo.

 

Per l’occasione mi concentro su due tipi di testi: quell in cui fanno capolino il “signor Mortis” [4] – e quelli che parlano dell’eredità del poeta - perché in questi giorni m’interessa a posteriori rileggere specialmente quel che Cristina “correndo / sempre avanti” [3] disse anzitempo della propria futura scomparsa e del proprio lascito artistico. 

 

In “Troppe fiches, signor Mortis” [4 ] il poeta siede con la morte al tavolo della roulette (“alto il tono della / partita”) e regge per un po’ la sfida, lo ascolta e lo osserva “che / finge e lo sa, che fa scappare I santi dalle / teche. (…) barando”. Ci vuole insomma coraggio per stare al gioco sporco del signor Mortis, soprattutto sapendo che la partita è impari in quanto lui bara (il gioco di parole macabre è mio qui involontario – o sta nascosto nel testo?) e si sa dall’inizio come andrà a finire (“Scordo, alla / fine chi io sia.”).

 

Il testo seguente nel libro [5] lo riporto qui di seguito per intero invece:

 

“Moriranno le passioni, nostre

criniere, passando

per strada coi colli

pesanti di lana, agili

gambe in avanti, dietro, di

lato. Le

guarderemo stupefacenti – almeno

come la vedo io – in questa

serata che sembra

mammina d’Europa. Tristi

e tonali, accese. Mai

vissuto un

tempo più madre di questo

ricordo di loro, care, nate

eterne, scolo del

mondo magari ma forse

vere, il

meglio di noi chissà, gregarie

comunque nella volata.

 

Le passioni qui sono le figlie del poeta, sono il meglio di sé (e difatti sono animali), non importa che morranno perché saranno tutte assieme fino all’ultimo, collettive/corali – segno sicuro che qui il poeta parla di sé stesso: “L’io, quando troppo presente, mi infastidisce, preferisco non parlare di me stessa in maniera diretta; spesso succede, ovvio, e in questi casi, cerco di rendere il mio io il più possibile corale o ironico.” [6]

 

Ho già scritto altrove [7] della natura profetica dello scrivere di Cristina e trovo naturale che in un testo recente [8] si colga una riflessione sull’affievolirsi del suo ruolo, sull’attenzione del mondo al suo dettato (come ogni profeta anche questo riflette sull’impatto del proprio messaggio): 

 

“Ci vorrebbero

giorni di grande udito per 

dire che sto sparendo. Su chi 

correranno, ora penso, i 

titoli della tele, giornali che 

che svuotano piatti

più lesti d’un ladro; io

zitto.”

Questo, riprendendo la citazione di cui sopra, è l’altro tipo di io di questo poeta – quello in chiave ironica: mentre il poeta sta sparendo e soprattutto quando arrivi al silenzio finale, come riempire la smodata attenzione mediatica per la sua voce importantissima? Lezione per i poeti che dimenticano che la poesia è per la maggior parte inascoltata o dimenticata.

 

E si arriva al testo-testamento [9]:

 

“Penso: non ci fossi più m’aprirebbero

con cerimonia, su fondo turchino e

le dita fari, leggendo quanto

ci misi a scalare

una casa vivendo. Sarebbe

la Verità, perch’avevo ragione

in tutto, e parlavo ai pesci del mare.”

 

dove il poeta morto è diventato tutt’uno con il suo proprio libro e i posteri lo aprono solenni e lo scansionano (“le dita fari”) portando alla luce la sua fatica di vivere. Di nuovo l’Ego ironico ipertrofico asserisce al tempo stesso il valore esagerato del proprio lavoro (“la Verità, perch’avevo ragione / in tutto”) e ribadisce la scelta obbligata o ostinata di parlare a chi non ascolta né può propagare il messaggio (“parlavo ai pesci del mare”).

 

Infine: Cristina era acutamente conscia che un poeta è sopravvissuto dal proprio lavoro quando questo sia di valore, ma che - sparendo il poeta - toccherà ad altri il lavoro di far brillare la sua opera. Questo rapporto tra il poeta e i suoi proseliti (che aspettano la sua scomparsa per attivarsi al servizio della sua memoria) è una delle forme esplosive dell’amore  - ovvero di quella forma di schiavitù che è l’eredità [10]:

 

“Ecco, lo

dico a chi mi capisce, all’idea tormento

d’esserci, che l’amore empie le

tasche di mine. E Lui farà 

faville vedendola

svenire, aspetterà il

via, ginocchio sul piancito, che

parli, alla

fine. Poi bravo “Sì!!”. Bagna

il buio alberi radi coi gradi del

famelico Ma, mentre astratta

sul lenzuolo con gatta, rimbalza

la baia notturna. “Sì! se ti serve uno

schiavo”.

 

Mi fermo qui e concludo mettendomi ancora una volta nel mezzo: durante il 2021 ho avuto il privilegio e la gioia di seguire (prima per lettera e poi durante la mia ultima visita a Ostia) la scrittura dell’ultimo libro di Cristina, che uscirà postumo.  È un altro campo minato di testi del tipo di cui sopra, in cui la prospettiva sulla fine e sul quel che segue si fa vorticosa, veloce e sempre più densa di emozioni – alcune nuove ed altre rivisitate – o dovrei dire ridigerite e poi rigurgitate. La mia menzione di quel libro che deve uscire postumo qui possa fungere da piccola anteprima cinematografica – sia pure nel rispetto dei diritti d’autore. Questo assaggio negato piacerebbe a Cristina che era sempre avida d’essere letta ma solo in prima persona e soprattutto in contesti da lei scelti. Non dirò altro per non rovinarvi il finale!

 

Riferimenti bibliografici

 

[1] “Se un ospite mi lascia la casa, io” da Madrid, Corpo 10,Milano 1987; seconda ed., Stampa 2009, Azzate (Varese) 2013

[2] Lettera di Franco Fortini a Cristina Annino, riprodotta in Magnificat (Poesie 1969-2009), Puntoacapo, Novi Ligure 2010

[3] Curriculum, in Gemello Carnivoro, Quaderni del circolo degli artisti, Faenza 2002

[4] Troppe fiches, signor Mortis, in Magnificat (Poesie 1969-2009), Puntoacapo, Novi Ligure 2010 https://rebstein.wordpress.com/2008/09/28/accordando-luce-con-vertebre-cristina-annino/

[5] “Moriranno le passioni, nostre” in Magnificat (Poesie 1969-2009), Puntoacapo, Novi Ligure 2010

[6] Intervista di Franz Kraunspenhaar a Cristina Annino: https://www.nazioneindiana.com/2007/12/27/scriverei-anche-di-un-sasso/

[7] Pietro Roversi, L’allarme ipnotico di Cristina Annino, Premio per la Critica “In realtà, la poesia” 2014

[8] Santa Sauna, con una foto di Teresa Mancini e un aforisma critico di Ugo Magnanti, Anzio, FusibiliaLibri, 2021

[9] Casa d’aquila, in Casa d'Aquila, Levante, Bari 2008

[10] Canna lunga, la notte ” in Magnificat (Poesie 1969-2009), Puntoacapo, Novi Ligure 2010

mercoledì 2 febbraio 2022

"Il libro ebbro" di Raffaele Marchi: una Vita Nuova del Ventunesimo secolo? di Piera Mattei



 Il libro si apre su alcuni versi e su altri versi si chiude. Altri versi sparsi o in linee compatte sono alternati alla narrazione in prosa. Sono versi, certamente, sono rime, ma non bisogna farsi trarre in inganno. Ci interroghiamo: che tipo di poesia è questa?

 

Modigliani, Rimbaud e Verlaine:

assenzio, laudano e Lagrein

 

Munch, Baudelaire e Van Gogh

 vedi sopra e inoltre Grog

 

Hemingway, Sartre, Bukowsky:

Rum, birra scura e whisky

.......

E così rimando per altre strofe.

 

Siamo, certo, nella parodia, sono questi distici etilici, come appunto recita il titolo. Ma di poesia, soprattutto al di fuori dei versi, in questo libro ce n’è davvero tanta, nelle pagine scritte in prosa. Raccontano episodi della vita e dell’amore di uno studente arrivato al bivio della maturità. Proprio l’amore è quell’inganno che lo trascina via dalla baldoria incosciente della giovinezza, col desiderio di fornirsi di una tana, meglio se è una comoda casa, dove vivere da solo con l’amata.  Può capitare così che un’agente immobiliare un po’ particolare, abbozzolata in un vestito giallo stretto ma lunghissimo e con gli orli impolverati, conduca la coppia nella casa che dà sulla corte dei bianchissimi gigli a schiere, antico miracolo dell’amore che va tenuto vivo attraverso l’amore. 

 

L’amore, qui, anche raccontato come una favola, è intenso e credibile, ma mai si concede i toni del sentimentale. Quelli dello scherzo, sempre. Qui il tono è sostenuto dall’ironia, dal riso: C’è qualcosa di spaventosamente sano nel ridere[...]Tu guarda i più bei poeti della storia, guardali! Guarda Baudelaire, guarda Ungaretti, guarda Puskin, guarda Campana, guarda Whitman, guarda pure Leopardi, guarda! Non sono dei cazzo di stercorari ghignanti con le spalle gravi di pazzia?

 

Versi e prosa, un prosimetro che tratti d’amore non può non richiamare il suo archetipo. Ma “Il libro ebbro” non può passare per una Vita Nuova dell’anno 2021, anzitutto perché, ad apertura di libro, all’opposto del sommo Poeta,  Raffaele Marchi si premura di  assicurare che personaggi, avvenimenti e luoghi sono frutto dell’inventiva dell’autore. L’altro carattere che lo rende irriconciliabile con il capolavoro del Dolce Stile è appunto il tono disperato-burlesco, di cui si è detto e riportato. 

 Ma allora perché mi è venuta in mente la Vita Nuova, anche se per negarne la  discendenza? Mi rispondo: perché si tratta di una storia d’amore, non di sesso, come nella maggioranza dei romanzi contemporanei. Anche l’atmosfera toscana, direi pisana, che nei toni talvolta traspare, contribuisce a risvegliare quell’associazione. Il sesso non è escluso, certamente, ma Marichka, l’amata, è tutta compresa e, direi, protetta, nello sguardo del suo amante. Il quale, tuttavia non ama solo lei, ma anche il vino, altra grande fonte e stimolo all’ispirazione, così da entrare in competizione e avere quasi la meglio sull’altra passione.

 

 Ho solo accennato alla bellezza, all’abilità della prosa di questo “Libro ebbro”. Le parole scorrono e scaturiscono le une dalle altre con un’abilità quasi acrobatica che mi ricorda Gadda, ma  questa scrittura è molto più facilmente godibile. Per fare un esempio, poiché questo è un libro che parla del presente, succede che un certo capitolo si apra su queste parole: ”Scoppiò il morbo di Pan, dovreste saperlo”. Una trovata davvero scanzonata quella di chiamare la pandemia con quell’abbreviazione che la trasforma in dispetto della divinità-principe dei satiri, così sottraendola a tutto l’affannoso parlare che se n’è fatto, e se ne fa, in resoconti quotidiani. Raffaele Marchi proietta la pandemia nella mitologia, senza tuttavia preoccuparsi di mantenersi stretto allo scherzo linguistico, attenendosi all’invenzione quel tanto che gli permetta però d’intitolare il capitolo seguente: “Dei satiri e delle ninfe, o l’arte di rincorrersi fuggendosi”.

 

 Ho conosciuto la scrittura di Raffaele Marchi dapprima nel suo lavoro di traduttore, per il libro “La strada fantasma” di Aleksander Snegirev, che uscirà per le edizioni Gattomerlino, proprio domani. Lavoro di traduzione che ho subito trovato straordinario, anche se mi era difficile confrontare la sua versione con l’originale russo. Ora, leggendo il suo “Libro ebbro” mi pare di capire che le due attività, quella di traduttore e quella di romanziere, nella scrittura di Raffaele Marchi si nutrano reciprocamente, restituendoci il profilo di un originale, direi audace, scrittore, di un agile, intelligente, ricreatore (conferisco, anch’io, a questa improvvisata parola una valenza doppia) della narrazione in prosa.


Raffaele Marchi– Il libro ebbro–Porto Seguro 2021



 

lunedì 10 gennaio 2022

Le sculture di Annalisa Ramondino tra arte raffinata e gioco un incontro di Piera Mattei



Per qualche motivo che non so spiegarmi, il breve articolo, che dedicavo qui su Lucreziana 2008 ad Annalisa Ramondino lo scorso 8 marzo, non figurava più su questa rivista-blog. Lo riproduco pertanto in omaggio a un talento  originale e gentile.




Ieri sono andata a trovare Annalisa Ramondino, all'ultimo piano senza ascensore di una tipica casetta di Trastevere, e ho fotografato alcune delle sue opere e anche alcuni giocattoli che i bambini africani usavano realizzare nei decenni passati con fili di ferro e materiali di scarto, che lei tiene esposti, gli uni accanto agli altri, in lunghe mensole a muro. 

Anche Annalisa s'innamora di piccoli oggetti senza utilità e senza valore, vecchie tavole, ferri e altri materiali, li taglia dà loro una nuova forma, una nuova vita.  Mi mostra un oggetto strano, un termometro dei Tuareg, mi dice, del mercurio ben chiuso nella parte finale del contenitore di una penna bic, adattato a ciondolo da mettere al collo dei bambini, per vedere se il mercurio si dilata e verificare così se il bambino ha la febbre. Mi mostra anche piccoli tavolini, dalle gambe lunghe e sottili, con piani ricavati da specchi antichi, che scrostandosi formano disegni originali, sui quali lei lavora.

Per isolare la piccole sculture  e poterle fotografare individualmente o in piccoli gruppi le ho collocate sulla scaletta che porta a un soppalco. Perché la casa è tutta lì, un'ampia stanza d'ingresso-con un angolo cucina, una piccola camera da letto e quel soppalco.

Annalisa mi mostra anche la terrazza, dove, mi dice, la vite americana si è ammalata, motivo per cui dovrà trovare un nuovo rampicante che crei un riparo dal sole d'estate. Vedo in un grande vaso una pianta d'agrumi e narcisi in fiore. 

In questa stagione ancora fredda una luce bellissima penetra in quell'appartamento sui tetti e accende i colori degli oggetti, collocati con amorosa armonia non solo sulle mensole, ma anche sulla tavola dove mi serve un caffè, sul radiatore del riscaldamento e in ogni altro angolo della casa, che tuttavia conserva un perfetto ordine.

Annalisa è nata a Palma di Majorca, dove il padre, un diplomatico, era console, ma nella sua voce la cadenza di Napoli, la città dove è vissuta a lungo è ancora sensibile. Le dico che il 27 aprile sarò a Napoli, per presentare un mio libro e lei mi risponde che a Napoli ormai va poco, solo per salutare vecchi amici. 

Cerco allora di ricordare quanto Fabrizia Ramondino, sorella maggiore di Annalisa e raffinata scrittrice nata a Napoli, scriveva di quella città:

Napoli, dove è così difficile vivere e che invoglia tanto a partire, che è così difficile abbandonare e che costringe sempre a tornare, diventa, più di molti altri, il luogo emblematico di una generale condizione umana nel nostro tempo: trovarsi su un inabitabile pianeta, ma sapere che è l'unico dove per ora possiamo star di casa. 

Annalisa mi dice che ormai, per lo più vive a Itri, luogo che era stato molto amato anche da sua sorella, alla quale Annalisa somiglia nella grande passione per i viaggi, per l'appartenenza a luoghi diversi. Ma come Fabrizia negli ultimi anni, così Annalisa adesso ama vivere con il suo compagno a Itri, dove Fabrizia è sepolta.




martedì 4 gennaio 2022

Espressività matura nella raccolta d'esordio di Rosaria Ragni Licinio "Interno rosso Marte", Gattomerlino edizioni






TRE POESIE DA "Interno rosso Marte" 

Rinascere sarà domani

e sulla bilancia

una coscienza enorme

per le lancette di Dio;

 

ma ritrovare oggi il passo,

il piede affossato

in un tempo e lo sguardo

come un binocolo,

 

è volare lontano,

è restare presente.

 

 

 

 

Ho allacciato le scarpe

senza spezzare le ossa

cumulo di cellule indurite.

 

Sono nata quando

ho toccato le stelle e

il serpente

 

ora nell’uovo già schiuso 

riconosco lo stordimento

di essere al mondo.

 

 

 

 

Quarantadue anni,

l’elmo sulla testa,

i pensieri compressi

ma mi tace la guerra. 

 

Nel mese di marzo

dico solo quello che vedo:

l’odore del sale,

la tua finestra e

i pesci d’oro, fuori corrente.

 

So benissimo che si muore

solamente d’estate

coi capelli baciati dal sole

e l’arsura che parla,

 

ma qualcosa mi brucia

anche il cuore,

qualcosa qui accende

un mare 

di memoria e di zinco.


 

La raccolta d’esordio di Rosaria Ragni Licinio si pone come una coraggiosa opera di spoliazione e disvelamento dei vissuti, in cui viene rigettato il cliché della poesia consolatoria o lirica, giungendo a un’espressività matura, a tratti cruda, cupa, sporca.(dalla nota critica di Mara Venuto)

 

 

 

 

In quest’opera prima di Rosaria Ragni Licinio, tutta la poesia è forza concentrica ed espressione di materia nervosa. Infatti se da un lato i versi tendono a riorganizzare la memoria generatrice con lo scopo di “far quadrare” la realtà attraverso fotogrammi precisi, dall’altro una coscienza meditativa offre al lettore un’ampia gamma di riflessioni sulla vita e sulla morte. (dalla nota critica di Antonio Bux)