martedì 9 agosto 2011

Gian Mario Villalta – Vanità della mente – Mondadori 2011


L'amore per i luoghi delle radici deve tramutarsi in giudizio d'estraneità, odio, desiderio di fuga, perché infine rinasca il miracolo del perfetto amore, realizzato attraverso la poesia? Per verificare l'autorità di questo mio pensiero e trovarne una conferma illustre sto pensando ora al Leopardi. In Leopardi come in Villalta il luogo che lega – con la nascita e la costrizione familiare – si mostra, in poesia, detestato e superlativamente amato.

Ma certo qui, in "Vanità di mente" il luogo natìo nel quale ci immerge Gian Mario Villalta, non ha nulla della dolcezza, benché "selvaggia", del borgo marchigiano.
Il luogo è tout court la terra. Anche se un paesaggio è disegnato all'intorno, quasi una cornice, lo sguardo resta con astio o amore, rivolto alla terra. I protagonisti sono qui creature strette alla terra: gli alberi, anzitutto, l'erba, poi gli animali e la famiglia d'origine. Gli alberi popolano questo libro con la loro presenza misteriosa, con la loro muta contemplazione: Sono venuto qui a guardare gli alberi / anche se è buio. […] Sono i miei pensieri più antichi / i rami nel buio, la terra guardata.
La famiglia accanto alle altre creature animali. Questa la sensibilità che ci colpisce, e ci coinvolge santificando l'amore per quelli – che vengono, per antonomasia, chiamati con il pronome possessivo (i miei, i tuoi) – nella totale immersione in tutto quanto è vita, o viceversa provando ad accettarne l'avverso fato, non dissociandolo da quello degli altri viventi.
Il giudizio d'estraneità a quel mondo viene incontro fin dalle prime pagine: Si poteva fare strage di animali selvatici / in quei giorni mentre l'acqua saliva. Ecco un'enunciazione, che forse da qualcuno si poteva ascoltare, in giorni d'alluvione, pronunciata con sorriso compiaciuto, come giusto risarcimento a chi subisce un danno, ma resta comunque, rispetto alla vita dei campi e dei boschi, il più forte, il padrone. Ma certo l'autore non vi consente: già la parola "strage" racchiude un giudizio, e significa profittare di un a catastrofe naturale per snidare e massacrare gli inermi. I tre versi che seguono, di nuovo senza esprimere esplicite condanne, mantengono un'amarezza contenuta e coprono le vittime di un velo di pietà. L'uso del vezzeggiativo non ha alcuna eco leziosa, ma sta a designare chi non può o non sa ribellarsi, o salvarsi. Diminutivo sta per vittima innocente, come vedremo accadrà nell'intera sezione Kindergarten: Ma le creature più lente, le bestiole della zolla / e degli alberi, restavano con le case / e le masserizie abbandonate dov'erano.
L'uso dell'imperfetto narrativo, ribadisce la condizione obbiettiva, storica dei fatti, mentre vi trema la compassione, la sofferenza empatica per quelle creature della lentezza, compresi Guerrino e la Bianca, diversamente lenti anche loro. L'ipocrisia quando si parla di poveri umani, respinge ancora più lontano l'accaduto, annulla la responsabilità, dislocando i fatti dal piano della cronaca locale a quello di una locale leggenda.
Altro giudizio d'estraneità, è diversamente, direi inversamente, espresso nella poesia immediatamente successiva: Entrò nella penombra / con un vitello in braccio, / grondanti, anche l'animale, e più pallidi / dei muri. Qui, l'uomo che porta in braccio il vitello come un figlio, il buon pastore, il buon allevatore, si staglia contro il vano della stalla come un'immagine mitica, che al confronto a rende miseri i protagonisti, cittadini, della storia. Essi lo avvertono e il loro imbarazzo si esprime in un tono innaturale di voce, in un'eccessiva gentilezza che maschera il disagio: non potendo rifiutare l'offerta / di un vino da poco, parlavamo troppo forte.

Una delle parti fondamentali del libro, scritta in brevi prose, s'intitola, vi avevamo già accennato, Kindergarten. Qui, con precisione chirurgica sono descritti i riti della crudeltà, che erano o sono ancora tramandati di padre in figlio, che sembravano o sembrano ancora, essere nell'economia delle cose, se si parte dal principio che gli animali domestici sono allevati per essere poi uccisi e in vario modo consumati. Cioè, in definitiva, se si accetta, e si dà per scontata, la logica del tradimento verso chi innocentemente si affida. Indimenticabile la vecchia addetta alla castrazione dei pulcini, e il galletto che rotea gli occhi "intorno con sdegno". In tutti, l'attimo che più reclama pietà, è quello che di poco precede il sacrificio, la consapevolezza di dover essere immolati. Così il coniglietto, quando la potenza degli arti si umiliava… la testa rilassata, come già sapesse, così (e passiamo all'ultima sezione del libro, Migrazioni) anche dei predatori, i cuccioli / battuti, per come accettano, per come sperano, / all'inizio, che non sia vero.
Estraneità e odio, dolorosamente coniugati con conoscenza e amore.
La terra è la vita. Permette la vita e conosce e contiene la morte, pazientemente accoglie la macerazione delle vite trascorse. La terra è la protagonista di una bellissima poesia a pag. 99: Pesta a ogni passo la terra che è stata ossa / e pellame, carie del legno, ossido. […]… la voce dei morti / è questo cedere appena del suolo / nelle gambe, su per la schiena / – non un lamento, un sussurro niente – sono i secoli nella terra, / i giorni con gli alberi e gli animali / questo cedere appena del suolo…

Dicevamo dell'immersione del mondo degli affetti familiari nella vita stessa della terra. Infatti in Kindergarten l'ultima creatura a cui va il diminutivo della compassione, accanto a Pulcino, Vitellino, Coniglietto e Gattini, è Fratellino. Il dramma della perdita improvvisa, per incidente, del fratello, è mostrato nella sua accecante irrealtà, come un evento che non modifica un corpo ma totalmente lo sottrae: Riconoscere chi? Non era lui, non era lì, non era altrove.

Tutto il libro può quindi essere inteso anche come un atto di tentata riparazione, per una colpa non commessa. Non per questo sentita come meno reale, anzi covata dentro, imperdonabile. Aver lasciato con astio la casa dei genitori (torno a usare questa parola, "astio", che ho trovato qui, nei versi, perfetta a definire un atteggiamento interiore) e il loro tipo di vita, carica sulla coscienza il peso delle disgrazie sopraggiunte, creando una psicologia come da sopravvissuto a una tragedia immensa, a una guerra, a un campo di sterminio.
Mia colpa è il titolo di un'intera sezione. Qui torna la contraddizione tra l'appartenenza e lo strappo che, molto presto, dentro si consuma. Da un lato, nelle intemperie, la preoccupazione, il tremore per l'andamento del raccolto, dall'altro il diverso tremore di rabbia ogni volta che il gesto della prepotenza arbitraria sugli animali lo feriva, come i colpi di sferza sugli occhi, quasi colpissero i suoi stessi occhi: Per il temporale tremavo, e ogni volta che la grandine / colpiva il raccolto, quando qualcuno cadeva / nella nuova contesa / del lavoro, ma soprattutto quando sferzavano / gli occhi degli animali / per umiliarli, era mia / la colpa.
Un libro che usa un lingua di tonalità insieme serena e struggente, una lingua che l'autore sembra trovare pronta, senza dover andare in cerca delle parole per le semplici e spietate vicende della vita, sempre uniche, sempre refrattarie a spiegazioni e razionalizzazioni, incurabili, inconsolabili. Una lingua che, nella sua sapienza, definirei, anche lei, terrena, naturale, pienamente adattabile e adattata alla contemplazione della vita e del dolore, come quell'osso fratturato, che lentamente cerca il suo equilibrio, smorzando la sofferenza lancinante, in una presenza-ricordo, in una modificata identità. Una scrittura che ha il ritmo essenziale e perfetto del respiro, anche lì dove si consuma l'affanno. Lingua come casa, lingua parlata, viva, che pertanto si adatta ai traumi, ai cambiamenti, nel più generale ciclo vitale. In alcuni versi Villalta sembra alludervi con sapienza autocritica: Così si forma la lingua famigliare, / così cresce e diventa quotidiana / la lingua propria del sentimento / di quegli unici corpi, di quei muri, / quella scansione condivisa del tempo. / La lingua che i figli falciano e disseccano / crescendo, disperdono di nuovo per distrazione, / per la pressione del desiderio, per amore.

Piera Mattei





lunedì 1 agosto 2011

Nella storia di un uomo, una data – di Piera Mattei


All'inizio dell'estate 2011 ho ricevuto dal suo autore questo piccolo tesoro custodito negli anni: la fotocopia di una copia a carta carbone di alcune poesie. Sulla prima pagina il titolo, Quaderno Inglese, e l'indice. Poi, in alto a destra, tracciata a penna, come chi a distanza di anni cercasse di fissare esattamente nel tempo quei fogli, una data: dicembre 1947. I caratteri dattiloscritti sono piccolissimi e la carta carbone spande un po'.

Sarebbe stato bello poter conservare quei caratteri nella stampa del libro. Avrebbero restituito con la loro vibrante e porosa impressione sulla materia-carta, la realtà di un salto temporale che direttamente ci porta a prima dell'invenzione dei computer. Sarebbero stato bello, non solo perché l'uso della carta copiativa rimanda a un'idea della scrittura come lavoro di precisione e fatica – a suo modo un manufatto – ma perché il leggero sforzo che la lettura di quei caratteri piccoli e sfumati comporta, subito dissuade da un incontro superficiale, costringe a porsi degli interrogativi, a cercare sul recente atlante della storia i fatti, il contesto culturale a cui si fa riferimento.

Avverti che si tratta del disseppellimento di scritti e di emozioni, mai veramente dimenticati. Anzi la scrittura sembra riferirsi a esperienze che ancora bruciano. Un "quaderno", appunto, messo da parte -– senza mai l'intenzione di separarsene davvero – solo perché gli eventi, gli incontri, e le decisioni esistenziali hanno richiesto, di lì a poco, la concentrazione su altre letture, su altri scritti, su teorie che per loro stessa definizione si staccano dalla lirica, dal canto. L'autore di queste poesie si sarebbe infatti dedicato, con totale concentrazione ed espansione a un tempo, al sociale, al confronto di teorie e indagini sul campo, al dato oggettivo, al calcolo delle sue costanti, della sua prevedibilità.
Ma nel 1947 il giovane che scrive non sa chi diventerà, ha solo ventun anni, tutto in lui è potenziale. Per temperamento e per il momento storico in cui sta vivendo, addirittura, direi, è un concentrato di potenzialità.
A momenti sente la poesia come espressione ineludibile, pensa che ciò che più conta per lui e conterà di più negli anni avvenire è proprio la poesia:

Se almeno Iddio mi concedesse ogni anno
Dono d'alcuni versi
E pur col sangue pagare li dovessi
E con l'avara salsedine delle lagrime condirli.

Parrebbe di udire un'eco romantica, alfieriana, o anche del Leopardi della poesia civile, ma il sangue di cui qui si parla non è immagine retorica. Del sangue che effondendosi porta via con sé la vita chi scrive ha già conosciuto la consistenza vischiosa, mentre il corpo dell'amico ferito a morte, compagno nei giorni della resistenza, provvidenzialmente per lui, lo ricopriva, durante i rastrellamenti:

Mi coprivi col gran corpo caldo
Bocconi sulla mia adolescenza impaurita
Ma il sangue io dico
Il sangue chi può fermarlo
Il sangue viscoso e dolciastro?

La ferita è mortale Leandro.

Dopo aver conosciuto la violenza liberatoria della lotta armata lascia ora esplodere la sua irrequietezza, la sua voglia d'andare, di vivere la sua particolare avventura nel mondo, questa sì, di marcata connotazione romantica:

È triste e bello a un tempo
Non aver casa e andare come il fiume

Tutta la breve raccolta è percorsa da riferimenti al viaggio, anche con la descrizione delle ingenue vedute di città d'arte, dentro gli scompartimenti di seconda classe (Il Viaggio). E affiora anche un'altra passione: quella di coniugare nella propria mente e nella propria sensibilità i mondi che lingue diverse lasciano affiorare. Meticciato linguistico, incontro di culture e teorie che diventerà più tardi una caratteristica preziosa del suo pensiero e dei suoi scritti:

Inutilmente passeggi. Eterna è la promenade
Di pietra liscia come un cuore morto

Si era trasferito dapprima a Parigi, poi in Inghilterra. Lì sta raccogliendo questi suoi pensieri, appuntando i suoi ricordi. Ha già certamente conosciuto la povertà, lo smarrimento, che drammaticamente affiora nella già citata Promenade, e, con dettagli poeticissimi, in Vicarege Road, infine con più sommessi toni, nei versi di Voi dovete perdonarmi:

Voi dovete perdonarmi
Perdonarmi perdonarmi
Vecchie panche del parco verde stinto
Se la notte qui siedo
Talvolta, solo,
E non pago affitto
Non ho pagato mai
Il mio debito cresce

Emergeva il ricordo di quali erano stati, quasi necessariamente in quei tempi, i primi incontri – incontri venali – con il sesso, nell'autocommiserazione di una prostituta non più giovane, che sembra prendere in prestito la sua ironia dal tenero sarcasmo di certo Gozzano (Lamento della sgualdrina povera):

Serviva bene una volta questa vecchia carcassa
Fra queste braccia c'era del caldo
Gli studenti erano timidi e goffi
Qualcuno si dava delle arie
Un maniscalco era il più naturale
E non parlava mai.

Il presente tuttavia era l'amore, le promesse, più spesso la solitudine e il freddo del cuore, lo strappo dei traslochi, delle partenze (Come piangono dentro), era il disagio di non conoscere la perfezione del proprio desiderio (Vicarage Road):

Come il bacio rubato nel vano di una porta
Una notte di nebbia
Il sapore di un frutto proibito
Hanno i giorni inquieti della vigilia.


"Tempo di uccidere" s'intitolava il romanzo col quale, in quel medesimo 1947, Ennio Flaiano vinceva la primissima edizione del premio Strega.
L'atmosfera culturale era in quegli anni vivacissima, carica di promesse. Le strade delle città erano ancora segnate dalle distruzioni e dai lutti della guerra, ma nei vivi, che si sentivano, con senso di colpa e incontrollabile gioia, indegni o fortunati sopravvissuti, era ormai tempo di sanare, di edificare, di ridere, di saltare, tempo d'amare, tempo di pace, come appunto recita, nell'opposto positivo, l'Ecclesiaste, da cui il titolo di quel romanzo era tratto:
tempo di uccidere, e tempo di sanare; tempo di distruggere, e tempo di edificare
tempo di piangere, e tempo di ridere; tempo di far cordoglio, e tempo di saltare;[…] tempo di amare, e tempo di odiare; tempo di guerra, e tempo di pace.

Per un giovane uomo pieno di talento, desideroso di vita, assetato di cultura, colmo di progettualità, era tempo di vivere. Di questo ci parla la raccolta, del coraggio e degli scoramenti, del piacere e delle dolorose complicazioni che comporta una vita pienamente etica, cioè proiettata infine verso le proprie libere scelte.

Piera Mattei