giovedì 22 gennaio 2009

Piera Mattei su Lina Mangiacapre


Lina Mangiacapre – Amazzoni e Minotauri – Raffaelli 2008

Lina Mangiacapre merita quest'attenzione: due personalità della cultura, Elio Pecora e Adele Cambria, hanno voluto rendere omaggio all'autrice del libro, affermandone la profonda personalità poetica. Li incontro alla presentazione, alla Bibli di Roma. Elio Pecora firma anche l'introduzione al libro, Adele Cambria una postfazione commossa in cui ricorda la lunga amicizia, racconta un evento divertente e poetico nella cornice di un giardino d'aranci bergamotti e limoni, all'ombra di una palma. Insieme a loro l'editore Raffaelli, molto convinto della sua scelta: non conosceva Lina prima di leggere queste poesie che ha trovato molto belle, così da dirsi pronto a ripetere l'esperienza con altre pubblicazioni. C'era anche la sorella di Lina, Teresa Mangiacapra (sic!), che è rimasta per lo più silenziosa. Anche se l'editore non l'avesse ribadito era evidente a tutti, o almeno a tutti quelli che l'avevano conosciuta o anche solo incontrata sempre a fianco della sorella: è lei che ha voluto questo libro postumo, che ha contattato l'editore. Rifletto che la grande personalità di Lina trovava in lei e nelle altre donne del gruppo Nemesiache l'eco, la conferma, l'approvazione, che le erano necessarie. Lina e le Nemesiache, l'una prendeva energia dalle altre e viceversa, un modo nuovo di stare insieme tra donne artiste, ma anche una riedizione in chiave moderna del greco tiaso, ha scritto Adele Cambria.
Lina Mangiacapre e il Mito, Lina Mangiacapre e il suo Mito. Dobbiamo parlare certo delle sue poesie, ma di Lina non si può parlare – come per altri è legittimo o addirittura preferibile – ignorando il modo con cui si presenta e si rappresenta al mondo e a se stessa. Lei stessa, il suo corpo, il suo abbigliamento davano forma a idee, proposte esistenziali che avevano radici nella storia, in particolare nella storia recente del femminismo, ma in qualche modo dalla storia si allontanavano, per trascenderla appunto in creazioni dove parola e immagine si fissano con forza paradigmatica. Se qui mi soffermo a ricordare il corpo sottile, la statura aumentata da un cappello a cilindro, gli enormi occhiali a farfalla – uno schermo e una sfida – i critici formali troveranno forse da ridire, ma, tanto per intenderci, stiamo parlando di una protagonista del femminismo degli anni settanta, le forme che chiedono di essere rispettate sono altre. La corporeità, la costruzione o la libertà nel proporre la propria immagine, qui sono imprescindibili.
Sulla bandella sinistra del libro che riporta in sintesi i fatti, la vicenda artistica di Lina Mangiacapre, non compaiono, accanto al suo nome, le date della sua conclusa vicenda umana. Piuttosto si dà particolare risalto all'anno 1970, quando Lina fondò il gruppo delle Nemesiache, al 1976, quando nell'ambito degli Incontri Internazionali del Cinema di Sorrento ideò e organizzò la prima rassegna di "Cinema delle donne", al 1996, anno in cui realizzò per la Presidenza del Consiglio dei Ministri un videospot per celebrare il cinquantesimo anniversario del voto alle donne.
Nascita e morte biologica sembrano essere, parlando di lei – talvolta credo che lo siano in assoluto – dettagli che riguardano gli uffici dell'Anagrafe, non la storia di una persona. Questo è tanto più vero quando si ha a che fare con un individuo che ha in sé la forza del Mito: il mito / lo afferro e lo inchiodo / nel tempo della mia / volontà, scrive in Pentesilea e Achille. Non proprio ad apertura di libro, come è consuetudine tra le Nemesiache, ma dopo averlo scorso più volte, questi versi mi sono venuti incontro e si sono fissati come "un" possibile ritratto di Lina Mangiacapre.
Un altro lo trovo in Cerchio del Labirinto, nell'ossimoro, "orgia di gelo":
Non so se il tempo / la porta sul nulla / la cappella i morti / la pioggia / sangue e fuoco / di antichi camini / possa riscaldare / dall'orgia di gelo / il mio corpo.

La prima poesia del volume è tuttavia dedicata non direttamente alle amate figure del mito bensì al vento, simbolo della libertà ma anche dell'impossibilità di radicarsi, del destino che si svolge tra le cose della terra, come fossero sollevate al di sopra della terra stessa. Trovo qui parole che torneranno con grande frequenza: bacio, baciare (mi sono persino interrogata sull'intensità di questo desiderio di contatto orale, quasi una richiesta di nutrimento, desiderio in fuga di sentirsi nutrita) capelli, galassie, Medusa, ali, volare, fuoco, Amore…
Il cielo, gli spazi. In Tremendo scoppio le metafore sono tutte prese dall'astronomia. Ma i buchi neri, ad esempio, sono veramente metafore dei movimenti e delle dinamiche nei corpi celesti o luoghi della psiche? Cito: è la fine del tempo / precipiti nel buco nero / evapori energia / altrove. Questa poesia in cui, quasi eccezionalmente, figure e racconti mitologici sono assenti, elabora un sentimento del tempo che si dimensiona all'infinità dello spazio. Il duello tra un io-io e un io-tu, l'immagine speculare-complementare, la gemella impossibile che percorre il libro, qui si risolve in una catastrofe primaria, nella scomparsa della seconda nella prima: la tua massa / si è infranta/ sulla corazza / di una impossibile / collisione / la mia repulsione / ti ha risucchiata / nel vortice di un buco nero.
In alcuni casi tuttavia sembra possibile che il "tu" sia rivolto veramente a un interlocutore, altra/altro, col quale non meno che con se stessa è ingaggiata una lotta cruenta, se non all'ultimo sangue, vedi in Pentesilea e Achille: Achille lo stupro io / e rido delle / sue labbra oscene / che si spalancano / su di me / il mito è stravolto / afferro il suo piede / mordo il suo calcagno / lo stacco lo sputo. Altrove il mito prende l'avvio da una contemplazione e dà dell'immagine in cui si immerge un'interpretazione favolistica, come nelle leggende classiche. E' il caso di La freccia dell'amazzone, una poesia che giudico tra le più belle della raccolta. L'incipit rende un paesaggio assolato e distante, il ritmo – con l'inconsueta adozione di tre versi successivi di pari lunghezza e la ripetizione del verbo – simula un lento andare a cavallo: Era l'alba, era un' altra / era una sconosciuta / le cicale cantavano / impazzite / operai pazienti / battevano sui sassi / percussioni monotone. Siamo in uno scenario urbano, o comunque urbanizzato contrassegnato com'è dal suono monotono di operai al lavoro, che si mescola al canto delle cicale; l'amazzone è assorta in una malinconia struggente, i baci del sole non riescono a scaldarla (quel freddo che sempre ritorna!). Poi d'improvviso uno scarto, una rivelazione: il sole con tutto il suo calore la corteggia ma il desiderio dell'amazzone non è rivolto a lui, bensì all'astratta, all'irraggiungibile linea dell'orizzonte, desiderio di conquistare l'infinito, di fermare un'immagine in perpetuo allontanamento: lei voleva abbracciarla / quella linea sottile / che univa il cielo e la terra / l'orizzonte fuggiva / impaurito / la sua passione selvaggia / si spostava oltre ogni possibile / abbraccio / ma la freccia dell'Amazzone / folle d'ira / ogni volta / lo uccide / nel sangue del tramonto. L'ira dell'amazzone (di omerica memoria come la sua freccia) è ira contro se stessa, per il suo desiderio di un abbraccio impossibile, percepito come fuga impaurita dell'altro, come rifiuto. Così la sua vittoria sarà, con violenza omerica, quella di un'amante spietata e autopunitiva, ripetizione dello strazio, uccisione dell'oggetto amato, ogni giorno, all'infinito.
Piera Mattei