mercoledì 23 aprile 2014

Piera Mattei – La consistenza ontologica dell’io – Valerio Magrelli – Sangue amaro – Einaudi 2014





La consistenza ontologica dell’io


Valerio Magrelli – Sangue amaro – Einaudi 2014

C’è sempre grande attesa intorno a un nuovo libro di Magrelli, grande aspettativa.
L’ impressione alla prima lettura è che questa raccolta voglia lasciarci con più sete, che già dal titolo non ci permetta di presagire, né tanto meno ci prometta, una simpatetica rispondenza, che veramente, anche per Valerio Magrelli, come per Sanguineti, l’amata Poesia sia metà cultura, metà idiosincrasia, per citare il verso che lui, riferendolo credo anche a se stesso, dedica al poeta ligure.
Magrelli ha però la sua inconfondibile cifra: leggibilità, asciuttezza e compostezza, gioco letterario intelligente e ironico ma anche, nel più grande pudore, un’assoluta sincerità, “un cuore messo a nudo”.

Il Sangue amaro è anche il titolo dell’ultima sezione del libro, quindi apriamolo da lì, sulla poesia omonima, che formalmente si presenta come la parodia della pubblicità di un amaro, che si tiene quindi tutta sul paradosso e l’ironia:
C’è chi fa il pane.
Io faccio il Sangue Amaro.
C’è chi fa i profilati d’alluminio.
Io faccio il Sangue Amaro.
C’è chi fa progetti per lo sviluppo aziendale.
Io faccio il Sangue Amaro.
Io mi faccio il Sangue Amaro.
È una specialità della casa, sin dal lontano 1957.

Il pronome personale di prima persona compare in maiuscola, dopo un punto, a inizio di verso per quattro versi su otto. Per tre volte ripete Io faccio Sangue Amaro, come se Sangue Amaro fosse un marchio di fabbrica. La quarta volta tuttavia ecco, apportando leggere varianti, apparire la frase che ha dato origine alla poesia: Io mi faccio il Sangue Amaro, un’espressione del parlare comune, che indica la disposizione a soffrire di tutto, a prendersi arrabbiature, come si dice con altra frase del parlare comune. L’autore gioca su due elementi di quella frase, da un lato restituendo al verbo fare il suo primo significato, di attività dell’homo faber, il fare artigianale-industriale, dall’altro rendendo sostantivo l’aggettivo amaro che diventa (Sangue Amaro) il nome depositato di un malefico liquore.

Centralità dell’ io, manipolazione e gioco di parole e significati, al fine di dire tutto ma sdrammatizzando, o guardando come dall’ alto, con un lieve ghigno, al burrone della  propria disperazione.
Nella stessa sezione, in altre poesie, pronomi e aggettivi di prima persona – quasi un’ossessione – come a volersi rassicurare della consistenza ontologica di quell’io da cui, chi scrive quei versi, come tutti, non può separarsi (Raccoglimento).
Martellante è l’interrogativo sulla forma, sullo stampo della propria personale esistenza:
Invisibile e invincibile / è lo stampo che porto dentro di me, / stampo del mondo impresso a me nel mondo/ e che mi fa essere al mondo / soltanto nella forma dello stampo.
Versi in cui le parole mondo e stampo nella loro  struttura analoga (bisillabi con la finale in –ndo,– mpo) rimbalzano come ottuse biglie tra un mi e un me che reclamerebbero la loro originale giustificazione nell’universo.
Ancora, sempre nell’ultima sezione, mi soffermo sul primo verso di un’altra drammatica poesia, poesia di fuoco, di incubo d’incendio:
Sono una città incendiata
dove il verbo è alla prima persona e il predicativo è un nome che indica una collettività. Una visione-patimento notturno che acquista il valore di un superlativo, mentre l’identificazione del proprio corpo con un luogo definito e circoscritto indica l’identità tra un io che brucia e la sua prigione esistenziale.

Anche in altre sezioni del libro ascoltiamo una voce che quasi non disciplina la pronuncia del suo io, che usa il pronome di prima persona e il corrispondente aggettivo possessivo, per dissipare il terrore che, per esempio nell’attraversamento delle infernali selve burocratiche, gli venga definitivamente sottratta l’identità:... mi prende acuta nostalgia  / per una forma di vita estinta: la mia.
Altrove, come nella poesia dedicata al mese di Marzo (alle idi di Marzo), cerca d’incitare se stesso a essere pronto, reattivo rispetto agli agguati dei falsi amici:
Tu quoque?”. Non così./ Meglio: “Ego quoque!”sostituendo al passivo incredulo interrogativo, la forza di un esclamativo assertivamente accentuato sull’io.

Siamo tornati alle prime sezioni del libro quelle che più chiaramente rivelano l’amore per la geometria, per un ordine imposto a suggerimenti e suggestioni non richiesti, a un rumore di fondo che occorre smorzare e disciplinare per non soccomberne.
Nella prima sezione le poesie procedono infatti a due per due (Coppie di nomi propri), anche in forme chiuse a cominciare da sonetti di stampo elisabettiano o con il ricorso frequente alla rima.
I riferimenti al mondo delle arti visive (body-art, visual-art), della musica, della letteratura, della divulgazione scientifica sono adottati con estrema semplicità, come chi si muova tra gli oggetti di tutti i giorni, che pure – soprattutto utensili e suppellettili del bagno: doccia, spazzolino, phon – abitano queste pagine.

Molta acqua vi scorre, una rete di tubi avvolge la casa, e un ruolo importante riveste il bagno come luogo non solo di lustrali purificazioni ma anche di intuizioni, di rasserenanti rivelazioni:
Ingegnoso, mio figlio si chiude nella doccia
incolla un foglio al vetro, dall’esterno,
e per un’ora immerso nel vapore,
impara a memoria Ugolino.

Scendono l’acqua e i versi, lui sussurra,
mi costa una fortuna, ma alla fine
esce lavato, profumato, pieno
zeppo di endecasillabi.

*****

Mi lavo i denti in bagno.
Ho un bagno.
Ho i denti.
Ho una figlia che canta
di là dalla parete.
Ho una figlia che ha voglia di cantare
e canta.
Può bastare.

I figli, la famiglia, sono il tremendo tesoro/ che fa argine al ciglio del non-essere. Sono possesso geloso. Dichiarata e perfettamente descritta, la gelosia, in una poesia che parla di un segno quasi invisibile, sul volto della figlia, traccia del graffio di una compagna:
...
La seguo di continuo col mio sguardo,
la cerco, nella speranza di non trovarla,
la trovo, col rimpianto di averla cercata,
ma è più forte di me, è la stessa forza
insopprimibile della gelosia, forza dell’organismo
che nutre il suo male: conoscere. Che sarà mai!, mi dico,
e intanto frugo avidamente
per rintracciarne
la curva, segno e solco irreversibile.

Come è impossibile salvare il volto della figlia dalle impronte che il Tempo vi imprime, così altrettanto impossibile è penetrare nella mente e nella sensibilità della sua donna immersa nella lettura. Questa impossibilità, l’autore chiama crudeltà.
La lettura è crudele. Undici endecasillabi in forma di ipertesto compongono un poemetto d’amore e frustrazione. Esprimono il tentativo di entrare nell’intelligenza dell’altra, nell’atto stesso che lei la applica, con concentrazione, ad altro, nella profonda relazione con questo altro-pensiero. L’unica soluzione è l’attesa, tessendo nel gioco dei versi, le possibili varianti dell’esclusione. Rivelando in tal modo cosa resta nel nòcciolo della personalità di ogni adulto: un bambino che si sente disperatamente solo quando non gli è concesso di disturbare la concentrazione dei grandi, di penetrare nel loro  pensiero, avvertito come astratto, assoluto competitore.

Ogni tragedia nasce lì, nell’infanzia. Anzi nasce con la nascita, come afferma il pastore errante rivolto alla luna: è funesto a chi nasce il dì natale. Dì natale quindi come data non scelta, irruzione nel mondo subìta. Non ci sarebbe niente da festeggiare quando qualcuno viene al mondo, non ci sarebbe niente da festeggiare nel Natale cristiano. E se si viene al mondo senza volere, il matematico esatto contrario del giorno della nascita non è il giorno della morte, ma quello della morte volontaria – eutanasia, suicidio – di cui Montaigne reclamava la bellezza, parlando dell’usanza dell’Isola di Ceo.


Altri potranno concentrare la loro attenzione su altre poesie di questo libro. Alla vasta cultura che sottintende abbiamo solo accennato, e abbiamo forse trascurato del tutto i molti spunti socio-politici. Qui abbiamo accentuato quanto più intensamente ci corrisponde. Nella sua essenza più profonda “Sangue Amaro” ci sembra il libro di un grande pessimista, che tuttavia, contraddizione dolorosa, vuole essere ed è buon padre, che dai sentimenti gelosi e tenerissimi verso gli abitatori del suo nido ricava ispirazione. È anche il libro della maturità, della piena e riconosciuta maturità, come l’età in cui non tanto si diventa saggi quanto si prende per sé, come naturale e acquisito diritto, la libertà di dire, anche di gridare, lo scontento, la disperazione, e infine anche il fastidio, l’idiosincrasia – come nel folgorante haiku Contro l’abuso di haiku – nei confronti di vizi e vezzi letterari.

Foto prese alla presentazione del libro "Cercando una città " di Pietro Spataro, Manni editori (Roma, Campidoglio 2007)
nella foto in basso: Pietro Spataro, Anna Grazia D'Oria, Piera Mattei, Valerio Magrelli, Pietro Ingrao