Chiudendo il libro, questa la sensazione visiva che rimane.
Rumori attutiti, sguardi, gesti silenziosi. Tristezza, sì tristezza, quasi come
neve, spruzzata tutt’intorno, sulla bellezza che lo sguardo selettivamente
cattura.
Resto ammirata. Difficilmente mi sono imbattuta in una
totale mancanza di retorica e abbellimenti, in un libro dove il cielo e le
natura e anche il sentimento religioso sono protagonisti assoluti. Se la verità
è la dote assoluta della poesia, qui ascolto una voce tenera e aguzza,
tagliente e vera.
Elio Pecora scrive nella prefazione di ritrovare qui modi
appresi dalla voce di Amelia Rosselli e dai suoi discordanti accordi. Credo che
Natalia Stepanova abbia in comune con Amelia Rosselli quella scelta di fare
poesia in una lingua che non è quella in cui il suo primo pensiero e le sue
prime esperienze si sono formate, con l’esito di caricare ogni parola, ogni
aggettivo, ma anche ogni sguardo di una dose di meraviglia, di reinvenzione, di
novità.
Cito, come esempi, alcuni gli incipit, dapprima senza
neppure selezionarli, dalla prima alla sesta poesia del libro:
Sarebbe cosa buona concedere/ Al poeta straniero un vocabolo
nuovo. / Sarebbe generoso riconoscere/ Al cuore barbaro il sentimento;
*
Mi piacerebbe una poesia breve, / Un componimento che abbia
dentro / Un segreto, una grazia da amare;
*
Il misterioso lavoro delle api / Procedeva imperturbabile /
di miele selvatico e amaro;
*
Ignorare o essere immacolati / Dalla conoscenza onnisciente
/ Forse è lo stesso che essere /
Immortali o innocenti
*
Il desiderio della neve è in me, / Del sentiero lindo che
porta a casa, / Di fanciullezza rimane e stelle grandi
*
Ho steso le coperte di piume / Alla tramontana del vento /
Per respirare l’aria di neve.
Una voce dal lessico essenziale, dalla sintassi lineare, con
la scelta di frantumarla con la maiuscola a inizio di verso, che, da principio percepita come un ostacolo, finisco per accettare. Senza pretese di
manipolazioni o d’avanguardia, quella sintassi si trova originalmente
reinterpretata.
Lo sguardo è rivolto al cielo, a cui Stepanova parla o di
cui parla con l’ironia riservata agli amici stretti:
Luna non fare la morta, (incipit pag.16); Lassù nel cielo
passò un pesce spada / Di vaporose nuvole con una bocca / Da taglio, da
apriscatole.(incipit pag.20)
Ma il cielo è anche dimora di angeli, fa pensare all’idea di
Dio quasi come un dato di fatto, anche se con quel fatto in polemica: Non credo
più / Al Dio degli uomini.
Nel silenzio parlano a Natalia le statue e i resti della
città dove ha scelto di vivere. Anche
nel modo in cui si rapporta alla classicità romana c’è, come per la lingua,
l’amore di un’appartenenza scelta, non casuale.
Così è rivissuto il trapasso dalla classicità all’era cristiana: Gli dei
che per conto loro furono/ Perfetti senza morte, morirono, / E noi, che
raccontammo bugie / Alle ombre portate via dal vento, / Accogliemmo un Dio
Nuovo / Con la promessa della salvezza.
Ascolto ben calibrati echi dickinsoniani. Negli ultimi versi
della breve poesia che riportiamo per intero, quella degli ultimi versi della
poesia 449 “Morii per la bellezza” della grande Emily: E come nascere / Sarà
morire / E Tutto quello / Che c’è stato in mezzo / Diverrà il nulla; / Inarrivabile agli occhi / Alle labbra, alle lacrime. Nel concetto di ciclico
divenire e morire di “In quel di primavera”, trovo la stessa serena
consapevolezza della poesia 813 “Questa polvere immobile fu signori e dame”. E ancora
altri echi dickinsoniani nella frequente affaccendata presenza delle api: Sono
un’ape e sono una regina, / Sono un’ape gialla come il sole –/ una punta di
veleno nel pungiglione[...] Sono un’ape e gioco / Con un fiore d’acacia in
terra; / A luglio ha nevicato tenue il fiore/ Sull’asfalto di Roma
Natalia Stepanova – Il sentimento barbaro – La vita felice 2014