venerdì 20 maggio 2016

“Ironia e potenti metafore come essenziali rimedi nella poesia “clinica” di Juris Kronbergs” di Piera Mattei

Mi trovo a parlare in pubblico di Juris Kronbergs per la terza volta
La prima volta fu proprio alla Biblioteca Nazionale di Riga, luogo bellissimo, in una sala collocata in posizione aerea in vista del fiume.
La seconda volta è stato in quel luogo affollato che è la più importante celebrazione libraria della capitale, Più libri Più liberi. Tutte e due le volte mi  sono trovata accanto Juris Kronbergs, l’autore di cui ho tradotto e pubblicato l’opera più nota Vilks Vienacis col titolo “Lupo Occhio solo”. E mi sono trovata anche con S.E. l’ambasciatore la sua  gentilissima moglie, che ringrazio per ascoltarmi parlare per la terza volta di un libro che amo.
Veramente oggi sono a parlare brevemente di quel libro e del suo seguito, perché sempre nelle edizioni Gattomerlino in cui è uscito “Lupo Occhio solo” uscirà tra breve una seconda raccolta di poesie di Kronbergs con il titolo “Documenti di viaggio”.

Ma veniamo a un essenziale svolgimento del tema annunciato. “Ironia e potenti metafore come essenziali rimedi nella poesia “clinica” di Juris Kronbergs”

Ho chiamato la particolare poesia di Kronbergs di questo libro poesia clinica, perché ho potuto constatare che quanto lui scrive della sua tragica perdita della vista da un occhio , che è il tema centrale di “Lupo Occhio-solo” corrisponde nelle sensazioni, nelle visioni, a quanto ha scritto un medico, uno psichiatra universalmente famoso come Oliver Sacks in “The mind’s eye” circa un episodio analogo che lo ha riguardato. Sconcerto, depressione, immagini allucinate, ma poi recupero di un’altra vista, tramite la mente. Con la forza della mente lui riesce a vedere, vede come avesse tutti e due gli occhi.


Ma , fondamentalmente, gli strumenti che Kronbergs usa non tanto per fare un quadro clinico della sua sventura, quanto per porre una distanza tra sé e ciò che vive nell’immediato come una tragedia sono due strumenti della poesia cioè la metafora e l’ironia

Cominciamo dalla prima.
La poesia certo si alimenta di metafore dalle più note e sfruttate alle più originali e balenanti, ma altro è il caso in cui un’opera intera sceglie di aprirsi su una metafora che poi non abbandonerà e in qualche modo conformerà lo schema narrativo
Juris fa questo, proietta il suo male su un lupo che chiama perciò Vilks Vienacis, Lupo–un occhio, “Lupo Occhio –Solo
Questa proiezione di sè nell’altro, nell’altro animale, lo condurrà a usare, in tutta la serie di poesie che compongono l’opera, la TERZA persona, oggettivando così gli eventi, allontanandoli dal rischio dell’autocommiserazione e proiettandoli in una condizione umana universale, cioè nel momento in cui la morte, nella malattia e nella vecchiaia, comincia a riprendere ciò che è suo, come ascolteremo nella poesia che sto per leggere ”Come lupo occhio solo perse l’occhio”
Anzi leggerò due poesie sullo stesso tema, infatti nella poesia uno stesso tema riesce ad avere variazioni infinite. In un caso siamo, come ho accennato, nel contesto di una fiaba crudele
Poi siamo nell’incubo di una sala operatoria, ma il poeta riesce ugualmente a oggettivare ciò che sta accadendo al suo corpo, alla sua vista.

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 Abbiamo visto che la prima poesia che ho letto, la poesia bellissima, che più di altre forse conferma quanto scrive Sacks in The mind’s eye, cioè che è la mente a vedere sostituendosi in alcuni casi all’organo mancante,  quella poesia , dico, termina con questo angosciante interrogativo:
E se qualcosa capita all’altro occhio?

È quanto a Juris Kronbergs è successo nello scorso gennaio, Ma spesso la prospettiva di un male disegna uno scenario peggiore dell’evento che poi si verifica. Infatti questa volta tutto è andato molto meglio, ha incontrato persino una chirurga non solo di professionalità eccellente, ma gentile, e capace d’intrecciare con lui battute di sottile ironia, appena vibranti di sensualità.

Ma qui non leggerò la poesia narrativa che dice di come le cose sono andate, e lo dice con ironia ma  quasi interamente fuor di metafora.
Infatti diversamente dal primo libro tutto incentrato su un solo evento e la sua quasi magica evoluzione, questa seconda raccolta ”Documenti di viaggio”, si configura come un’antologia, dove convergono poesie da cinque differenti libri e altre recenti o ancora inedite. I due volumi, l’uno accanto all’altro, finiscono per comporre una sorta di autobiografia in cui il dolore, e i riflessi di eventi politici sul destino individuale, la malattia e l’angoscia,  sono spesso raccontati con ritmo musicale, nei toni di una coscienza  notturna insieme vigile e sognante. Una coscienza e una sensibilità che anche nelle ore diurne sceglie di preferenza immagini fantastiche,  toni ironici e autoironici.
Non leggerò dunque la lunga poesia narrativa che congiunge l’uno all’altro i due libri. Dalla seconda raccolta in preparazione, qui in anteprima assoluta, leggerò due poesie.
La prima, ”Il tempo a Gotland”  con ironia delicata attraverso la storditezza di una svedese novantenne, indica cosa fa il tempo ai luoghi se  i conflitti li segnano. I luoghi cambiano i nomi: lungo la costa  del Mar Baltico di fronte alla Svezia i luoghi hanno mutato i nomi tedeschi, in nomi russi  e infine in nomi lettoni.
La seconda poesia che leggerò, “Pomodori”, la definirei d’ironia metafisica. Lì la balena torna ad essere il simbolo di qualcosa di incomprensibile, di cui aspettiamo la rivelazione, dandoci nel frattempo a comportamenti altrettanto incomprensibili come divorare uno dietro l’altro sedici pomodori, comprati a buon mercato. Aspettiamo qualcosa che non arriverà, di cui sappiamo che c’è ma non sappiamo perché c’è, come la vita, come il movimento degli astri, il tramonto e la notte.
Se avanzerà del tempo leggerà una terza poesia”Il castello” dove ancora l’immagine degli amatissimi cavalli del castello si crea solo nella mente e rimane soltanto come immagine mentale.

Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, 19 maggio 2016 
Incontro sul tema ”Passaggi di letteratura lettone attraverso le traduzioni italiane” 
organizzato dalla Biblioteca Nazionale  di Roma con l’Ambasciata di Lettonia

Relatori:
Andris Vilks, Direttore della Biblioteca Nazionale Lettone
Astra Smite, Capo dipartimento studi sociali e umanitari, Biblioteca Nazionale Lettone
Pietro Dini, professore di Filologia Baltica Università di Pisa,
Paolo Pantaleo, traduttore
Piera Mattei, scrittrice, editrice

Trascrizione dell’intervento di Piera Mattei

sabato 14 maggio 2016

Emily Bronte Milano 12 maggio 2016 Casa della Cultura di Piera Mattei



La data del 2016 non è solo quella del quarto centenario dalla morte di Shakespeare e Cervantes. Si celebra anche il secondo centenario dalla nascita di Charlotte Bronte, motivo per cui sono contenta di essere qui a parlare di Emily.
Emily, così diversa come persona e come scrittrice da Charlotte, forse neppure esisterebbe come autrice se non fosse per la tenacia, l’ottimismo della sua sorella maggiore.  Non esisterebbero le sorelle Bronte senza la convinzione che Charlotte ebbe del valore della sua scrittura e di quella delle sue sorelle, in particolare della forza straordinaria di Emily.

Charlotte, Emily, Anne, una trinità femminile. Il miracolo è appunto questo: che ciascuna abbia conservato la propria inconfondibile originalità (anche Anne in tempi recenti conosce i suoi momenti di apprezzamento critico, nuove traduzioni). Questo avviene nel reciproco scambio, nel radicamento assoluto a una stessa realtà, alla consistenza anzitutto atmosferica del loro villaggio nello Yorkshire. Più assoluto che per le altre questo radicamento riguarda Emily.

La Portrait Gallery di Londra dedica un’intera grande sala a Charlotte, ma, appunto, la scrittrice di Jane Eyre lì non è sola.
Troneggia il quadro dipinto dal fratello Branwell che le riprende insieme. Forse al centro del dipinto Branwell aveva posto se stesso là dove appare una macchia simile a una colonna, poi si era cancellato. La Gallery espone il quadro così, con questi tagli perpendicolari della pittura che indicano la lunga conservazione della tela staccata dal telaio e ripiegata. Infatti Charlotte l’aveva conservata, e alla sua morte quello che fu suo marito per poco meno di un anno, poi risposatosi e trasferitosi in Scozia, l’aveva riposta in una soffitta dove è stata ritrovata all’inizio del secolo. 
Nella sala anche i ritratto di Byron e del Duke of Wellington, perché saranno per le giovani poetesse protagonisti di gesta al pari dei loro eroi inventati dei cicli di Angria e Gondal.

Emily fu schiva e riservata, non concedendo nulla al di fuori della cerchia familiare da viva. 
Così da morta sembra resistere a offrirci di più.
Di lei restano:
- quattro diari, tanto affascinanti quanto frustranti, piccole schegge ove appunti di scrittura si mescolano a osservazioni sulla vita domestica, ma non veri propositi non veri racconti con un inizio e una fine,
- il romanzo
- le poesie
Forse, qualcuno ha congetturato, Charlotte, pensando di rispettare il volere non scritto di Emily, ha distrutto le prose che hanno preceduto il romanzo e che dovevano collegare le poesie del ciclo di Gondal.

Ma qui mi fermo un attimo per essere coerente a una promessa che ho fatto. Silvio Raffo che vorrebbe essere presente ma non può, mi ha chiesto di renderlo presente con una poesia che lui ama particolarmente, nella sua traduzione che lui giudica particolarmente riuscita. Mantengo l’impegno perché concordo sulla bontà della traduzione ma soprattutto perché mi sembra una poesia molto adatta a restituirci in sintesi poetica un autoritratto dell’autrice:

The night is darkening round me

Si fa tenebra intorno a me la notte,
spirano venti gelidi e selvaggi;
ma mi ha vinta una gelida magia
e non posso, non posso andare via.

Alberi giganteschi i rami piegano,
scheletri nudi gravidi di neve;
la tempesta mi tiene compagnia,
e non posso, non posso andare via.

Sopra di me ci sono solo nuvole,
ai miei piedi deserti e poi deserti
nessun timore avrà l'anima mia:
io non posso, non voglio andare via




Una poesia che nell’amore repulsione per quella natura fredda e desolata che lega la sua volontà, è un bellissimo, degno ritratto del carattere di Emily, come possiamo dedurlo dalla sua opera e come ce l’ha disegnato appunto Charlotte, la sua prima e unica biografa, nella nota a lei ed ad Anne, che nel 1850, dopo la morte di entrambe le sorelle, precede la seconda edizione che Charlotte curò dei loro romanzi.

Infinite congetture di carattere anche psicopatologico sono state fatte sul carattere di Emily. Si è scritto che vivesse al margine della follia, che fosse un maschio mancato.
In realtà tutte e tre le sorelle Bronte sono state divorate da una morbosa curiosità circa la loro vita. Subito dopo la morte di Charlotte e l’uscita della biografia di Charlotte commissionata dal padre alla scrittrice amica, Elisabeth Gaskell, nel 1857, si sprigionò una sorta di passione per queste sorelle nubili - allora si diceva zitelle spinsters- perseguitate dal lutto e tuttavia scrittrici originalissime, forti, quasi violente. Mitizzarono l’isolamento della loro casa nelle nebbie della brughiera.

Quella curiosità morbosa sul destino tragico della famiglia Bronte e delle tre sorelle in particolare ha rischiato di essere spesso più forte dell’amore per le loro opere.
L’industria culturale: cinema, musica, TV, gadget tovagliette e souvenir sempre nuovi si producono tutti gli anni a Londra e a Haworth nello Yorkshire lì dove nacquero e trascorsero la maggior parte della loro breve vita.

Già all’inizio del Novecento Henry James lamentava che il romanzo della loro vita impedisse un serio apprezzamento critico della loro opera.
C’è mi sembra particolare tipo di fanatismo inglese o anche genericamente anglosassone, che sostituisce la morbosità verso i personaggi della cultura e della corona a quello che nei paesi cattolici è il fanatismo per i santi: pellegrinaggi, commozione, e infine gadget e affari.

Mi viene talvolta di paragonare le Yorkshire Girls come le chiamava la Dickinson al furore che suscitano i Beatles o Elvis Presley. Ma per loro, complici le registrazioni che ai tempi delle Bronte non esistevano, c’è l’ascolto continuo passivo della loro musica, le canzoni imparate a memoria.
Per le leggende nate intorno alla vita delle tre sorelle mi viene invece quasi da paragonarle all’ignoto Bardo che si firmava Shakespeare.

Ma qui non è che la leggenda sia nata su un vuoto di notizie.  Si sa poco di Emily perché non ha avuto, che ci risulti, amori o amicizie importanti, ma si sa abbastanza della sua famiglia che era quanto lei amava ed era il contesto dal quale detestava allontanarsi, il contesto in cui sono nate le sue opere.

Se ci sia o no materia per parlare di un destino eccezionale, lo vedremo.
C’è un padre, un prete, che per ammirazione verso Nelson, dica di Bronte, borgo etneo, cambia il suo cognome da Brunty in Bronte, sposa Maria, le fa generare un figlio all’anno.
Dopo la nascita della sesta, Anne, Maria che trasmetterà ai figli la sua struttura delicata, stremata e forse colpita da cancro, morirà a 38 anni lasciando quella nidiata di figli. La maggiore ha sette anni.
Patrick vorrebbe risposarsi ma chi vorrebbe un vedovo con sei figli di cui una piccolissima. Rimane con i bambini la sorella di Maria, donna severa, ma anche fantasiosa che si occuperà soprattutto dell’educazione delle ragazze. C’è anche una tata deposito di leggende nordiche, di racconti di fantasmi, mentre Branwell è più seguito dal padre.

Appena diventano più grandi le ragazze, esclusa la piccola Anne, vengono inviate in un collegio per figli di ecclesiastici poveri. Collegio miserevole, dirà Charlotte, sporco, dove si soffre il freddo e la fame.
Lì le due maggiori si ammalano e ben presto muoiono. Charlotte e Emily sono riportate a casa.

Le bambine sono vivaci, intelligenti leggono ogni libro che trovano in casa, in particolare una rivista politicamente orientata verso il partito Tory. Assumono valori per cosi dire tradizionali, si rispecchiano in un mondo maschile, dove la guerra, lo scontro armato, il coraggio, sono comportamenti fondamentali.
Nel 1826 Patrick porta  casa per Branwell una scatola di soldatini. Li chiameranno young boys  e saranno i protagonisti di saghe cavalleresche dai contorni gotici.
Ovviamente presteranno a questi personaggi, virtù estremamente virili.

Quando Charlotte parte per completare la sua formazione originale ma lacunosa, quel gioco creativo divide i fratelli in due gruppi: Charlotte e Branwell da un lato, a raccontare le imprese di Glass Town prima, poi di Angria, Emily e Anne dall’altro a raccontare le imprese di Gondal.
In effetti sono le due più giovani che più a lungo portano avanti il gioco se in un appunto del ’45 Emily racconta che “quei furfanti ancora le deliziano”.


Le poesie che Emily ci ha lasciato sono divise in due quaderni. Sul primo c’è scritto Gondaliane, sull’altro nulla, perciò non sappiamo se dovevano essere ancora selezionate per rientrare nel ciclo o se Emily assegnasse a queste poesie una diversa collocazione nell’ambito della poesia personale e lirica.
Nelle poesie che la nostra attrice leggerà saranno facilmente riconoscibili alcune gondaliane, lì dove pronunciano le parole cattedrale, granito, battaglia, sangue, morte. Morte in prigione, morte sul campo di battaglia, morte comunque violenta.

Mai morte per consunzione, per malattia. Della morte della madre e delle sorelle queste poesie non parlano. La morte appartiene alla guerra che interrompe i normali ritmi della vita: bel modo per tenere lontano il dolore, bel modo per non doversi confrontare con una ben diversa evidenza.

Nel 1846 Charlotte scopre i quaderni di poesie di Emily che trova molto belle. Ne segue un breve contrasto, Emily ne è gelosa, forse pensa che la sorella non debba mettersi nel ruolo di giudicante. Infine però le tre sorelle si accordano per pubblicare a loro spese un libro sotto uno pseudonimo che non riveli il sesso dei loro autori, appunto il titolo sarà
Poems by Currer, Ellis, and Acton Bell
Il libro riceve tre recensioni positive, se ne vendono due copie.
Ma le recensioni positive sono sufficienti perché Charlotte, autonominatasi impresaria del trio, si senta autorizzata ad annunciare che dei tre autori sono pronti altrettanti romanzi.

I romanzi Cime tempestose, Agnes Gray e quindi Jane Eyre escono nel 1947. C’è un gran dibattito, non sempre positivo. Lo stile, soprattutto di Cime Tempestose viene accusato di brutalità. Si sospetta infine che i tre romanzi siano opera di uno stesso autore. Charlotte decide a questo punto di presentarsi all’editore con le sorelle, ma Emily rifiuterà di andare e si oppone a ricevere alcuna comunicazione che non sia rivolta al suo eteronomo

Ma i tempi corrono ormai rapidi verso una data settembre1848- maggio 49 quando altri tre fratelli Bronte moriranno l’uno dopo l’altro di malattia, probabilmente di tisi
Prima Branwell, poi Emily, quindi Anne.

Charlotte,  la superstite, incontra per la prima volta nel 1850 Elisabeth Gaskell, scrittrice e giornalista che sarà poi la sua biografa e, indirettamente, sarà la responsabile della santificazione del trio. La sua prima impressione di Charlotte è veramente modesta. Ne parla in una lettera come di a modest spinster daughter of a country parson, nota persino, con una certa crudeltà, diversi denti mancanti. Nella biografia cambierà completamente di tono. Certo Charlotte rimane da sola col padre vedovo ancora cinque anni, alimentando quell’immagine dell’unica figlia, zitella, dedita ad accudire un padre dispotico.
Ma in quegli anni Chalotte continua invece a scrivere e a proteggere  e a diffondere l’opera delle sorelle.
Nel 1854 si sposerà infine con un prete aiutante di suo padre. Sembra felice ma poi si ammala e, prima che si compia un anno dal matrimonio, muore, forse incinta.

Sì c’è materiale sufficiente per scrivere un’intera saga, senza dimenticare i romanzi e le poesie, di cui alcune qui leggeremo nella traduzione pubblicata da Via del Vento