lunedì 17 febbraio 2020

Béla Tarr: un maestro ungherese dell'immagine




Il 20 Febbraio All'Accademia D'Ungheria in Roma, a conclusione degli eventi dedicati al grande regista Béla Tarr, si proietterà il film che viene considerato il suo capolavoro, Satantango, della durata di 7 ore e un quarto. Non andrò a vederlo perché, immagino che nelle intenzioni dell'autore bisognerebbe vederlo per intero, e non credo che reggerei.

 Ma il primo film importante di Béla Tarr, quello che apriva la celebrazione, l'ho visto e, nonostante che anche le due ore circa di questo film non siano leggere da sopportare, tuttavia è stata una visione che si è impressa nella mia mente, con una forza che è difficile trovare nei film di oggi.
Si tratta di Karhozat, Perdizione, del 1987, in quel bianco e nero sempre prescelto da Béla Tarr. 
Si tratta della storia del desiderio ossessivo per una donna, una trama quindi molto semplice.
Nel bar dove avvengono tutti gli incontri c'è sempre una fisarmonica che suona, sempre lo stesso motivo malinconico. Gli uomini giocano stancamente al biliardo, fissano il vuoto. Il protagonista, un debosciato parassita, fa in modo che il padrone del bar incarichi di un losco affare il marito della donna di cui è preso, per poter stare con lei. Ottiene il suo scopo, ma presto il marito torna, inoltre il protagonista capisce che il padrone del bar vorrà anche lui la sua parte di favori dalla donna. Quindi, sola rivalsa, va alla polizia a denunciarli.

Ma ci sono immagini indimenticabili.  L'aria è grigia all'esterno e anche negli interni filtra poca luce, lo sfondo quindi è grigio. Su questo grigio che varia solo in muri scrostati, in una stretta scala che conduce all'appartamento e nell'insegna del bar, si profilano i corpi avvolti negli impermeabili, sotto una pioggia incessante. Camminano noncuranti in un'acqua melmosa, mentre cani randagi senza volontà d'aggredire si muovono intorno. C'è un personaggio misterioso, una donna non giovane, dai tratti nobili ma dal sorriso aspro che compare di tanto in tanto, assediando il protagonista che se ne divincola. Dalla sua bocca escono considerazioni consigli e massime. Lo mette in guardia contro "quella donna". É forse l'immagine della coscienza?
C'è, nella scarsa luce all'interno del bar, un lungo primo piano di Lei, quella che porta alla perdizione, che canta una canzone tristissima di amori e abbandoni. Ma la scena più straordinaria è quella dove un'umanità varia, dagli abiti miseri, dai tratti grossolani si muove senza sosta in circolo in un ballo collettivo. Un lunghissimo piano sequenza. Girare scene lunghissime con soli piccoli movimenti di macchina è lo stile che contraddistingue  questo regista, che certo non ha dimenticato la scuola dei grandi maestri russi, con effetto espressionista di notevole potenza.

Nel 2011, con Il Cavallo di Torino, centrato sullo scatenamento della follia in Nietzsche alla vista di un cavallo malmentato, Béla Tarr ha dichiarato di voler concludere definitivamente la sua carriera di regista.

PIERA MATTEI

La prosa riflessiva e poetica di Silvio Perrella

Silvio Perrella – Io ho paura – Neri Pozza 2018
 di Piera Mattei


Un libro che racconta se stesso, dalla formulazione della sua ipotesi d'esistenza, alla sua completa realizzazione. Un po' come avviene per una forma vivente, una creatura animale, un ovulo fecondato che piano piano cresce, in un processo continuo. Come per un ovulo fecondato qui c'è un tempo fissato entro il quale sarà completo e verrà alla luce.
Fuor di metafora in questo libro Silvio Perrella racconta di aver parlato con il suo editore sul tema della paura, e di aver con lui concordato di scrivere un libro che sia tutta una variazione su quel tema. Il tempo che l'autore si dà è un mese dell'estate. Il luogo dove lavorerà al progetto è la località appartata di mare che chiama Qui, che è stata il nido d'amore dei suoi genitori e adesso è il suo prediletto luogo di vacanza. Uno straordinario luogo d'incubazione.

Il ritmo delle sue riflessioni è soprattutto scandito dai movimenti sincronizzati del nuoto con il quale ogni giorno, ritualmente, raggiunge uno scoglio che sembra ritagliato nel profilo di una divinità azteca, fa lì una pausa breve, e ritorna indietro. All'andata nuota a stile libero, al rientro a dorso. Il ritmo dell'esercizio solitario facilita il movimento del pensiero intorno a quel tema che è, che deve essere per portare a termine il progetto nel tempo stabilito, l'ossessione di quel mese assolato.
Pagine molto belle sono dedicate ai gesti del movimento e del galleggiamento, e alle paure che non sono estranee al pensiero neppure nell'atto di quell'esercizio volontario, che certo provoca un piacere fisico. Ogni rischio è presente, soprattutto nel percorso a dorso, quando occorre affidarsi alla memoria, alla benevolenza delle onde, alla fiducia che non siano presenti ostacoli. In un giorno di burrasca poi succede che il rientro sia particolarmente difficile, pauroso davvero, se la cronaca registra la mattina successiva, tristemente, tre morti in mare.

In quel mese, in quel luogo concluso, i fantasmi della paura sono convocati a diventare, tutti insieme, personaggi del libro a tema. Ci sono i ricordi dell'adolescenza, come la fuga, inseguito da cani randagi, con Luciotto che inutilmente cerca di calmare la sua corsa.  Conosciamo così Antonio, l'amico fotografo e Lorenzo che, a sue spese, ha imparato che doveva buttare via, una volta e per sempre, il fucile del safari africano. Incontriamo un pescatore dal viso segnato e sapiente, e più spesso c'imbattiamo in Nina la pazza, che si aggira sempre con un oggetto inutile tra le mani, e che anche se incontra il tuo sguardo, forse neppure ti vede.
Gli altri personaggi sono fantasmi di cui non avere paura, i fratellini Hansel e Gretel, e Bella, donna solitaria della quale il luogo conserva memoria, morta annegata, forse non per disgrazia. Altri personaggi vengono incontro da pagine di libri, come dalla poesia di Kavafis sull'arrivo (non-arrivo) dei barbari, che è motivo di una lunga riflessione sul bisogno degli organi di potere di avere un nemico, sulla delusione che il potere prova quando scopre che quel nemico di cui tanto aveva concionato, all'arrivo del quale si era preparato, non arriverà. Con ogni evidenza la metafora poetica afferma che il potere non riesce a tenersi in piedi se non sostenendosi sulla paura.

Ma oltre al tema prescelto un'altra passione traspare in queste pagine, l'amore per quel luogo, per Qui, per i suoi colori e sapori, come l'acquasale, una sorta di panzanella realizzata facendo ammollare il pane raffermo nell'acqua di mare, per poi condirlo con olio e pomodoro, i fichi, quelli chiari e quelli neri, e i pomodori dell'orto. Sapori essenziali come la compagnia umana, di poche parole, ma non scontrosa, di quei luoghi.
Quel luogo semplice ed essenziale, che è Qui, un po'sembra somigliare all'indole insieme luminosa e riservata di Silvio Perrella.  Ancora una volta le letture e i personaggi della cultura– quelli profondamente assimilati, quelli dei libri portati con sé nel mese di vita a contatto con il mare – si affacciano al suo discorso serenamente, senza pose narcisistiche, come rielaborati e fatti propri dall'autore in conformità alla sua indole.


E, come messaggio, in tutto il libro circola l'opposizione e il fastidio per il tipo di paura che non è la risposta organica a una situazione d'intuito pericolo, il fastidio per quella condizione che Silvio Perrella chiama la paura preventiva, quell'allarme costante che va alimentato perché il mondo tutto viva nella paura, perché gli uomini vivano nella paura gli uni degli altri: "Abbi paura, sempre, anche se non sai perché devi averla".  Un messaggio che più attuale non potrebbe essere in questi mesi in cui la notizia di prima pagina è sempre quella che riguarda un virus verso il quale non avremmo difese.