domenica 1 dicembre 2019

Cronache cinematografiche di Piera Mattei

Due film molto interessanti nella stagione Autunno 2019 

JOKER con Joaquin Phoenix, regia di Todd Phillips

Forse non si può parlare di questo film, prescindendo, come pure vorremmo, da tutte le polemiche che ha suscitato soprattutto in America la sua uscita e successivamente l'assegnazione del Leone d'oro a Venezia 2019.
Joker è un noto personaggio della DC Comics, l'antagonista di Batman. La sua maschera è quella del Jolly col sorriso disegnato sul volto, ma il suo è un sorriso crudele o malato, infatti Joker è crudele o malato. Ma se il suo personaggio negativo vive e agisce dagli anni '40 dello scorso secolo, quando è stato creato da Bob Kane, Bill Finger e Jerry Robinson, perché solo ora desta così numerose perplessità e contestazioni?
 La risposta è nelle caratteristiche formali e narrative del film, paradossalmente proprio la sceneggiatura perfetta di Todd Phillips e Scott Silver, l'ottima regia di Todd Phillips – che evidentemente ha creduto fin dagli inizi nel progetto, dato che ne è anche il produttore–
e un'interpretazione eccezionale di Joaquin Phoenix portano a una forte identificazione  e tendono a spostare l'empatia dello spettatore tutta dalla parte del Joker, che è presentato come una vittima, quasi giustificando così la sua mutazione in carnefice.

Del film vogliamo accennare alla trama solo per sommi capi perché i colpi di scena non mancano e non intendiamo rivelarli, non intendiamo guastare la sorpresa, come si dice con un brutto termine in voga e come altri non necessario alla comprensione del concetto, non vogliamo fare spoiling.
Nella buia e sudicia città di Gotham, Arthur Fleck, che chiederà solo sul finale di essere chiamato Joker, è dunque un povero cristo, un uomo magro, di età indefinibile perché il volto è scavato sotto i capelli che scendono fino alle spalle, come in un adolescente. Soffre di una sindrome che lo porta a una risata compulsiva, soprattutto nei momenti di stress, di questo si scusa, in una delle prime scene, mostrando a quelli seduti accanto a lui su un autobus, il biglietto che spiega il suo disagio. Arthur guadagna pochi soldi facendo il clown, pubblicizzando svendite o facendo ridere i bambini nei ricoveri ospedalieri. Vive con una madre malata e bisognosa di cure, che accudisce amorosamente, ma lui a sua volta ha bisogno. Ha bisogno di aiuto psichiatrico e di medicinali che lo sostengano. In una tremenda giornata riceve la notizia che, per realizzare risparmi sul bilancio pubblico, verrà chiuso il centro d'igiene mentale, dove pure incontrava una psichiatra disposta ad ascoltarlo e a prescrivergli le pillole necessarie. Arthur non ha avuto una sola ora che non fosse triste nella sua vita. Nella sua giornata, lo aveva confessato alla sua psichiatra, ha "solo pensieri negativi". Era stato assalito da un gruppo di teppistelli che lo avevano massacrato di botte, un "amico" gli aveva già fornito una pistola, che lui con esitazione  aveva accettato, come arma di difesa.  Ormai quella pistola è nelle sue tasche e darà inizio a una serie di eventi sui quali il protagonista sembra aver perso il controllo.
Infatti dal possesso della pistola ha inizio la rapida evoluzione del povero cristo in mostro assassino. Mi è rimasta particolarmente impressa la scena, girata in soggettiva, quando Artthur che sta cantando e ballando con i bambini di una clinica pediatrica, vede la pistola cadergli a terra. Quella è la scena che segna un drastico e tragico cambiamento della sua personalità da vittima in carnefice. E tuttavia noi, per il modo con cui il protagonista si muove sulla scena, per il fascino che tuttavia emana, siamo ancora indotti a vederlo come una vittima. E forse siamo indotti a vederlo come l'iniziatore di una giusta protesta anche quando la sua farneticante rabbia coinvolge le masse di Gotham? Saremo guidati a giudicare che se lui è rapidamente mutato è colpa degli altri? Di quelli che sembrano normali? Della società che non provvede agli ultimi?
L'effetto contagio che produce il personaggio nel racconto di Todd Phillips e Scott Silver rimanda subito, fuori di finzione, alla violenza esplosiva e, apparentemente almeno, gratuita, diventata negli ultimi decenni un'emergenza, proprio partendo dagli Stati Uniti dove il film è stato prodotto.

Quando il film era ancora in lavorazione hanno chiesto a Todd Phillips che genere di film stava maturando sul personaggio di Joker e, se ben ricordo, la sua risposta è stata: "un film tragico".

Ma la perplessità circa il messaggio che il film invia, indica che non si produce, a conclusione della visione, nonostante la scritta "Fine", l'effetto catartico, quel piacere che nel racconto tragico dovrebbe portare lo spettatore a liberarsi delle passioni rappresentate.  Proprio il finale che è la parte meno convincente del film, ha causato al film, da parte di alcuni, una risposta diffidente, ma forse anche quella curiosità e quel dibattito che fa di un film che ha vinto il Leone d'oro a Venezia, anche un successo commerciale.






THE RIDER il sogno di un cowboy,
di  Chloé Zhao con Brandy Jandreau

 Possiamo considerarlo un film americano, anche se molto particolare perché girato all'interno di una riserva indiana e la sua autrice (sceneggiatrice, regista e produttrice) è Chloé Zhao, cinese nata e cresciuta a Pechino, prima di trasferirsi a studiare in Occidente. Zhao è un'artista davvero molto originale e coraggiosa, una che scommette tutto sulle sue scelte. Il suo primo film lo gira in una riserva indiana del Sud Dakota, dove incontra Brandy Jandreau, nativo Sioux, domatore di cavalli e campione di rodeo. Rimane così affascinata dalla sua presenza da decidere di fare un film con lui. A questo punto del loro progetto s'inserisce un evento drammatico, Brandy, durante un rodeo viene disarcionato dalla cavalla, che poi lo travolge sfondandogli  il cranio e lasciandolo per più giorni in stato di coma. Si risveglia con una placca metallica inserita nella testa.  Torna dalla famiglia, un padre e una sorella minore in una casa mobile nella riserva Lakota di Nativi Sioux.
Chloé Zhao vede sfumare i suoi progetti, ma quando, dopo qualche tempo viene a sapere che Brandy, continua a domare cavalli e a cavalcarli, pensa che questa passione e la vera storia di Brandy saranno il film che dovevano fare.

A questo punto lo spazio della riserva e l'intera famiglia di Brandy sono inclusi nella storia e nel cast. Ognuno reciterà, attenendosi a una sceneggiatura rigorosa, il proprio personaggio.
Ne risulta una straordinaria commistione di invenzione e realtà documentaria. Brandy Jandreau, complessione stranamente chiara per un Sioux, sguardo intenso ma come rapito in una sua intima serenità sotto gli alti zigomi, è quasi sempre sulla scena. Accarezza, cavalca cavalli, risponde calmo ai capricci della sorella, si adatta a lavorare in supermercato.  Non sappiamo se interpreterà altri film. In questo è straordinario.
Il contesto umano della storia è per lo più maschile. Le donne si affacciano soltanto, consigliando saggezza e moderazione, forse anche rassegnazione. Particolarmente convincente la prestazione della sorella minore di Brandy, non ancora donna, affetta da sindrome di Asperger. Bravi anche e splendidamente diretti i personaggi secondari.
Ma la grande poesia del film non è soltanto nei personaggi, molto è dovuto alla fotografia quasi onirica, eppure, come dicevamo anche documentaria di Joshua James Richards, che indugia talvolta sul paesaggio o sul dettaglio, senza mai voler additare, quasi carezzando l'immagine. Infine la capacità di Brandy di toccare e ammansire i cavalli ha permesso alla macchina da presa di avvicinarsi molto agli animali realizzando dei loro musi e dei loro sguardi dei primi piani straordinari.


Chloé Zhao, che ha oggi 37 anni, dimostra  in questo suo secondo lungometraggio un'eccezionale intelligenza, ma  insieme, senza ostentare il politically correct, la capacità di dare vita dignità e bellezza a luoghi  e realtà dell'America non spesso visitati dalle cineprese. Non mancheremo di seguirla nelle prossime prove.