sabato 29 gennaio 2011

In Tunisia con Moncef Ghachem, il cantore del mare





Il breve diario che segue è stato scritto prima dell'esplosione degli eventi del dicembre 2010. Pertanto con valenza del tutto neutra sono citati nomi di luoghi, come Sidi Bou Said e Mahdia, legati oramai alla storia più recente della Tunisia.

Toni, carissima amica di lunga data, nota poetessa e studiosa del Magreb, vissuta molti anni in Marocco, mi ha fatto da tramite con Moncef Ghachem, poeta che già una decina di anni fa, aveva proposto alla nostra rivista "pagine".
Lo incontro per la prima volta a Sidi Bou Said, dove vive: case bianco calce, finestre e porte verniciate in blu, un paesaggio vario sulla città di Tunisi che dall'altro sembra innocentemente abbracciata al golfo, con il lago che da un lato la stringe. Bellissimi i paesaggi incorniciati sul golfo e la città dalle finestre di quest'albergo, che mi dicono costruito nel 1969 su fondi Unesco da un architetto francese con il lavoro degli studenti della vicina Ecole des hautes etudes touristiques. Con orgoglio il poeta mi rivela che anni fa, nella stessa sala da thè dove c'incontriamo, conobbe Adonis. Mi parla anche commosso del suo breve soggiorno a Roma, a Villa Medici, dopo il conferimento del premio Camus. Fu per lui una grande gioia che Erri De Luca si dimostrasse allora disposto a portarlo con la sua macchina a fare un giro della città. Moncef ha una moglie francese, ha fatto studi in Francia, e per quanto l'arabo sia la sua lingua materna e paterna e la Tunisia il paese a cui è con forza esclusiva legato, il francese è la lingua della sua poesia: nel marzo 2006 ha ricevuto la menzione speciale nell'ambito del premio internazionale di poesia in lingua francese "Léopold Sédar Senghor ", per l'insieme della sua opera.
Ma è stato andando a raggiungerlo a Mahdia, città dove è nato e dove ininterrottamente è vissuto fino ai diciannove anni, che ho meglio compreso la sua ispirazione, perché Mahdia, il Mediterraneo e la vita dei pescatori è l'universo della sua poesia. Un intenso rapporto con il mare, non però sotto il profilo estetizzante: il mare è forza rispetto alla quale misurare le sue proprie forze ed è inoltre risorsa vitale, nutrimento.
Tuttavia una poesia delle prime raccolte, Car vivre est un pays del 1978, la sua nascita è evocata in un contesto quasi astratto: non ci sono il mare e la stretta penisola di Mahdia che osa contrastarlo, solo una madre e il suo dono al figlio di una vita aspra.Versi che mi sembrano anche di amara attualità:

Un'era

in un tempo ormai quasi lontano,
al tempo del pane nero
al tempo della notte di catene
e di rapaci
mia madre ha messo al mondo
il figlio

in un tempo ormai quasi lontano,
ho perso il mio
nome di uomo
sono diventato matricola
in dannate caserme
i cani del tiranno in un giorno di caccia
mi hanno assassinato
e ho pianto per mia madre
ho pianto per il mio volto di bambino
e per il mio cuore
lasciati come fosssero morti
ai rapaci

in un tempo ormai quasi lontano,
al tempo del pane nero
mia madre ha messo al mondo
un figlio di rabbia
e di speranza
ha messo al mondo
la guerra
nel mio viso di bambino

(AGE il y a presque longtemps / au temps du pain noir / au temps de la nuit des chaînes / et des rapaces / ma mère a mis au monde / l'enfant // il y a presque longtemps / j'ai perdu mon nom d'homme / je suis devenu matricule / aux pavillons des damnations / les chiens du tyran m'ont assassiné / un jour de chasse / et j'ai pleuré pour ma mère / j'ai pleuré pour mon visage d'enfant / pour mon coeur / laissés pour morts / aux rapaces // il y a presque longtemps / au temps du pain noir / ma mère a mis au monde / l'enfant de colère / et d'espoir / ma mère a mis au monde / dans mon visage d'enfant / la guerre )
Più spesso tuttavia, in Moncef Gachem il ricordo della nascita torna quasi nella forma del mito. Per comprenderlo occorre sottolineare che nella città storica di Mahdia un'antica porta immette in una stretta penisola che termina in Capo d'Africa, punta orientale della Tunisia. Su questa penisola, c'è un porticciolo, un antico cimitero, un faro e le case dei pescatori, ora per lo più divenute case di vacanza. Moncef che da almeno quattro generazioni discende da famiglie di pescatori è nato nei pressi di quel cimitero marino, dove la madre, scesa dalla barca in preda alle doglie, aveva cercato una sosta. Tombe e mare, le une confinano con l'altro, in una vicinanza che sottolinea la dimensione esistenziale del mare e al tempo stesso la dimensione del tutto naturale della tomba. Scrive il poeta nella raccolta Nouba: L'ombre de la tombe / borde le chemin. / J'amarre ras-la-cale / et à la mort / je tends du pain (L'ombra della tomba / borda il cammino. / Ormeggio alla caletta / e tendo un pane / alla morte)
La casa di Moncef a Mahdia ora non è la stessa in cui lui è nato. L'ha acquistata quando ha disposto di suoi denari, ci si rifugia appena è possibile. L'ha arredata con gusto cittadino, con oggetti che sono colorati frammenti di ricordi. Sulla terrazza di copertura poche assi di legno, che sono quanto rimane di Caesar, la barca da pesca del padre. Una casa a picco sul mare. Mi racconta che era stata la piccola abitazione che un marito, passato a nozze feconde aveva donato a una moglie amata ma sterile. Lui da bambino era stato spesso consolato e curato da quella donna per incidenti occorsi sugli scogli e conserva intatta la pietà per lei, ora che è morta e che lui abita le stanze dove benaccolto era entrato da bambino.
Già prima che a Mahdia Moncef ci aveva fatto da guida nei dintorni di Sidi Bou Said e Tunisi, nei luoghi a lui cari, evitando quelli frequentati da turisti, anche se non aveva potuto escludere, alle mie precise richieste, il Museo del Bardo, che ospita la più ricca collezione di mosaici romani, tra l'altro il solo ritratto di Virgilio – seduto tra due Muse – che ci sia stato tramandato. Ha voluto mostrarci l'antico porto di Cartagine, con la sua struttura a conchiglia ma anche la città marittima di La Goulette, dove attraccano anche i pescherecci dell'altra sponda del Mediterraneo e dove cultura tunisina e siciliana del mare si mescolano, con reciproci prestiti di vocaboli, usanze e tecniche di pesca. Ci conduce a Beit al-Hikma, l'Accademia tunisina di scienze, lettere e arti, nella zona Carthage Annibal: una villa ottocento di grazia Deco, a picco sugli scogli, già residenza del bey. Tra il brillìo delle onde, non lontana dalla riva, la piattaforma in legno dove le donne del palazzo godevano del mare e del sole, al riparo da sguardi indiscreti.
Mentre andavamo non cessavamo di parlare. Ascoltare Moncef significa raccogliere frammenti della sua poesia. Non abbandona i temi fondamentali, primo fra tutti le sue origini e il mare. Ne riporto a memoria alcuni frammenti:
"Quando partono i pescatori con il loro corteo di barche sono simili alle carovane che solcano il deserto. Gli uni e gli altri devono confrontarsi con la forza del vento, più imprevedibile e calamitoso sul mare. Deserto e mare hanno un orizzonte infinito.
Mio padre, i miei nonni, i miei bisnonni e il padre del mio bisnonno, tutti sono stati pescatori. Semplici, analfabeti. Anch'io ho fatto il pescatore. Bambino partivo con loro e da adulto ho fatto il pescatore per piacere, solo talvolta per necessità. Fino a mio padre era una condizione in cui ti trovavi a nascere e che non rinnegavi fino alla morte. Loro erano otto fratelli, sei nella famiglia di mia madre: cugini e fratelli, tutti erano pescatori. Quando era giornata di buona pesca era la festa di un'ampia comunità: tutti al lavoro a togliere i pesci dalle maglie, a prepararlo per la vendita, ma anche a pulirlo e cucinarlo. Ma il mio mondo e quello delle mie sorelle è ormai del tutto diverso. Il mare e il padre sono immagini strettamente connesse:
seul le corps immense de mon père /… mains sur la mer visage tourné / vers le reflets de banc ( solo il corpo immenso di mio padre /…mani sul mare, volto proteso / ai riflessi degli sciami – da Makbara, Cimitero).
Il padre del mio bisnonno aveva comprato una barca, il nome della barca era Caesar. Fu con Caesar che imparai che anche gli oggetti hanno una vita e una fine. Un giorno qualcuno disse a mio padre: Si è fatta vecchia, devi cambiarla. In realtà Caesar è sopravvissuta a mio padre. Ma dopo la sua morte nessuno ha più potuto averne cura. Asse dopo asse si è smembrata ed è rimasta solo parte della chiglia. L'ho presa e portata sulla terrazza della mia casa di Mahdia e a chi mi chiede: Cos'è questo? Rispondo: Assi, pezzi di legno."
Mi racconta che il padre non ha mai abbandonato la lunga tunica tradizionale mentre posso notare che lui veste con eleganza estrosa, con un'evidente ricerca nell'accostamento dei colori, giacche casual in tessuto denim e sciarpe di seta di fabbricazione tunisina che mettono in risalto l'azzurro degli occhi di taglio obliquo.
"I miei compagni di scuola mi davano il nomignolo di "gatto"," dice sorridendo.
Anche se a Mahdia, è facile notarlo anche aggirandosi nel vivace mercato, gli occhi azzurrissimi s'incontrano con una certa frequenza.
Mi conduce poi di fronte alla porta di quella che fu la sua scuola elementare:
"Andavamo tutti scalzi, e in classe eravamo quaranta e più, ma studiavamo seriamente e fu lì, col mio maestro di francese che cominciò la passione per quella lingua.
Sempre a Mahdia, per le sue stradine attorte, ci fermiamo ad ascoltare il canto di un uccellino minuscolo che dalla sua gabbia lancia un richiamo forte e melodioso a un compagno, per noi invisibile, che gli risponde, cerchiamo di stabilire da dove:
"Dell'usignolo si dice che forse non è un uccello diverso dagli altri piccoli uccelli canori e tuttavia esisteva una consuetudine per cui a primavera l'uomo che individua il primo usignolo che canta viene poi festeggiato dalla comunità.
Gli uccelli, non solo il canto, ma la loro spinta a migrare, la possibilità di vedere le cose, la natura e gli uomini dall'alto sono un altro tema ricorrente nella mia poesia : C'est mon frère substantiel / il depose ses ailes d'exil / pour ma barbaresque vie.
(è il fratello della stessa sostanza / chiude le sue ali d'esilio / verso la mia vita errabonda)
Tra i titoli che ho pubblicato c'è L'Épervier, nouvelles de Mahdia. Épervier, ci sto riflettendo ora, è nome che ha assonanza con père. Rimanda all'uso di cacciare i piccoli uccelli, farli cadere nella rete col richiamo, come un pescatore attrae nella rete i suoi pesci…"


Piera Mattei



Nota bibliografica di Moncef Ghachem (Mahdia, Tunisia 1946)
Poesia
Gorges d'enclos, éd. Maison de la culture Ibn Rachid, Tunis, 1970
Cent mille oiseaux, éd. L'Auteur, Paris, 1975
Car Vivre est un pays, éd. Caractères, Paris, 1978
Cap Africa, éd. L'Harmattan, Paris, 1987
Orphie, éd. Maison des écrivains étrangers et des traducteurs, Saint-Nazaire, 1997
Nouba, éd. L'Or du Temps, Tunis, 1997
Matin près de Lorand Gaspar, éd. L'Or du Temps, Tunis, 1998
Racconti
L'Épervier, nouvelles de Mahdia, éd. Société polygraphique Mang, Paris, 1994 - rééd. Arganier, Paris, 2009
Libro + CD
Dalle sponde del mare bianco (Messina, 2003), realizzato insieme al gruppo musicale siciliano Dounia, dove lingue e dialetti delle due sponde del Mediterraneo si uniscono a raccontare una realtà che ha intrecci millenari.

giovedì 20 gennaio 2011

Tunisia: note di viaggio, novembre 2010 di Piera Mattei


(nella foto: Alla sala da thè presso Avenue Bourghiba,Tunisi)
"… gli eventi tunisini covavano da tempo, hai fatto il tuo viaggio just in time...", così mi scrive in questo violento inizio d'anno l'amica Toni Maraini. E tuttavia, per quanto il viaggio in Tunisia, tra la fine di ottobre e la prima settimana di novembre 2010, avesse per me soprattutto il significato d'incontrare anche lì la poesia, non avevo potuto fare a meno di notare insopportabili realtà. A cominciare dall'aggressivo sospetto con cui ero stata pesantemente interrogata al controllo passaporti per aver imprudentemente scritto sulla carta di sbarco, in corrispondenza della voce professione: giornalista. Ci è voluto l'intervento di un responsabile che assicurava della mia buona fede, che non andavo lì per spiare. Proprio a Sidi Bou Said, dove il premier Ben Alì aveva una enorme e presidiatissima residenza, ma anche in altre città, colpiva l'onnipresenza della polizia. All'ingresso dell'hotel anche e poi dovunque ti seguiva tra bandiere e bandierine, il ritratto di Ben Alì. Sorrideva dai palazzi, sulle piazze, la destra sul cuore, nel saluto più "cordiale" appunto: un apparato pronto a celebrare, il 7 novembre, i ventitre anni dall'inizio della Nuova Era, cioè dal suo insediamento. Un'atmosfera in cui di autenticamente festoso si avvertiva molto poco. Non immaginavo però che sarebbe stata l'ultima volta che i tunisini erano costretti a celebrare il potere di un uomo che li opprimeva. Inoltre, a Tunisi soprattutto in Avenue Bourghiba, diventata in questi giorni nota in tutto il mondo, non avevo potuto fare a meno di notare che la folla si manifestava come un fiume di teste di folti capelli neri. "Popolazione di giovani!" mi ero detta e mi ero chiesta intanto dove quella fiumana si stesse dirigendo durante le ore del giorno, verso quale impegno o vuoto d'impegni. Ma intanto avevo notato le proporzioni dell'area universitaria, veramente notevoli per un paese che si mostrava per altri aspetti assai arretrato.

Riflessioni che si erano infiltrate in giornate dedite, come progetto, soprattutto alla cultura, e non solo nel senso più circoscritto del termine. Riconosco ora con pena di fronte allo schermo del computer, le vetrate del locale dove con il poeta Moncef Ghachem ci eravamo seduti a parlare di poesia, davanti a un bicchiere di the alla menta. Lì intorno, in questi primi giorni dell'anno 2011 risuonano colpi d'arma da fuoco, come presso il cancello dell'Ambasciata di Francia dove, nella piccola biblioteca per l'infanzia di cui aveva la cura, eravamo andati a trovare proprio la moglie di Moncef.
Certo mi ero meravigliata della sopportazione di quel popolo non solo verso un regime con le sfumature di una tirannia, ma anche verso le isole di lusso costruite per facoltosi turisti occidentali, dove io stessa, a malincuore, mi ero trovata a dormire un paio di notti. Noi, del resto, mi ero detta allora e oggi non posso fare a meno di ripetermi, abbiamo anche noi nostri gravissimi problemi da affontare.

Mi ero meravigliata, data la brevità del volo, di quanto la Tunisia fosse molto più vicina di quanto avessi mai pensato. Lo sapevano certo con le loro navi i nostri antenati romani. Infatti mi sarei resa conto, anche se dovevo saperlo, che è una terra che conserva ricordi del suo periodo romano più di molte parti della stessa Italia. Una città ogni sessanta miglia, così si stendeva la tela delle colonie sul territorio. Una terra ricchissima dove grandi fortune si erano accumulate con la coltivazione di latifondi a olivo (che ancora persistono), dove i potenti dotavano le loro case di bagni e pavimenti a mosaici, che il clima asciutto ha contribuito a conservare in ottimo stato. Oltre ai ricordi di epoche lontane aveva attratto la mia attenzione la fauna del paese: le varietà di uccelli migratori, soprattutto. Lungo l'autostrada le cicogne fanno il nido sui pali della luce, ai margini della palude salmastra che separa la pista Nord-Sud del paese dal mare. Lì incontro anche piccole carovane di cammelli, provenienti dal sud desertico, o singoli cammelli agghindati accanto ai monumenti, in paziente attesa del turista che voglia farsi fotografare con loro. Mi aveva ferito tuttavia l'immagine di agnelli, tenuti in recinti presso le strade, in vendita, per celebrare con il loro sacrificio la salvezza di Isacco, nella biblica Festa dell'agnello, altra tradizionale ricorrenza, religiosa stavolta, di metà novembre. Ancora agnelli e bovini macellati e appesi in quarti fuori da bettole, schierate l'una dopo l'altra lungo le strade, animali ridotti a carne in esposizione, e fornelli dove i carboni sono accesi già dal tardo mattino. Asini, come fino a poche decine d'anni fa da noi, trattati come bestie da soma, adibiti a portare pesi enormi o a tirare carretti formati solo di tavole accostate.

Prima di partire avevo riletto l'Eneide e le storie narrate da Cesare nel De bello civili e nel De bello africo, per cercare di riconoscere il teatro degli amori di Enea e Didone, degli scontri sanguinosi tra Cesare e i pompeiani, a Utica ripensare al suicidio di Catone e riflettere sull'interpretazione che Dante ne dà nel Purgatorio. Nel nord di colline e laghi ho rivisto poi l'ambientazione dei massacri di mercenari e cartaginesi, d'impazziti elefanti reinventati con ottocentesco esotismo da Flaubert, per il suo Salambô. Per quanto la bellissima Salambô del romanzo sia personaggio di pura invenzione, Salambô si chiama ancora oggi un piccolo centro tra Tunisi e Sidi Bou Said.
Avevo avuto anche la fortuna di trovare in libreria una copia delle traduzioni italiane dei Canti della vita del grande poeta tunisino Shabbi, il fondatore stesso della poesia tunisina moderna. Una personalità eccezionale, proveniente da un ambiente agiato ma lui stesso conoscitore solo della lingua araba, morto a venticinque anni nel 1934. Il libro, pubblicato dall'editore siciliano Di Girolamo, con un illuminante saggio introduttivo di Salvatore Mugno, si è rivelato nel mio viaggio un buon biglietto di presentazione per i poeti tunisini con i quali le amiche Toni Maraini e Elisabetta Messina, entrambe esperte del Maghreb, avevano per me attivato i contatti.