martedì 15 settembre 2015

Mare senza bonacce. Un eroe omerico sul set di un film d’azione di PIERA MATTEI

Gladis Alicia Pereyra – I panni del saracino – Manni 2015

Aveva urtato metallo, solo metallo, cercando un varco per fuggire...

Il piede affondò in una sostanza vischiosa...

La narrazione si apre con grande bravura sul set di un film d’azione, così violento ed esplicito da confinare con il pulp, con lo splatter: sangue dappertutto, teste mozzate, piramidi di teste mozzate, e tutto quel ferro sta a indicare che il ferro, la lama, era ancora lo strumento principale per dare la morte.
Siamo infatti nell’anno 1291, al crollo del Tempio, luogo di potere dei bellicosi cavalieri Templari, che conclude l’ultima crociata.

Si tratta di un romanzo arditamente costruito, un romanzo di 450 pagine,  un colpo di scena sull’altro, avventure, incontri, un romanzo che si legge senza un attimo di noia.
Mi sono chiesta se Gladys  Pereyra con questa sua fatica volesse anche inviare un messaggio. Non sembrerebbe possa essere senza echi nell’attualità, infatti, parlare di Crociate, o meglio di quell’episodio storico che segnò la definitiva sconfitta dei Crociati, dei cristiani ad opera dei musulmani, nei Luoghi Santi. Ma in realtà, in questo lungo romanzo, dopo i primi episodi, la guerra tra musulmani e cristiani passa in secondo piano. Quindi infine – anticipo qui la risposta che mi sono data solo a lettura ultimata del romanzo – all’interrogativo che mi sono posta risponderei proprio di no. Gladys non vuole proporre qui nessuna analogia o confronto con l’attualità.
La mia conclusione è che Gladys Pereyra ha scritto queste molte pagine, intrecciando l’una all’altra tutte queste avventure per il puro piacere della scrittura romanzesca. Direi che questo libro ha i caratteri del romanzo puro, che in parte persino travolge le intenzioni dell’autrice perché le intenzioni sono interne alla stessa sua qualità letteraria, qualità dell’opera e qualità dell’autrice.
Parafrasando un celeberrimo titolo, per dare l’idea dell’ autonomia del ritmo naturale e travolgente di questo romanzo, che è, a mio giudizio, narrazione pura, definirei « I panni del saracino »un romanzo in cerca d’autrice. Infatti i panni che il protagonista per poco indossa, scompaiono nel corso del romanzo, per riemergere nel finale, dove interviene la volontà costruttiva dell’autrice, mentre per centinaia di pagine sembrava quasi che l’autrice fosse trascinata dalla forza del raccontare, travolta dalle stesse immagini che si formavano nella sua mente.

Ma torniamo alla trama. Il protagonista è un giovane frate francescano, al quale, evidentemente, la paura, lo shock fanno quasi subito dimenticare questa sua identità :  Corre.... la città non era più sua, non era più cristiana. Il frate non tanto dalla città sta correndo via quanto dalla propria identità. Non è più un frate e il nome di Frate che, con evidente paradosso,  daranno a lui come pirata e poi corsaro, starà proprio a indicare la negazione di quella identità.
Ha smesso di essere frate non perché, per difendersi da una probabile uccisione, ucciderà per primo. Non sappiamo che tipo di frate fosse stato prima, e del resto la sua vita da frate non può essere stata lunga. Il francescano in fuga è infatti molto giovane e nel suo comportamento non si leggono, non si leggeranno più, nemmeno forse nel capitolo definitivo del romanzo, le impronte di quei voti, di quelle scelte che un monaco deve rispettare, portare per sempre impresse nella sua personalità e nel suo comportamento usque ad mortem: povertà, castità, obbedienza.
Dove sono i superiori del giovane frate, il frate guardiano che vigila sulla condotta di tutta la comunità e a cui si deve obbedienza? e perché il frate ruba la borsa da un cadavere, non dal cadavere dell’uomo che ha ucciso, quindi in un primo immediato impulso, ma da un altro che gli cade davanti ai piedi ? non dovrebbe non possedere nulla di suo ? E perché poco prima del furto al cadavere, vilmente, si era nascosto assistendo alla tremenda violenza su una donna?
Non solo non più frate, ma all’inizio del romanzo tutto in lui è paura e viltà.
La domanda che in un primo momento sembra porsi come centrale, leggendo questo romanzo dall’inquadramento storico  è: Nerino Buondelmonti è effettivamente esistito o avrebbe potuto esistere ?
Ma occorre fermarsi alla soglia di questa domanda perché non è la verisimiglianza che dice la verità o la falsità di un racconto. Troppe volte la verità  supera di gran lunga l’immaginazione e la fantasia.

La risposta ad alcune delle domande che ci siamo formulati la troveremo nell’ultimo capitolo del libro, che, come abbiamo accennato, sembra voler resuscitare dopo le avventure più mirabolanti e violente, la travolta identità non tanto di religioso quanto di uomo, di individuo non più al di sopra e al di fuori dell’etica, ma obbediente ai comandamenti umani, primo tra tutti « non ucciderai ».

Ma qui vorremmo trovare subito una risposta a quelle domande. Direi che Nerino, questo è il nome dell’uomo e non sapremo mai quello del frate, non rispetta i voti che da poco, data la sua giovane età, dovrebbe aver giurato, perché mai l’identità di frate si è radicata in lui, o ha avuto tempo di radicarsi.
Nerino, il pauroso, il vigliacco, il frate che conosciamo dalle prime pagine già così poco frate, si tramuta presto in eroe, il protagonista di una pellicola nella quale, nostante tutto, ogni uomo, ogni evento, sembra obbedirgli e, infine, essergli favorevole.

Nel solo incontro che ho avuto con Gladis, quando ancora non avevo letto neppure una pagina del romanzo, proprio guardando la copertina del libro, osservando questo cavaliere con la lancia in resta, tra il grigio chiarissimo della nebbia  ho fatto il nome di Olmi. Ho pensato al suo « Il mestiere delle armi ». E Gladis mi ha confermato il suo amore per quel cinema anche se, mi ha detto, in questo racconto non ci sono cavalieri. Tutto avviene sulle navi.
Infatti la terminologia marinara delle imbarcazioni dell’epoca è usata, con grande abilità degna veramente di ammirazione, nell’illustrare le manovre della nave (cfr pag.89).

Gladis mi ha detto di non avere avuto riferimenti letterari per la costruzione di questo suo romanzo. Ma i riferimenti possono anche essere involontari, semplici sedimenti della memoria, anche se forse solo in chi legge. Leggendo questo libro, altri libri mi sono tornati in mente, tra i quali cito :

« Il visconte dimezzato » per l’atmosfera di guerra tra cristiani e musulmani sulla quale si apre il racconto e nella quale avviene la trasformazione del protagonista, benchè, vedremo, Nerino , seppure ferito, in qualche modo, almeno nella mia lettura, rimane sempre intatto ;

« L’isola del giorno prima » per quel set quasi fisso di navi e imbarcazioni, benchè lì, nel romanzo di Eco, ci siano riflessione e stasi, qui invece continua azione e movimento

persino a « I promessi sposi » per il riferimento all’ordine francescano, a un francescano omicida, anche se lì si uccide prima di farsi frate e una sola volta, qui Nerino uccide nelle vesti da frate e poi innumerevoli volte dopo averle cambiate.

Infine, poiché l’origine argentina lega Gladis Pereyra ad almeno due tradizioni e culture letterarie, non posso non ascoltare, nel finale ravvedimento di Nerino, l’eco di un grande romanzo che ha a grandissimo protagonista proprio l’antieroe, per aspetto e comportamenti, quel Chisciotte, che Cervantes ha voluto far morire savio

Quindi, nonostate stimoli esterni possano essere venuti da queste letture  « classiche », ho pensato infine che dovevo cercare ancora un classico più classico, dovevo arrivare ai poemi eroici e, in particolare, all’Odissea.
Lì ritrovavo il mare, le navi, l’avventura, i combattimenti feroci ma soprattutto ritrovavo un dato fondamentale: la bellezza come tratto distintivo dell’eroe.
Solo per esemplificare, richiamerei qui l’edisodio di Nausicaa, quando Athena diffonde bellezza sulle forme di Odisseo perché l’incontro con i Feaci gli sia del tutto favorevole, sia un incontro insieme vincente e salvifico:
Come si fu per intero lavato e poi unto con olio
e rivestito di vesti che diede la vergine intatta,
ecco che allora lo rese Atena, la figlia di Zeus,
tanto più grande e robusto a vedersi e sopra la fronte
folte le chiome versò e simili a un fiore, al giacinto.
E come quando riversa sull’oro l’argento un artiere
abile, che sia istruito da Efesto e da Pallade Atena
d’ogni segreto dell’arte e compia lavori graziosi,
simile grazia la dea gli versò sul capo e le spalle.
Egli alla riva del mare, in disparte, venne a sedersi,
e di bellezza e di grazia splendeva; e stupì la fanciulla.

Sempre, nei poemi classici, compresa l’Eneide, gli dei fanno rifulgere di bellezza quelli che intendono proteggere. E Nerino appare bellissimo, persino nella sua violenza, dopo aver commesso l’omicidio che lo muterà da schiavo a capo della galea: un vincitore così tremendo e magnifico.
Di Nerino sappiamo la nobilissima casata– ma anche  questi nobili parenti ricompaiono solo al capito conclusivo– sappiamo che presto si fa radere per far scomparire la tonsura e, con l’umiliazione della chierica, tutti gli obblighi di una vita monastica, ma soprattutto, subito e per sempre, sappiamo che è bello. Questo aggettivo, e il termine bellezza  riferito a lui, sono ripetuti infinite volte. Quindi anche se uccide e ordina assalti e stragi, Nerino non è malvagio. Un volto e un corpo di una bellezza senza difetti, è fuori dalle categie dell’etica. Kalagatòs come dicevano i greci. Piace a uomini e donne, anzi suscita più facilmente la libidine maschile, e da quella lui si tiene più al riparo.

La bellezza è il tratto distintivo dell’eroe che  dai poemi si è travasata, in epoche recenti proprio nel cinema, soprattutto nel cinema d’azione e d’avventura, e non voglio qui parlare della bellezza ancora intatta del pirata Johnny Deep. In Nerino dunque sarebbe riconoscibile un eroe omerico sul set di un film d’azione a inquadramento storico, con lunghe scene splatter ? 

Come nell’Odissea il protagonista è circondato da compagni che lo seguono, che non possono eguagliarlo, che non possono non amarlo e rispettarlo. I personaggi maschili minori sono qui assai ben tratteggiati: il gigante Theo , il violento e melanconico meticcio  Nikos, il libidinoso Marcello... 
Le donne  hanno dei caratteri meno definiti ma, tornando al raffronto col poema omerico, la libera  Sibilla potrebbe paragonarsi a Calipso, anche se, rispetto all’originale che propongo, Nerino si sente molto meno sforzato ad amarla, e Anna, l’amore vero, lei è destinata subito a obbedire al ruolo di Penelope, perché subito dopo averla sposata, Nerino riparte per viaggi lontani.

Molto ben descritta è questa società di « mercanti », che non sono veri mercanti, o lo sono perfino troppo, veri predoni che rincorrono le navi per rubare le merci e chiedere il riscatto per i prigionieri, o venderli se sono giovani. Nella seconda parte del romanzo è in evidenza la rivalità tra le due più potenti città marinare, Genova e Venezia. Inserendosi infatti astutamente nelle maglie di questa rivalità Nerino s’evolve da pirata a corsaro– cioè ladro e predone per conto di una città–stato e con l’avvallo di quella– contro l’altra.


Ripeto c’è molta naturale bravura in questa scrittura. La pagina non conosce « a capo » e scorre via compatta appunto come, quando si usava la pellicola, compatti scorrevano i nastri delle riprese. E come in un buon film d’azione non ci sono pause non ci sono momenti morti  o, se vogliamo restare nel gergo del mare, non ci sono bonacce.