Nel 1911 la rivista La Voce rifiutò la pubblicazione di un intervento di Umberto Saba dal titolo “Quel che resta da fare ai poeti”. Lo scritto, ritrovato fra le carte del poeta e pubblicato nel 1959, inizia rispondendo, senza preamboli o giri di parole, alla questione posta dal titolo: “ai poeti resta da fare la poesia onesta.” Il concetto di poesia onesta è stato preso a prestito da più di un autore come formula critica buona per ogni stagione, adattabile, anche oltre le intenzioni del poeta triestino, per smascherare presunte o reali disonestà in versi. La nozione di poesia onesta, vaga di per sé, lo diventa assai meno se riferita a quegli autori presi ad esempio da Saba, l’onesto Manzoni e il disonesto D’Annunzio. La falsità di quest’ultimo, in particolare, si esplicherebbe nel momento in cui “si esagera o addirittura si finge passioni e ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento; e questo imperdonabile peccato contro lo spirito egli lo commette al solo e ben meschino scopo di ottenere una strofa più appariscente, un verso più clamoroso.” In tale affermazione emerge un concetto che critici e poeti sembrano temere ed evitare con cura, quel “peccato contro lo spirito”, quella falsità interiore, quella menzogna dell’essere se stessi, che sarebbe causa e conseguenza allo stesso tempo di una poesia disonesta. Si chiederebbero, dunque, al lettore di versi, sia esso o meno un critico di professione, un’esperienza umana, un palpito ineffabile, la messa a nudo di sentimenti, dolori, passioni, esperienze dello spirito prima di un’analisi chirurgica del verso. Insomma la poesia onesta è quella che si abbevera alla verità di un sentimento, riversando questa scossa, questa extrasistole nell’anima di chi legge. Immagino più di un sopracciglio alzarsi di fronte a queste parole (nella poesia contemporanea anima e spirito fanno più paura di tramonti e gabbiani), eppure non si possono non tenere a mente certe affermazione nel prendere in mano “Il dono della notte” del grande ispanista, traduttore e poeta pugliese Emilio Coco, pubblicato da Passigli nel 2009, con prefazione di Vincenzo Ananìa.
Libro pericoloso, che brucia, da maneggiare con cura perché scritto con il dolore della morte sui polpastrelli, da leggere e commentare senza falsi pudori o eroismi, con la compostezza di chi ha vegliato un fratello, Michele Coco, malato terminale e ne ha dato degna sepoltura. Scrive Vincenzo Ananìa nell’introduzione: “questo diario, in forma poetica, della fulminante malattia e dell’agonia e morte di Michele Coco, è un vero e proprio canto d’amore, di riconoscenza e di acuta nostalgia con accenti di inconsueta intensità.” Un diario dunque, scritto la notte al capezzale, ascoltando i tremiti e aspettando il passaggio delle giovani infermiere, un tempo fatto di umanità e canto, che è dono di poesia: “Aspettavo la notte come un dono,/ come il libro più bello da sfogliare/ insieme a te, e soffermarci a leggere/ io le tue traduzioni di Catullo,/ tu le mie dei baschi e catalani./ […]/ Ma la notte era interamente nostra,/ al buio con la nostra solitudine,/ e temevo il rintocco delle ore,/ pregavo Dio che l’alba non spuntasse.”
Il libro, testo dopo testo, è scandito dal rintocco delle ore notturne, dall’avvicendarsi dei turni al capezzale di parenti e medici, attraversando i reparti d’ospedale nel progredire della malattia. Ogni reparto è una sezione del libro: “Reparto neurochirurgia”, “Reparto geriatria e isolamento”, “Reparto lunga degenza”, fino a “Corpo assente” dove i versi si raccolgono per l’ultimo saluto. Eppure, anche nell’infinito dolore della perdita, questo è un testo pulito della retorica dello strazio. Vi è un’adesione meditata e consapevole all’endecasillabo come esercizio e preghiera, come adesione a una compostezza umana e letteraria che si esprime nella veglia solitaria e silenziosa sfidando sonno e fatica; e che in poesia è forma chiusa. Un verso, tuttavia, che è anche omaggio al fratello Michele, anello di trasmissione, insegnamento e condivisione di una passione che: “So che più non sarà com’era prima./ Anche se con ritardo ti ringrazio/ per avermi insegnato che in poesia/ è questione di musica e di ritmo./ […]/ M’iniziasti ai segreti di quel metro/ che amavi tanto: il bell’endecasillabo./ […]/ Tu con grande pazienza correggevi/ i miei versi insonori e un poco zoppi/ ed io mi tormentavo tutto il giorno/ a contare le sillabe battendo/ con le dita sul petto e sulla gamba./ So che più non sarà com’era prima.” Vi è dunque da notare che “Il dono della notte” è libro composto completamente da endecasillabi, cesellati con precisione e nettezza, come omaggio al fratello fine traduttore dei classici e maestro di metrica da una parte, ma anche come mezzo per decodificare e cristallizzare il dolore attraverso la sequenza obbligata di sillabe e accenti dall’altra. Si tratta di un testo che è totalmente onesto, non solo perché distilla la verità biografica della sofferenza e del distacco, ma in quanto non la esibisce cercando l’effetto iperbolico, fintamente ridotto a un minimalismo da stabat mater da condominio, lo si mette sulla carta con la stessa lucida determinazione delle lacrime sul fazzoletto. Si tratta di un rigore e una compostezza che appartengono all’uomo Emilio Coco, al professore e al traduttore, prima ancora che al poeta e alla sua metrica; che lo oppongono alla devastazione della malattia e della morte con una presenza fisica fatta di un amore silenzioso e ostinato. Si vedano i versi nei quali la corona delle persone intorno al capezzale del malato sembra costituire una barriera reale contro l’avanzare della morte: “Non le lasciamo spazio. Ci stringiamo/ tutt’intorno al tuo letto. Siamo cinque:/ […]/ formiamo tutti insieme una barriera/ per sbarrarle il passaggio e siamo vigili.”. È questa, in fondo, una funzione affidata alla poesia stessa, compagna fedele, a tratti contrapposta alla vacuità formale delle immagini sacre (campeggia spesso la figura del Santo di Pietrelcina) appese sopra i letti dei malati, ai quali non si risparmiano critiche per il business che vi gira intorno: “questa notte ho deciso di tradirti,/ di sostituirti nelle mie preghiere/ con un povero santo sconosciuto/ che ha pochissimi fans, forse nessuno,/ che non muove le folle e fa felici/ tour leaders, cappuccini e albergatori./ San Pellegrino Maria Laziosi/ è il nome del mio nuovo intercessore.” Emerge un rapporto complesso con il sacro e la tradizione nel quale si può essere con Dio (“Ti affido a lei e prego che ti accolga/ nel suo grembo dolente come il Cristo.” oppure “intercedi, ti prego, presso Dio/ perché quest’uomo cessi di soffrire”) o contro Dio (“Infermiere, li stacchi da quel muro,/ li porti via, li faccia scomparire./ Più non sopporto il loro sguardo idiota,” oppure “Non voglio più pregarti. Sono stanco./ È la mia decisione irrevocabile.” e oltre “Li miro e li rimiro nella luce/ che viene dalla Chiesa illuminata./ Che ci fate qui dentro? Basto io.”), ma mai senza. Poesia come preghiera (sincera, vera, spesso rotta in pianto), come compagna, come ultima testimonianza, come dono, e come riflessione sul sacro e sul mistero indecifrabile della vita, che proprio all’ultimo metro sembra rivelare un bagliore di luce. In tale contesto non è esclusa una prospettiva teleologica, affidata alla dimensione del ritrovarsi, nella poesia che chiude il libro: “Torneremo a incontrarci in quel paese/ dove il sole risplende tutto il giorno/ […]/ Lì resteremo eternamente giovani,/ faremo un girotondo coi poeti/ […]/ Ci apparteremo, mano nella mano,/ ricordando sciocchezze d’altri tempi,/ lontano dal frastuono della terra.”
I versi, soprattutto quelli maggiormente calcati sui classici tradotti dal fratello Michele, sono la lente per interpretarne gli eventi di una vita, il temperamento, le gesta, attraverso un immediato evemerismo familiare – e dolcissimo – nel quale il malato, al momento del trapasso, assume i caratteri di divinità olimpica: “Conteso da due donne, adori l’una,/ dall’altra sei bramato. E se quest’ultima/ per te sospira languida, ti burli/ del suo amore e insaziabile divori/ le labbra della prima. Ma l’inganno/ non dura a lungo e quando se ne accorge,/ sospinta da un’insana gelosia,/ medita come fartela pagare.”, versi nei quali echeggiano l’amata antologia palatina, Catullo, Saffo, Anacreonte, Alceo spesso citati, ma nei quali è adombrato il micidiale duello in corso fra la vita e la morte; un duello continuo, nella raccolta, come ha modo di rilevare Vincenzo Ananìa nella prefazione, sottolineando come la vita sia “in più punti del poema, in rapporto dialettico con la morte incombente.” Si tratta di versi che ne celebrano la bellezza divina, contesa, come si è visto, dalle donne: “Ragazzo, t’adoravo come un dio,/ un portentoso dio dai capelli/ ondulati e lucenti. Imbaldanzivi,/ corteggiato da tutte le ragazze/ dalla piazza di sopra a Santa chiara.” Oppure versi che calcano quelli di Mimnermo sulla “vecchiaia tremenda” come anticamera della morte: “Grigie le tempie e bianca la tua testa./ Poco tempo t’avanza, ma non temi/ il doloroso Tartaro, ché ancora/ l’amore t’irretisce coi suoi giochi.” Ne emerge il quadro di un uomo fuori dal comune, non solo per bellezza e statura, per le qualità umane, per la fame di vita, bellezza e giovinezza che non lo lasciano neanche nei momenti estremi, ma anche per le finissime qualità intellettuali di traduttore e letterato. Non è un caso che, mentre la raccolta si chiude con il testo “Torneremo a incontrarci in quel paese” già citato, incentrato sull’incontro fra i due fratelli dopo la morte, il penultimo testo è rivolto al rapporto di Michele con i suoi libri: “Che faranno i tuoi libri nello studio?/ È così che chiamavi quel garage/ di oltre sessanta metri che comprasti/ per ospitarli tutti in bella fila/ nei lucidi scaffali allineati/ fino al soffitto lungo le pareti./ […]/ Avvertirà qualcuno la mancanza/ di una carezza lieve sul suo dorso?/ Ti piangeranno i classici latini,/ il tuo amato Catullo, soprattutto?” Come a dire che subito prima dell’amore fraterno, vi è il legame tenacissimo instaurato con e attraverso la letteratura. Un legame che il lettore troverà nella personale esperienza di attraversamento di questo testo, lucido e disarmante nella sua bellezza esente di retorica: un dono di poesia del quale essere grati.
Luca Benassi
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