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lunedì 30 gennaio 2012
Franco Ferrarotti – Atman, il respiro del bosco – Empiria 2012
La circolarità imperfetta
di Piera Mattei
La vita, vista da uno sguardo posto nel cosmo a distanza illimitata, ha una circolarità perfetta e indolore: si torna lì da dove siamo venuti, tutto torna a essere ciò che era stato. Pulvis es et in pulverem reverteris, recitava il rito latino dell'annuale cerimonia delle Ceneri, parafrasando il cupo materialismo dell'Ecclesiaste. Vanitas vanitatum et omnia vanitas. Tutta un'intera vita – i dolori, le gioie , il successo, le passioni, libri letti e scritti, la bellezza, l'orrore – non è stata che una parentesi, e ogni vicenda si ridurrà, per tutti, a poca polvere?
Tornerà in circolo con alcuni elementi e non altri, dice oggi lo scienziato. Sono quel numero di elementi che compongono la vita in tutte le sue forme. Circolarità imperfetta potremmo chiamare il destino di noi esseri non solo sensienti ma anche, per nostra fortuna, sorte e disperazione, coscienti, se riflettiamo sul senso di ripugnanza che quel trapasso da una forma ad altra – la morte – in tutte le sue forme ci procura.
Questo libro, il più recente di Franco Ferrarotti (ma il più recente fino a quando se l'autore dimostra un impulso inarrestabile alla scrittura?), profondamente respira in questa circolarità, in cui sembra sentirsi a completo agio, così da comporre una piccola deliziosa opera, coerente in ogni sua parte, anche se ambisce, come sempre nello stile del suo autore, a una onnicomprensione enciclopedica (mi si passi l'eccesso, utile, credo, a rendere il traboccante temperamento del suo autore), a un onnivoro appetito culturale.
L'autore parte dalle sue origini legate alla terra e ritroviamo i bellissimi racconti di un'infanzia fragile e già molto volitiva, il forte e straordinario ritratto di un padre che lavorava nei campi sempre col cappello nero sulla testa, come un rabbino in preghiera, una zia rimasta nubile ad allevare la prole del fratello, insomma un mondo altro, una famiglia "larga" così com'era una volta in campagna. Larga "naturalmente" con il laccio che, volenti o nolenti, teneva insieme i membri di una stessa piccola comunità piramidale – non perciò famiglia, come oggi, "allargata" nelle più varie e fantasiose composizioni. Ricordi lucidi di molti decenni fa, sempre aperti a dotte digressioni, a citazioni, a rimandi, riflessioni su domande a cui non si è data, e forse non si dà, risposta.
Nel corpo centrale del libro l'autore, attraverso una vicenda attuale (una seccatura burocratica), viene richiamato a quella terra che l'ha visto nascere. S'innesta così sul racconto autobiografico un discorso più ampiamente storico-sociologico di quell'area del Vercellese, tra Trino Palazzuolo e Robella: le vicende delle famiglie, i tracolli economici, le anagrafi e i catasti, i cognomi.
Chi ha reso possibile il richiamo, chi ha effettivamente lanciato il richiamo, non è poi un piccolissimo burocrate, ma una creatura multipla, la fissa e inamovibile comunità del bosco, gli alberi. Il bosco avuto in eredità diventa a questo punto un co-protagonista, che, come può, e avanzando argomentazioni sulla sua parità, o superiorità addirittura, rispetto alle altre specie viventi, reclama dal protagonista-uomo attenzioni e responsabilità. Quest' ultimo, dopo aver schivato a lungo i suoi obblighi, si avventura tra quelle creature arboree. Lì, avviluppato tra gli sterpi e le vitalbe, si perde (o vuole perdersi?). Conclude col fare del bosco il suo ultimo, definitivo rifugio.
In effetti, riflette il protagonista, una metamorfosi in creatura vegetale può essere il modo per evitare il passo ineluttabile e ripugnante della morte, di assicurarsi, se non la mitica immortalità, almeno una longevità non concessa alla sua propria specie.
Finire così, dunque: abbracciato a una quercia centenaria, quercia-madre che "come tutte le madri è un'ombelicale carceriera, dolce fino alla crudeltà estrema".
Eppure anche dopo il cambiamento, che passa attraverso una dolorosa e umiliante evirazione, il protagonista non cessa di parlare con la quercia degli argomenti che più sembrano stare a cuore a lui come uomo di cultura, come professore che era stato, (realizzando in pieno gli antichi sogni della zia): l'abbandono, l'incuria e il decadimento di quell'ambiente universitario a cui a dato più di cinquanta anni di vita.
Il bosco forse non aveva mai sentito prima questo tipo di sospiri. E le piante, lievemente agitandosi, diffondono quelle parole, così come il loro generoso seme, nel vento.
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