Gladis Alicia Pereyra – I panni del saracino – Manni
2015
Aveva urtato metallo, solo metallo, cercando un varco
per fuggire...
Il piede affondò in una sostanza vischiosa...
La narrazione si apre
con grande bravura sul set di un film d’azione, così violento ed esplicito da
confinare con il pulp, con lo splatter: sangue dappertutto, teste mozzate,
piramidi di teste mozzate, e tutto quel ferro sta a indicare che il ferro, la
lama, era ancora lo strumento principale per dare la morte.
Siamo infatti nell’anno 1291, al crollo del Tempio, luogo di potere dei bellicosi
cavalieri Templari, che conclude l’ultima crociata.
Si tratta di un romanzo arditamente costruito, un romanzo di 450 pagine, un colpo di scena sull’altro, avventure,
incontri, un romanzo che si legge senza un attimo di noia.
Mi sono chiesta se
Gladys Pereyra con questa sua fatica
volesse anche inviare un messaggio. Non sembrerebbe possa essere senza echi nell’attualità,
infatti, parlare di Crociate, o meglio di quell’episodio storico che segnò la
definitiva sconfitta dei Crociati, dei cristiani ad opera dei musulmani, nei
Luoghi Santi. Ma in realtà, in questo lungo romanzo, dopo i primi episodi, la
guerra tra musulmani e cristiani passa in secondo piano. Quindi infine – anticipo
qui la risposta che mi sono data solo a lettura ultimata del romanzo – all’interrogativo
che mi sono posta risponderei proprio di no. Gladys non vuole proporre qui
nessuna analogia o confronto con l’attualità.
La mia conclusione è
che Gladys Pereyra ha scritto queste molte
pagine, intrecciando l’una all’altra tutte queste avventure per il puro piacere
della scrittura romanzesca. Direi che questo libro ha i caratteri del
romanzo puro, che in parte persino travolge le intenzioni dell’autrice perché
le intenzioni sono interne alla stessa sua qualità letteraria, qualità
dell’opera e qualità dell’autrice.
Parafrasando un
celeberrimo titolo, per dare l’idea dell’ autonomia del ritmo naturale e
travolgente di questo romanzo, che è, a mio giudizio, narrazione pura,
definirei « I panni del saracino »un romanzo in cerca d’autrice. Infatti i panni che il protagonista
per poco indossa, scompaiono nel corso del romanzo, per riemergere nel finale,
dove interviene la volontà costruttiva dell’autrice, mentre per centinaia di
pagine sembrava quasi che l’autrice fosse trascinata dalla forza del
raccontare, travolta dalle stesse immagini che si formavano nella
sua mente.
Ma torniamo alla
trama. Il protagonista è un giovane
frate francescano, al quale, evidentemente, la paura, lo shock fanno quasi
subito dimenticare questa sua identità : Corre.... la città non era più sua, non era più cristiana. Il
frate non tanto dalla città sta correndo via quanto dalla propria identità. Non
è più un frate e il nome di Frate che,
con evidente paradosso, daranno a lui come pirata e poi corsaro, starà
proprio a indicare la negazione di quella identità.
Ha smesso di essere
frate non perché, per difendersi da una probabile uccisione, ucciderà per
primo. Non sappiamo che tipo di frate fosse stato prima, e del resto la sua
vita da frate non può essere stata lunga. Il francescano in fuga è infatti molto
giovane e nel suo comportamento non si leggono, non si leggeranno più, nemmeno
forse nel capitolo definitivo del romanzo, le impronte di quei voti, di quelle
scelte che un monaco deve rispettare, portare per sempre impresse nella sua
personalità e nel suo comportamento usque
ad mortem: povertà, castità, obbedienza.
Dove sono i superiori
del giovane frate, il frate guardiano che vigila sulla condotta di tutta la
comunità e a cui si deve obbedienza? e perché il frate ruba la borsa da un
cadavere, non dal cadavere dell’uomo che ha ucciso, quindi in un primo
immediato impulso, ma da un altro che gli cade davanti ai piedi ? non
dovrebbe non possedere nulla di suo ? E perché poco prima del furto al
cadavere, vilmente, si era nascosto assistendo alla tremenda violenza su una
donna?
Non solo non più
frate, ma all’inizio del romanzo tutto in lui è paura e viltà.
La domanda che in un
primo momento sembra porsi come centrale, leggendo questo romanzo
dall’inquadramento storico è: Nerino Buondelmonti è effettivamente
esistito o avrebbe potuto esistere ?
Ma occorre fermarsi
alla soglia di questa domanda perché non è la verisimiglianza che dice la
verità o la falsità di un racconto. Troppe volte la verità supera di gran lunga l’immaginazione e la
fantasia.
La risposta ad alcune
delle domande che ci siamo formulati la troveremo nell’ultimo capitolo del
libro, che, come abbiamo accennato, sembra voler resuscitare dopo le avventure
più mirabolanti e violente, la travolta identità non tanto di religioso quanto
di uomo, di individuo non più al di sopra e al di fuori dell’etica, ma obbediente
ai comandamenti umani, primo tra tutti « non ucciderai ».
Ma qui vorremmo
trovare subito una risposta a quelle
domande. Direi che Nerino, questo è il nome dell’uomo e non sapremo mai
quello del frate, non rispetta i voti che da poco, data la sua giovane età,
dovrebbe aver giurato, perché mai l’identità di frate si è radicata in lui, o
ha avuto tempo di radicarsi.
Nerino, il pauroso,
il vigliacco, il frate che conosciamo
dalle prime pagine già così poco frate, si tramuta presto in eroe, il
protagonista di una pellicola nella quale, nostante tutto, ogni uomo, ogni
evento, sembra obbedirgli e, infine, essergli favorevole.
Nel solo incontro che
ho avuto con Gladis, quando ancora non avevo letto neppure una pagina del
romanzo, proprio guardando la copertina del libro, osservando questo cavaliere
con la lancia in resta, tra il grigio chiarissimo della nebbia ho fatto il nome di Olmi. Ho pensato al suo
« Il mestiere delle armi ». E Gladis mi ha confermato il suo amore
per quel cinema anche se, mi ha detto, in questo racconto non ci sono
cavalieri. Tutto avviene sulle navi.
Infatti la
terminologia marinara delle imbarcazioni dell’epoca è usata, con grande abilità
degna veramente di ammirazione, nell’illustrare le manovre della nave (cfr pag.89).
Gladis mi ha detto di
non avere avuto riferimenti letterari
per la costruzione di questo suo romanzo. Ma i riferimenti possono anche essere
involontari, semplici sedimenti della memoria, anche se forse solo in chi
legge. Leggendo questo libro, altri libri mi sono tornati in mente, tra i quali
cito :
« Il visconte
dimezzato » per l’atmosfera di guerra tra cristiani e musulmani sulla
quale si apre il racconto e nella quale avviene la trasformazione del
protagonista, benchè, vedremo, Nerino , seppure ferito, in qualche modo, almeno
nella mia lettura, rimane sempre intatto ;
« L’isola del
giorno prima » per quel set quasi fisso di navi e imbarcazioni, benchè lì,
nel romanzo di Eco, ci siano riflessione e stasi, qui invece continua azione e
movimento
persino a « I
promessi sposi » per il riferimento all’ordine francescano, a un
francescano omicida, anche se lì si uccide prima di farsi frate e una sola
volta, qui Nerino uccide nelle vesti da frate e poi innumerevoli volte dopo
averle cambiate.
Infine, poiché
l’origine argentina lega Gladis Pereyra ad almeno due tradizioni e culture
letterarie, non posso non ascoltare, nel finale ravvedimento di Nerino, l’eco di
un grande romanzo che ha a grandissimo protagonista proprio l’antieroe, per
aspetto e comportamenti, quel Chisciotte,
che Cervantes ha voluto far morire savio
Quindi, nonostate
stimoli esterni possano essere venuti da queste letture « classiche », ho pensato infine che dovevo cercare ancora un classico più classico, dovevo
arrivare ai poemi eroici e, in particolare, all’Odissea.
Lì ritrovavo il mare,
le navi, l’avventura, i combattimenti feroci ma soprattutto ritrovavo un dato
fondamentale: la bellezza come tratto distintivo
dell’eroe.
Solo per
esemplificare, richiamerei qui l’edisodio di Nausicaa, quando Athena diffonde
bellezza sulle forme di Odisseo perché l’incontro con i Feaci gli sia del tutto
favorevole, sia un incontro insieme vincente e salvifico:
Come si fu per intero lavato e poi unto con olio
e rivestito di vesti che diede la vergine intatta,
ecco che allora lo rese Atena, la figlia di Zeus,
tanto più grande e robusto a vedersi e sopra la fronte
folte le chiome versò e simili a un fiore, al giacinto.
E come quando riversa sull’oro l’argento un artiere
abile, che sia istruito da Efesto e da Pallade Atena
d’ogni segreto dell’arte e compia lavori graziosi,
simile grazia la dea gli versò sul capo e le spalle.
Egli alla riva del mare, in disparte, venne a sedersi,
e di bellezza e di grazia
splendeva; e stupì la fanciulla.
Sempre, nei poemi classici,
compresa l’Eneide, gli dei fanno rifulgere di bellezza quelli che intendono
proteggere. E Nerino appare bellissimo, persino nella sua violenza, dopo aver
commesso l’omicidio che lo muterà da schiavo a capo della galea: un vincitore così tremendo e magnifico.
Di Nerino sappiamo la
nobilissima casata– ma anche questi
nobili parenti ricompaiono solo al capito conclusivo– sappiamo che presto si fa
radere per far scomparire la tonsura e, con l’umiliazione della chierica, tutti
gli obblighi di una vita monastica, ma soprattutto, subito e per sempre, sappiamo
che è bello. Questo aggettivo, e il termine bellezza riferito a lui, sono ripetuti infinite volte.
Quindi anche se uccide e ordina assalti e stragi, Nerino non è malvagio. Un
volto e un corpo di una bellezza senza difetti, è fuori dalle categie
dell’etica. Kalagatòs come dicevano i
greci. Piace a uomini e donne, anzi suscita più facilmente la libidine maschile,
e da quella lui si tiene più al riparo.
La bellezza è il tratto distintivo dell’eroe che dai poemi si è travasata, in epoche recenti
proprio nel cinema, soprattutto nel cinema d’azione e d’avventura, e non voglio
qui parlare della bellezza ancora intatta del pirata Johnny Deep. In Nerino
dunque sarebbe riconoscibile un eroe omerico sul set di un film d’azione a
inquadramento storico, con lunghe scene splatter ?
Come nell’Odissea il protagonista è circondato da compagni che lo seguono, che non
possono eguagliarlo, che non possono non amarlo e rispettarlo. I personaggi
maschili minori sono qui assai ben tratteggiati: il gigante Theo , il violento
e melanconico meticcio Nikos, il
libidinoso Marcello...
Le donne hanno dei caratteri meno
definiti ma, tornando al raffronto col poema omerico, la libera Sibilla potrebbe paragonarsi a Calipso, anche
se, rispetto all’originale che propongo, Nerino si sente molto meno sforzato ad
amarla, e Anna, l’amore vero, lei è destinata subito a obbedire al ruolo di
Penelope, perché subito dopo averla sposata, Nerino riparte per viaggi lontani.
Molto ben descritta è
questa società di « mercanti »,
che non sono veri mercanti, o lo sono perfino troppo, veri predoni che
rincorrono le navi per rubare le merci e chiedere il riscatto per i
prigionieri, o venderli se sono giovani. Nella seconda parte del romanzo è in
evidenza la rivalità tra le due più potenti città marinare, Genova e Venezia. Inserendosi infatti astutamente
nelle maglie di questa rivalità Nerino s’evolve da pirata a corsaro– cioè ladro
e predone per conto di una città–stato e con l’avvallo di quella– contro
l’altra.
Ripeto c’è molta naturale
bravura in questa scrittura. La pagina
non conosce « a capo » e scorre via compatta appunto come, quando si
usava la pellicola, compatti scorrevano i nastri delle riprese. E come in
un buon film d’azione non ci sono pause non ci sono momenti morti o, se vogliamo restare nel gergo del mare,
non ci sono bonacce.
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