Giuseppe D'Alessandro – L'autostrada e altre poesie (1967-2008) – Manni, 2010
Poco meno di duecentocinquanta poesie: in un'autoantologia che abbraccia l'arco di quarant'anni una voce che varia restando tuttavia sempre nitida, sincera. Chiamare un libro così complesso e impegnativo col nome di una poesia che compare già nella prima raccolta (Mare Lungo, 1967), vorrà certo significare fedeltà alla propria originaria ispirazione. Forse anche alludere a una filosofia per cui, nonostante i cambiamenti che gli anni e le esperienze portano, si rimane sostanzialmente identici a se stessi. Forse si allude anche a un'identità irrinunciabile e – non vorrei spingermi troppo oltre – a un'anima sostanziale che renderà sempre riconoscibile quell'uomo (il poeta) da tutti gli altri uomini. A quella unicità potrebbe fare ironico riferimento la difesa di un difetto della vista, l'astigmatismo, nella raccolta Il tamburo di sabbia (1978): Sono astigmatico / e non ho voglia di mettere gli occhiali / per vedere le cose tutte eguali / e con lo stesso valore di soglia / di tutti i mortali.
Il titolo a cui sopra facevamo allusione è L'autostrada (1967), poesia che apre il volume. "Autostrada" sta a indicare un non-luogo per eccellenza, l'immagine non direi della vita, ma di un tempo astratto, necessario contenitore entro il quale tutto, i pensieri e gli eventi, scorrono senza requie, quasi senza permettere assunzioni di responsabilità e invenzioni di altre logiche: E' tutto scritto qui / per terra come / sulle piste degli aerei / in strisce bianche / e larghe come garze / le deviazioni / le decisioni / le precedenze. Il miracolo può avvenire sì, lungo il tragitto, come D'Alessandro scriverà più tardi in La nebbia sull'autostrada (2008) – poesia che compare qui tra gli inediti – sotto la forma, nell'angoscioso, impenetrabile biancore, di un camion-guida. Strade e tempo ci percorrono, mentre noi le percorriamo: per il poeta, medico di professione, scrutare il corpo ammalato, o che ha esaurito la vita, è ugualmente un riandare per sentieri tortuosi a individuare dove è avvenuto l'infarto, il punto del transito interrotto / da una frana (L'Autopsia).
Già dalle prime raccolte, accanto a questa poesia di riflessione esistenziale, risuonano altre note di timbro diverso. Persone ci vengono incontro, personaggi ritratti in interni o contro orizzonti aperti. Da subito si fanno spazio sulla pagina il paesaggio del cuore e il mare: Le canne / del mio paese / vanno tutte al mare. Da nord, da sud / e da ovest vanno tutte / verso il mare. In una raccolta del 2002, Velocità di sedimentazione, D'Alessandro dedicherà al suo paese natale – quale era nel 1950, prima del suo trasferimento a Roma – un rapido scatto che ricorda, nell'affettuosità ironica dello sguardo, il palazzeschiano Rio Bo: Rutigliano, / come una mano. / Un palmo di case, / cinque dita di strade. / E tutt'intorno / a tappeto: / i vigneti. Una terra goduta, con gli occhi e tutti gli altri sensi, non escluso quello del gusto, che gli fa riconoscere, ad esempio, senza possibilità d'errore e senza ricorrere alla coltivata esperienza di un enologo, quale sia il vino che nutre e quello che fa male. Terra che, suo padre gli dice, è storia: una volta produceva poco grano e poche olive e negli anni sessanta è stata convertita a vite, vino / che va tutto in bottiglia.
Presente fin dalle prime pagine è la corda giocosa: Il mare sulla riva / cerca bottiglie e pipe. […] il mare sulla riva / cerca una foglia / di fico e una coda / di lupo. / Il fico non ha foglia / il lupo non ha voglia. Tenerezza che muove al sorriso e giocosità serena ispirano le tre poesie che concludono la selezione da Il tamburo di sabbia, dedicate al canarino solitario prima e quindi alla coppia dei canarini, con Ciuffettina smaniosa e il compagno che si affanna a spiegarle.
Straordinarie similarità con quanto avviene nella gabbia degli uccellini, ha l'amore domestico, un amore fiero di saper individuare semplici strategie: Quando tu sei triste / io divento più triste di te. / (Una furbizia dell'anima?) / Tu pentita ti sforzi / di sorridermi, ti schiari / e come pulendo l'argento con il daino togli / al mio cuore tutto / il verderame. Dove certo la sorpresa è in quell' osmotico trapasso per cui, quasi con valenza dantesca, al sorriso di lei e lei schiarendosi, è lui che torna pulito di ogni "sucidume".
Un amore che ostenta di avere convinzioni inamovibili, per quanto debba poi riflettere che tutto, come sull'autostrada, come dentro le vene, sia in continuo movimento. Un movimento dotato di un ritmo circolare e necessario: Io non posso essere / che il muratore / e tu la pietra / che si lascia mutare. / Io non posso essere / che il vento / che ti tocca / e tu la foglia / che canta. Ma tu sei il cuore e io il sangue / che corre a raggiungerlo: (respinto sempre, / sempre al cuore / ritorna).
E' evidente pertanto che accanto all'ascolto di diversi toni poetici, lirici, gnomici, giocosi, il libro presenta un fitto tessuto narrativo e si dispone a essere letto anche come un'autobiografia. Le 11 poesie per Lorenza, sono per l'amata madre che sta morendo: muore, anche se con incredula obbedienza ha trangugiato tutte le pasticche che il figlio le prescriveva. La data di questo lutto segna nella biografia un confine, una linea divisoria, e nella poesia fa spazio a una corda patetica. Vibra ogniqualvolta il ricordo della madre s'affaccia, spesso rispecchiato dal preoccupato, protettivo amore per il figlio: il nome "madre" nei primi versi, quello di "figlio" in coda alla lirica, la madre a dare pace, alimento, mentre c'è solo il grido / di tuo figlio / che ti chiama / urlando da lontano (Sogno). Alla muta e santa immagine della madre fa da contrappunto un ritratto vivido del padre, tutto discorsi concreti, battute serrate, contenuti rimproveri. Si osserva dimagrire inesorabilmente e lo denuncia al figlio medico, solo forse per eccitare la sua tenerezza: sei sempre più diviso / tra noi qua tutti vivi / e lei, là, sola tra i morti. Vive a lungo da rendersi più ingombrante di un armadio e riuscendo a far sentire nel sangue del figlio, nei gesti che si osserva fare e persino nelle pantofole che infila ai piedi, una continuità senza fratture. A questo sviluppo narrativo di filiale pietas, nella raccolta Venti di mare e di costa del 1993, s'intrecciano, non senza effetto sorpresa, poesie di amore–passione che hanno anche la forza di un canto-riso per un regalo tutto nuovo della vita. Da una nota in appendice al libro ci pare di poter dedurre che la data di composizione dell'Itinerario amoroso è di molto precedente alla sua pubblicazione. Sarebbero quindi poesie contemporanee e parallele a quelle d'amore casto e coniugale? Poesie a cui finalmente si è aperto l'uscio, si è concesso di venire gioisamente alla luce? Alcune sono di chiaro e divertito contenuto erotico, come ad esempio: Le piccole morti, Quell'affannoso ingresso, Il treno per Venezia.
Preziosi intanto rintracciamo alcuni schizzi che rimandano a Campana, Palazzeschi e, perché no, a Caproni, a cui in questo libro è dedicato un intero capitolo: Ridono due suorine / tenendosi strette, vicine. / Ridono di niente / e di tutto / su questo mondo distrutto.
Di Giuseppe (Peppino) D'Alessandro abbiamo detto che ha esercitato tutta la vita la professione di medico. Dove veramente il suo sguardo di poeta si sovrappone perfettamente all'occhio del clinico è nel già citato capitolo, unico non datato, dedicato a Caproni: C'era il mio amico Giorgio. Caproni paziente e amico: sue parole e flash della sua personalità circolano del resto anche in altre parti del libro. Raccontano la storia di un'amicizia, una storia dentro la storia: il primo incontro, il dono di un violino, i cambi di casa, la malattia, l'ultimo periodo, come appunto suona la composizione che chiude quella sezione: Ma, prima di cena, / in una tazza da caffè / un dito di Cognac / succhiavi con uno / spaghetto col buco. / Dicevi che ti recava / poco danno perché / una parte dell'alcool / se la prendeva / la pasta-semola / di quella inusitata cannuccia.
Come il corpo con gli anni s'asciuga e ne resta l'essenza vitale, il soffio, così in questo libro le sezioni che portano le date degli anni Duemila ospitano una poesia che tende alla consistenza di un sospiro, spesso di un'invocazione al divino, mai presente, nel suo esplicito tono di preghiera, nelle poesie precedenti. Si accenna, è vero, al superamento di una depressione, e certo tornare a scrivere, a riconoscere le forme e i colori, dopo che tutto era apparso informe e grigio, implica una riconquistata accettazione del vivere. Eppure, in una delle poesie più belle di una delle ultime sezioni, addirittura un luogo di sole e spensieratezza quale dovrebbe essere una spiaggia, diventa un cimitero, formato solo di polvere, di cenere di morti:…Tutta la polvere è fatta dei nostri morti / e quando il vento la solleva / porta la loro carezza sul nostro viso. / Domani la polvere dei morti / tornerà a toccarmi ancora / finché non saremo noi / polvere che avvolge altri vivi. / Le madri non sanno / che ogni granello di sabbia / della spiaggia è un nostro / antenato che scorre / nelle mani dei bambini. Certo, le madri "non sanno", e così deve essere se vogliono, senza sensi di colpa, portare avanti il loro destino di dispensatrici di vita. Noi tutti cerchiamo di dimenticare nella quotidianità, la "forza operosa" che affatica la materia, anche dentro il nostro corpo, "di moto in moto".
Altrove è come se il poeta, uscito da quel tunnel, si sia fatto tutto anima, o speranza di essere e restare solo anima, ancora durando la vita. I ricordi persino, che sono stati all'origine di tanta ispirazione, si stanno allontanando, quasi svanendo in nuvole: Io amo tutte le nuvole / che sono vestite di bianco. / Non amo le nuvole nere / che mi ricordano il male del mondo. Qui mi pare importante sottolineare quell'incipit sul pronome di prima persona, certo non casuale, necessario a ribadire la forte personalità del poeta. Che con questa autoantologia-biografia si ripropone "a tutto tondo": non solo affetti, lutti, amicizie, ricordi, amori, autostrade, paesaggi e mare ma una vita di riconoscimenti e di incontri umanamente e letterariamente importanti – come Walter Pedullà ricorda nell'ampia Prefazione – d'impegno umano, di riflessione concreta sul corpo, sulla salute fisica e psichica degli uomini. Lo fa nel modo sempre coerente della sua scrittura limpida, senza schermi, non lasciando in ombra, ci sembra, nessun particolare della sua ricca e complessa avventura poetica.
Piera Mattei
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