Lino Angiuli – L'appello della mano – Nino Aragno editore, 2010
…inutile chiudere sotto chiave tutto / […] ho ben altro da fare / con i cinque sensi: potrebbe sembrare l'enunciazione di una filosofia-poetica della placida dissipazione, visto che questi versi sono riportati anche al centro della copertina del libro. Andando a leggere poi tutto quello di cui il libro "si riempie" si trova ben altro: uno sguardo acuto e un udito perfetto, anche se, come Angiuli ama ricordare, unidirezionale. E un amore per tutto quanto le varie porzioni di corpo catturano, anche di-vertendosi a in-vertire le specifiche proprietà sensoriali: le mani hanno cento occhi / gli occhi cento mani. L'appello della mano, tuttavia, come recita il titolo, sembra dare assoluta priorità a quel tatto che per primo spinge le labbra verso il seno della madre da cui succhieranno il nutrimento, sperimentando e riconoscendo il primo essenziale piacere. Il tatto, con i ciechi olfatto e gusto e prima che i più sapienti sguardo e udito siano in grado di organizzare i dati che catturano:tre sensi che guidano verso il cibo, la sopravvivenza. E quanti nomi di cibi essenziali al vivere o di cibi semplicemente gustosi, paesani, compaiono qui! Se le parole che li designano s'intridono del loro sapore, sono parole buone, si trasformano in spirituale e fisico legame alla madre, alla terra materna. Così nella prima poesia dal tascapane vengono estratte le parole che indicano l'olio, il pomo d'oro, accanto allo iapigio lampascione, alla pagnotta d'altamura. Pane e saporito cibo vegetale come companatico: così in prevalenza si sono nutrite per secoli le popolazioni del sud – la bocca del poeta ne è rimasta fragrante. Canta anche i fiori semplici dell'estate, zinnie e gerani, come sfondo a infantili crudeltà: quando io e noi senza saperlo / andavamo in campagna a cogliere cicale / aggrappate a una controra / me le ricordo bene come friggevano / tenacemente / dentro il loro ardente deprofundis. Accanto alla campagna, per quanto devastata dalla ottusa cementificazione, si spalanca il mare e cercano la loro pace i camposanti. La morte è sereno trapasso:
in compagnia del paternostro e dei parenti / vivi o morti che differenza fa?;
… il mestiere della morte s'impara imparando / a svuotare i cassetti,
sorridente parodia dell' ungarettiano "la morte / si sconta / vivendo", in chiave di eroismo domestico e periodica disciplina di francescana spoliazione.
La prima sezione, alla quale ci siamo qui in gran parte attenuti, s'intitola Meditareneo ed ha come sottotitolo undici undicesimi nonostante tutto, dove si esprimono la passione di Lino Angiuli per i nomi meticciati – quando sensi e sapori diversi s'abbracciano – e un'altra passione che, non meno, la sua poesia ha bisogno di soddisfare. Mi riferisco alla misura perfetta e insieme originale, adatta a costruire un oggetto concreto, maneggiabile, quasi dotato di spigoli e di lati. Poesia anche geometrica e numerologica. Qui si tratta di undici poesie di undici versi, ciascuna per due volte spezzata da un avverbio di modo in -mente, isolato da solo nel verso. Contro ogni forma di razzismo antiavverbiale, quasi una programmatica rivalutazione di quella forma grammaticale di solito discriminata in poesia. E già che parliamo di inquadrature metriche e confini determinati, la sezione successiva In lungo e in largo comprende le orazioni settimanali, dove la misura del sette si diverte a moltiplicarsi in forma ossessiva: ognuno dei componimenti, sette come i giorni della settimana – i nomi in lingue diverse – ha sette strofe di sette righe compatte ciascuna, ma non siamo sicuri che altre simmetrie non restino nascoste a uno sguardo anche attento.
In questa poesia la serietà è gemella del gioco, l'equivoco e gli scambi sono ricercati. Così il flaubertiano "Madame Bovary c'est moi", ordina di mettersi con tutti i sensi vivi, "dalla parte di lei" e immaginare S'io fossi donna, con ardore degno di Cecco, soprattutto nell'atto dell'amore.
Se dovessi a questo punto trovare una formula per definire la poesia di Angiuli parlerei di intenzionalità libera, di ardore incatenato, di sempre pronto sorriso sulla tragedia umana. Forse così sintetizzo, anche troppo, quanto, con argomentare più rotondo, Daniela Marcheschi scrive nell'acuta postfazione: Se la minimizzazione ironica, il sistematico sfocamento ritmico e tonale del discorso, sembrano frapporre ostacoli a una più intensa espressione dell'affettività, creando spinte centrifughe e nei fatti frammentando i testi, è pure comprensibile quanto, con simile dissolvenza, Angiuli abbia puntato sia a un più libero sviluppo delle esperienze sia a contenere i toni di una poesia che irride positivamente, fra i tanti pseudovalori, a ogni facile retorica.
Davvero non c'è argomento dove sarebbe più semplice scivolare nella retorica vieta che nel canto innamorato della propria terra e Angiuli è, se non anzitutto certo appassionatamente, cantore della propria terra. Il modo con cui Angiuli risolve la sua esigenza espressiva trovando la strada per una personale retorica, quella che il proprio stile, e "il fren dell'arte" gli concede, è evidente in Quaggiù, nella sesta delle dieci vedute dal basso. Lì, esordisce con una dichiarazione appassionata: Dovete sapere che mai e poi mai il cuore mio / spatrierà vivo o morto dal luogo del tempo / dove succhiai il latte e la luce insieme a voi. Dove vanno sottolineati il solenne tono enunciativo (Dovete sapere che), la negazione fortemente assertiva, raddoppiata (mai e poi mai) l'uso di un lessico romanticissimo, verbi e aggettivi possessivi e in funzione predicativa compresi: il cuore mio / spatrierà vivo o morto. Ma ecco s'introduce accanto all'avverbio di luogo che un tale verbo s'attende, la complessità di significato, la retrocessione prodotta da un'inaspettata specificazione: dal luogo del tempo. Espressione che c'induce a una pausa, a un rapido riavvolgimento di pellicola e d'immagini, per trovarci lì, dove succhiai il latte e la luce insieme a voi. Quindi, al punto in cui ci ha caricato di emozioni, lì improvvisamente ci lascia, iniziando il verso successivo con un prosaico pure se adesso. Lo scenario torna all'oggi per un attimo, subito appresso ricadendo in un passato lontano, ai tempi delle scelte e del primo amore. Apre un intatto scenario nuovamente con i toni del predicatore o del profeta: dovreste ormai saperlo che una banca non vale / quanto il sorriso di vanna allorquando usciva / per andare incontro al suo primo bacio / con l'amore di basilico fresco nella bocca. Qui è il sorriso di Lino Angiuli (Angiulino), affettuoso ma indubitabilmente ironico, che smorza senza violenza il pathos col ricorso alla parlata domestica, e ricolloca i ricordi nel paesaggio fisso che si apre oltre i vetri della casa: dopo aver lucidato i lastri di quella finestra che / dà sul largo dei nostri megli ricordi in carneossa.
Piera Mattei
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