Espedita e Vita,
nota critica di Piera Mattei
Pepe è il titolo di un monologo scritto e interpretato da
Laura Riccioli, che è rimasto in
scena (peccato!) solo due giorni al teatro Tordinona di Roma.
Quanto colpisce, durante un'ora o poco più che l'ascoltiamo
e seguiamo, è la capacità dell'autrice di trasferirsi completamente nell'altro,
nell'altra, nel suo personaggio, fino quasi ad annullare la finzione scenica.
Una scena vuota, col corredo di pochi oggetti – una tela dei
pennelli, una rivista d'arte, un
barattolo e un cucchiaio. Si muove irrequieta sulla pedana, atteggia il volto
in una mimica mobilissima, in cui le parole si muovono nella bocca come fossero
oggetti materiali – masticati, assaporati, espulsi. Poi la pronuncia
fondamentale di quelle parole, e quasi del tutto dimentichiamo di avere di
fronte una donna borghese, che ha studiato e insegna arte e teatro. Quella, per
la durata dello spettacolo, è del tutto scomparsa nel gesticolare di una
detenuta ancora giovane, ancora attenta al suo corpo, ancora curiosa e esigente
per i corpi degli altri (la chiattona
è la Venere di Milo, e lei, la prof, dovrebbe, per favore, rifarsi la tinta),
ma probabilmente destinata ormai a muovere quel corpo solo in pochi gesti
ripetitivi, tragitti brevi, dalla cella all'aula di teatro e pittura, dalla
cella al cortile per la partita di pallavolo.
La libertà consiste ormai nel negarsi la partita per
scegliere la conversazione a due con l'insegnate, una conversazione che così
può diventare intima, scendere in domande personali e confidenze, che
altrimenti, anche possibili insieme alle altre, avrebbero tutt'altro tono,
forse quello dell'irrisione.
Chi è dunque Espedita Pepe, che sulla scena s'impossessa in
tutto del corpo e della voce di Laura Riccioli? E' una donna effettivamente
incontrata, di cui Laura è riuscita a cogliere l'anima, l'atteggiamento
nonostante tutto positivo verso la vita, oppure è la sintesi di più donne
incontrate durante sei anni di insegnamento nel carcere di Civitavecchia?
Se Espedita si trova lì, è che ha commesso un crimine, più
crimini gravi, ma la sua insegnante, forse giustamente, non deve saperlo e
neppure noi. Quella che abbiamo davanti è una donna che del suo passato di
delitti non vuole dirci nulla. Fa riferimenti, aggressivi o ironici, ai rapporti
con le guardie carcerarie e con le altre detenute, certo, ma soprattutto appare
determinata a scavare dentro, nell'interno di sè e dell'altra, che dopotutto
o soprattutto è una donna, come lei. Allora quale argomento più adatto che la
maternità: la madre che viene a trovarla, la figlia che studia. E lei, la prof,
ha figli? Ha conosciuto quella passione che lega a chi metti al mondo?
Interpella Vita, come lei chiama la sua prof, che viene da fuori, che vive fuori, che può mostrarle
qualcosa di diverso dalla realtà in cui, anche fuori, viveva lei, o dalla
realtà attuale, ripetitiva e disperata, del carcere. E Espedita prende appunti,
scrive anche lei le sue massime che forse le serviranno persino nei comportamenti
irrigiditi nei rituali della vita detentiva, ma soprattutto alimentano una cura
di sè, che la fanno resistere, anche chiusa lì dentro, nell'ambito di quella
che (non sempre a buon diritto, tuttavia) chiamiamo umanità.
Dunque, brava Laura Riccioli! La pronuncia del testo è
perfetta, cioè senza scarti o ristagni tra scrittura e interpretazione, e bella
anche la voce, o le voci, delle canzoni carcerarie, che qui non possiamo
citare, perchè il nome non compare sulla locandina.
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