Alla prima lettura di Poemetto tra i denti l’impressione è
quella di una poesia scritta con orecchio musicale, con sicuro e naturale gusto
linguistico. Una voce matura, severa, modulata da venature di sarcasmo.
Ci
piace assaporare un libro e trovarne le ragioni, con gli organi di senso (la
vista, l’udito) prima, con la pazienza delle connessioni e dei rimandi poi, con
un procedimento critico che un poco assomiglia a un’indagine poliziesca. Veniamo
quindi al senso della lettera, delle parole, al loro significato e alla loro
giustificazione: questo Poemetto tra i
denti sottintende, come scrive nella prefazione Elio Pecora, un pessimismo
assoluto, prossimo a Qohèlet, ai borboglii di Beckett?
Sì,
certamente, alcune di queste poesie ci riconducono all’Eterna Ripetizione,
nella prospettiva di una negatività cosmico-storica. La poesia, che di seguito
citiamo per intero, ci sembra la più rappresentativa di tale messaggio, quasi una
riedizione, pacatamente disperata, delle parole dello scrittore biblico:
Così le cose semplici
se ne vanno per il mondo
figliano, soffrono, semplicemente muoiono.
Le altre cose
quelle appuntite, che non danno tregua
camminano sfiorando i muri
mai che s’incontrino, mai un saluto;
figliano, soffrono,
semplicemente muoiono.
Di tono più amaro, con riferimento
al liquame fossile, all’accumulo di un niente cui è
riducibile la vita, è la poesia Se fossi
in te me ne andrei, dove andarsene coincide con l’uscire di scena, ma non
con serena attitudine stoica o nella prospettiva di un’orientale accettazione
della Ruota della vita, ma quasi con ribrezzo e risentimento. Anche l’amore è,
infatti – e sembra di riascoltare Schopenhauer – un inganno, un’invenzione / di questa vita querula / sta
lì a dirci che nostra madre è terra / che prima ordina e poi disfa.
Proprio in questa poesia
l’imperativo Acconsenti, che chi
scrive rivolge a se stessa, non è credibile per l’amarezza degli ultimi due
versi: troverà posto ciò che siamo stati
/ un reperto anatomico tra i cani. Andarsene non sarebbe comunque, non potrà
essere mai, una faccenda pulita. Al massimo produce poca polvere, ma sempre
materiale di scarto:
Siamo mobili di legno disposti in stanze ariose
In primavera la tarma arriva scava mette l’uovo
E ti ritrovi dentro trame misteriose
E sotto solo polvere
Ma ci sono altre poesie in
cui dobbiamo leggere – e anche in questo caso gli illustri precedenti non
mancano davvero – il bisogno di riscatto, se non la tentazione di una rivalsa.
Per questo il poemetto è pronunciato tra
i denti.
Come dire che non è solo la
vita, la Natura leopardiana ad essere maligna, ma gli esseri umani, gli uomini
in particolare. L’autrice, la donna che parla, solo obbedendo all’istinto,
femminile, materno, li accoglie talvolta, ma non li assolve: inoltre, vedi, son donna e a me è laterale /
di tanto in tanto una materna vampa.
Proprio nella poesia da
cui abbiamo preso l’ultima citazione troviamo il riferimento alle bandiere, al sociale e al comunismo,
quest’ultimo non invenzione umana, ma idea che sta attaccata alle fibre del creato, se identica è la pioggia che ci bagna.
Poesia civile, rivoluzione, sono idee che
si agitano in tutta questa prima parte del libro, a cominciare dalla pagina
d’apertura, e la polemica è rivolta a qualcuno che di quelle idee ha forse
profittato, un uomo, maggiore d’età e forse di energie, d’esperienza:
Anch’io fui sulle barricate
non sopra ma accanto
ad altri lasciai spazio per gli allori.
[…]
Lolita, restai accanto al mio carnefice
finsi d’amarlo.
Due versi, gli ultimi di
questa citazione, che non sono forse i più belli della raccolta, ma sono
significativi del sentimento sottinteso in queste pagine. Un’accusa che non
comporta assoluzione verso chi la pronuncia, se l’eroina in cui identificarsi non
è il più innocente tra i personaggi della letteratura: non una vittima, ma
un’immatura e perversa seduttrice.
Ancora, per sottolineare
la polemica sentimentale e ideologica che cerca di decantarsi in queste pagine,
vorrei citare un altro “errore di giudizio” in una delle poesie più belle della
raccolta, la V della prima parte. Qui
il – presunto – comportamento di un albero è visto in opposizione a quello
degli uomini, quasi in contraddittorio con la Ginestra leopardiana:
…
Guarda l’albero nel parco.
Dice forse tu all’altro?
Eppure se gli costruisci un muro sopra la radice
quello devia i rami e nella deviazione vince,
trova di nuovo il sole.
Non fa la rivoluzione
nemmeno si scandalizza
se tutt’intorno il parco muore,
non si organizza.
È mosso ma non muove: ci ridicolizza.
Questo è l’esempio di un
discorso in cui il pensiero di chi scrive è prestato alla similitudine con
tanta convinzione che “quasi” ci convince. Una poesia dobbiamo accettarla così,
la sua immagine come ci viene proposta, la sua passione come si agita dentro, ma
fossimo in un dibattito saremmo costretti a dire, e non solo per restare
accanto ancora una volta al grande recanatese: sì invece, l’albero dice tu all’altro, sembra proprio abbia
bisogno della vicinanza di suoi simili. Eppoi, se non vai con l’accetta ad
abbatterlo, anche se come la ginestra è solo un arbusto, con poco rumore, muove
la terra, rompe le pietre, il cemento. Per anni, se ne ha la forza, per secoli.
Forse sì, ci ridicolizza perché i
suoni che emette mentre così continuamente si muove sono quasi impercettibili, mentre
noi, anche per molto meno, ci muoviamo con chiasso.
Delle molte poesie dedicate
all’arte scegliamo Tarquinia, dove la
morte – come nelle altre, più forse che nelle altre poiché si tratta del
rilievo su un sarcofago – è presente, come ovunque e sempre, ma attende il suo
tempo, oltre la porta, senza turbare per il momento la promessa di vita tra gli
sposi, l’atmosfera di festa:
I coniugi si passano l’uovo
da una mano all’altra
considerandone il tepore
[…]
E vibrano gli auleti e danza
la servetta,
guardando insospettita l’altra porta
che chiuderà per sempre
la musica nell’ombra.
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