nota a "L'asino del Messia" di Wlodek Goldkorn
"L'asino del Messia" è un libro che sembra voler
assolvere a due diversi impegni.
Il primo, quello propriamente narrativo, è di raccontare
come l'autore sedicenne si trasferì con la famiglia dalla natia Polonia a Israele,
carico di sogni e di progetti e come la realtà si dimostrò, forse
necessariamente doveva dimostrarsi, assai diversa da quei sogni.
Sono per l'autore gli anni di passaggio dall'adolescenza
alla prima giovinezza, dalla continentale Varsavia alla mediterranea
Gerusalemme, dalla lingua polacca e dall'yiddish al divieto di parlare quella
lingua degli ebrei askenaziti, a favore di un ebraico riportato a nuova vita
come lingua quotidiana dopo il millenario confinamento nell'ambito delle
funzioni sacre. Prende progressivamente coscienza in quel giovane il fatto che
la proclamazione dello stato d'Israele ha creato un popolo palestinese di
profughi, che, anche all'interno della comunità ebraica, i sefarditi sono i
poveri, gli ebrei arabi gli ultimi. Sono anche gli anni nei quali provare il
sapore della trasgressione, lontani ormai dall'imbrigliamento, anche se
benevolo, della famiglia.
L'altro progetto, che alla fine sembra soverchiare il primo,
è quello di comporre una sorta di personale antologia di testi amati, nella
letteratura ebraico-polacca e nella letteratura israeliana. Amati fino allo
struggimento, fino alle lacrime, come letture che hanno segnato una vita,
formato una personalità. Una selva di personaggi che hanno anche suggerito idee
con le quali plasmare il proprio animo, i cui nomi ritroviamo nelle note finali
al libro.
Il racconto di come
fosse Israele, alla fine degli anni '60 inizio dei settanta, è uno squarcio di
storia su un mondo e su modi scomparsi, di cui appaiono come simboli i capelli
lunghi, i braccialetti colorati e la collana che oggi non riusciremmo proprio a
vedere addosso a Goldkorn. Moda e modi molto presto dismessi, se proprio mai li
ho visti su Wlodek, che pure conosco da decenni, un amico.
Proprio questo
legame, l'amicizia, rende più complesso il discorso critico, perché bisogna
anzitutto evitare il rischio del pre-giudizio, accantonare quella presunzione
di sapere più cose sulla persona, che invece di collocare nel miglior punto
d'osservazione, rischia anzi di fuorviare. Mi rende difficile un approccio
critico non spinoso infine, il senso d'appartenenza assoluta alla cultura
ebraica che Wlodek, da non religioso, proclama. Cosa significa
essere ebreo per un non religioso?
Soprattutto cosa significa proclamarsi israeliano, dopo decenni di
allontanamento da quella terra? Che intenti ha raccontare di una passione, non
solo culturale, a chi, come la maggior parte dei lettori italiani – non certo
in riferimento agli autori più noti, ma per i molti altri dai quali qui Wlodek prende in prestito
motivi di personale meditazione– è sprovvisto di adeguati strumenti (la lingua,
la cultura) per comprendere?
"... polacco, israeliano, scrittore italiano,
ebreo" dice di sé Wlodek mentre, al tempo presente, a Varsavia, si avvia
alla cerimonia in commemorazione del settantacinquesimo anniversario della
rivolta del ghetto.
Qui nasce quello che mi sento di chiamare il paradosso
Goldkorn. Wlodek scrive in italiano. É l'italiano, la distanza culturale e
linguistica sia dalla Polonia che da Israele, che gli permette di cantare con
appassionato amore la sua Varsavia, le sue Gerusalemme (anche quelle fuori
d'Israele) la sua Tel Aviv. Le può cantare perché ha in mano la perfezione di
uno strumento, la lingua italiana, e una forte collocazione nell'ambito della
cultura italiana, anche se lui non è e
non si sente italiano. Vive in Italia per motivi estetici, questo ha più volte
dichiarato, come fosse possibile vivere, senza soffrire troppo, in un'eterna
vacanza, lontano dai luoghi dell'appartenenza. Ma la lingua, non è uno
strumento asettico, la lingua si annida e forma anche un'anima.
Nella foto: Wlodek Goldkorn, alla presentazione di "Melanconia Animale" di Piera Mattei, tra Piera Mattei e Mariella Bettarini, Firenze 2008
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