Amo il mese di
febbraio. In anni già lontani al mese di febbraio ho dedicato una poesia, quasi
fosse una persona di cui si conoscono pregi e difetti. É il mese in cui le
giornate decisamente fanno spazio alla luce e, nel freddo ancora pungente, si
gonfiano le prime gemme dei fiori.
È il mese in cui ho
visto la luce, è il mese in cui anime grandi hanno lasciato la luce, per
sempre. Il 17 si commemora il rogo di Giordano Bruno, ma, più sommessamente,
l'11 è la data in cui due poetesse, Sylvia Plath prima e Amelia Rosselli poi
hanno volontariamente deciso di terminare la loro vita.
Allora prima che
questo mese finisca voglio dedicare ad Amelia, che viveva a Roma e abitava a
Roma, non lontano da dove io abito, un ricordo, una lettura affettuosa del suo
geniale libretto di prose "Diario ottuso".
Il saggio nella sua
interezza dovrebbe uscire nei prossimi mesi sulla rivista "pagine".
Questa è solo un'anticipazione, un omaggio ad Amelia e insieme un omaggio al
mese più breve, più freddo e forse più terso dell'anno.
Amelia Rosselli di
"Diario Ottuso": riuscire a dire per
uscire dall'in-fanzia?
di Piera Mattei
Vagava, imbarazzata,
con i piedi affondati nel fango bisognoso delle sue scarpe umidissime.
E così fu luce esatta:
si convinse d'aver trovato la sua dimensione vitale: il non sapere, il non
vedere, il non capire.
Sono queste le note finali di "Diario Ottuso".
Nell'ultima frase la voce che parla in terza persona esprime
la completa accettazione della sua "ottusità", della sua
"dimensione vitale" realizzata al negativo. Una certezza che giunge non
attraverso una deduzione logica, ma immediatamente, come per una folgorazione
razionale: e così fu luce esatta.
Tuttavia è sulla penultima proposizione che eravamo rimasti sorpresi
e catturati. È prosa? Formalmente sì, ma racconta in modo estraneo alla prosa,
perché non ci permette di riallacciarci a un discorso precedente e di predisporci
a un discorso successivo e conseguente. Semplicemente c'inchioda a cercare di
capire. Come il verbo vagava si
allaccia all'aggettivo imbarazzata, come
al complemento con i piedi affondati nel
fango? Quell'aggettivo, in sé, dovrebbe riferirsi piuttosto a uno stato di
confusione, d'indecisione e d'immobilità. Il complemento, con i piedi affondati nel
fango, sembra rendere ancora meno possibile quel vagare. Ma ecco che repentinamente il protagonista diventa proprio
quel fango: bisognoso, lui, delle sue scarpe umidissime. E tutto
sembra chiarirsi, ché infatti il disagio nasce dalla imperiosità di quel fango,
dei suoi bisogni, che non si sa bene se esaudire. Il fango non sarà banalmente la
causa dell'umidità delle sue scarpe, ma invece desidera, ha bisogno di quelle scarpe in quanto terribilmente
umide. In quanto, perciò, simili?
Direi che qui Amelia Rosselli proietta sulla reciproca
attrazione tra le sue calzature e quel fango vischioso, invischiante, la sua
ricerca del simile, disperata, perché mai appagata, mentre tuttavia la speranza
non s'attenua.
"Diario Ottuso", questo libretto di poco più di
trenta pagine, uscito nel luglio 1990, mette insieme tutte le prose prodotte
dal 1954 al 1968: quindi ben quattordici anni separano i primi dagli ultimi
esperimenti.
L'autrice proprio così li chiama: "Esperimenti
narrativi", e della tecnica, non vorremmo dire della maniera, sperimentale
c'è la sottolineatura del mezzo e del luogo scelti per quell'esperimento. Una
nota sincera fino all'ingenuità, precisa come per un vero esperimento
scientifico, preziosa, sui diversi, ma
sostanzialmente affini, modi di questa scrittura. Ecco cosa scrive della
prosa più lontana nel tempo, quella a cui, appunto, attribuisce il titolo di
"Prime prose italiane":
Lo scritto è breve, in
qualche modo ispirato; ed è ispirato appunto dal Tevere, presso il quale
vivevo. In parte è stato scritto fuori casa, camminando, e dunque scritto a
mano; oppure erano appunti che prendevo mentalmente e poi trascrivevo quello
scrivere mentale una volta a casa. Credo poi d'essere riuscita, tanto tempo fa
nel 1954, d'evitare (come fosse la peste) la tipica scrittura detta "prosa
poetica", accettatissima in quel periodo. Il testo vorrebbe avere la
morbidezza delle poesie di Scipione, e così eviterebbe il drammatico Campana.
Con grande sintesi e grazia Rosselli riesce a metterci
davanti i luoghi, i modi, gli strumenti della sua scrittura e, ancora più
succintamente, riesce a riferirci le intenzioni, cioè i modelli che ha inteso
imitare, le presenze forse troppo attraenti che ha cercato di evitare.
Nettamente allora: non si tratta di prosa poetica, da cui
dice di rifuggire come la peste, ma di poesia tout court, poesia scritta senza
gli a capo.
In proposito scrive
nella prefazione Alfonso Berardinelli:
Non credo che sia
facile distinguere le prose di Amelia Rosselli dalle sue poesie [...] Anche
quanto c'è in queste prose di descrittivo e di narrativo è altrettanto presente
nelle raccolte di poesia.[...] Al posto del verso tipograficamente visibile, qui
abbiamo la frase libera. Al posto della strofa, i blocchi dei paragrafi.
Non è possibile parlare di queste prose senza ripercorrerle
a piccoli passi, cercando d'individuare il significato poetico di slittamenti
semantici, di originalità ortografiche. Si sentono allora vibrare nelle parole
due componenti essenziali: la paura e l'ironia. Soprattutto però quella che indicherei
come sensibilità "infantile" nel doppio significato del termine.
Infantile in quanto giunta alla lingua italiana in certo modo da straniera, da
apprendista e principiante, profondamente contaminata dell'anima di altre
lingue. Si trova in questa dimensione a maneggiare l'italiano come uno
strumento da osservare curiosamente, e da smontare e rimontare a piacere, proprio
come fanno i bambini nella fase dell'apprendimento linguistico, ricchissimo di
scoperte e invenzioni.
Infantile è anche la sensibilità che tale lingua presuppone:
vi sono dominanti la paura dell'ignoto e del "cattivo" e la sorpresa
purissima verso il bello, aggettivo questo usato talvolta anche al superlativo ("cameriere
bellissimo"), con una sorta
di naïvité che certo una poesia tradizionale
escluderebbe. Le prose più antiche, quelle del primo insediamento a Roma,
aggiungono a questo sguardo caratterialmente infantile, la sensibilità di chi da
poco ha deciso che quello sarà il suo mondo, con un'accentuazione degli
elementi di attrazione e repulsione, che progressivamente si sposteranno dalla
città di Roma come entità estetica-antropomorfizzata, alla società civile e politica,
minacciosa nel suo insieme, anche a causa delle ferite non additate ma
inguaribili di una tragica orfanità.
La seconda parte del saggio verrà postata nei mesi successivi
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