Lucetta Frisa – La torre della luna nera – puntoacapo 2012
È come se la scrittura di Lucetta Frisa non intendesse
veramente separarsi dall'oralità: si rivolge di preferenza a un tu o a un voi, sempre per raccontare direttamente, talvolta scegliendo programmaticamente
il tono della conferenza, già caro anche a Kafka, e qui non a caso lo citiamo
perché è il tono e la finzione che Lucetta Frisa sceglie per "Kafka è
morto a 67 anni". Talvolta sembra di ascoltare una voce fuori scena, presente,
lì, dove il racconto ha luogo. È la voce di persona attenta non solo a muovere
intorno lo sguardo ma anche a valutare gli umori interni ai personaggi.
Due tuttavia sono gli stili di quella voce: il primo è
quello della favola, narrata come il genere richiede, a forti tinte, con
vocabolario coloritissimo. Si aprono così ai nostri occhi luoghi di sfarzo
estremo o di estrema miseria, alle nostre narici si sprigionano, aromi di
delizie ma anche afrori corporei. Protagonisti sono principi, principesse, grandissimi
artisti, guitti e ladri di creatività. Lucetta "inventa" come locandiera
la poeta scozzese del quindicesimo secolo Gweful, nota per alcuni canti dove
misticismo e schietta licenziosità si alternano o addirittura si mescolano. Inoltre
in questi racconti l'autrice trova il modo di esprimere il suo pensiero in
senso lato politico circa la libertà dell'espressione femminile: che sia fuga
dalla prigione o fuga dagli schemi "convenienti", convenzionali o
obbligati, in cui la prepotenza maschile la tiene rinchiusa da millenni ("La
torre della luna nera"), che sia altrove progetto di esercitare la forza
del carattere e della mente nel governo di uno stato che un matrimonio senza
amore apre per Isabella come sola prospettiva a cui aderire ("Ritratto
d'Isabella d'Este"). Sotto la trama del racconto, della favola, troviamo
altrove altro messaggio: quasi inaspettata all'interno di un pensiero che sul
filo di una filastrocca ripercorre le cadute e i dolori di una vita, l'attuazione
sul corpo di una vecchia madre ormai incosciente di una pietosa ma nondimeno
straziante eutanasia.
Sopratutto nei racconti-fiabe di questo primo stile le
citazioni e i riferimenti al mondo artistico cadono a cascata, come se irrompessero
da un'antologia mnemonica sempre aperta, dove il rischio però è l'ingorgo e la
sovrapposizione dei ricordi. E può accadere che nel contesto di un discorso che
vuole essere profondo e assennato, cada fuori proposito la citazione di versi
di Dante assimilati nel patrimonio genetico, equivoco certamente attribuibile a
lei, la giovanissima protagonista-voce parlante Maria Dolores Cardillo de
Cordoba del racconto "Un perro".
Nell'altro stile, quello che incontra incondizionatamente la
nostra predilezione, si riconosce, con la sensazione quasi fisica della piena
libertà di cui gode e di cui ci fa godere, la voce stessa dell'autrice, la sua personalità
ricca di umori e di humour, di ironia e autoironia. Sono racconti al presente, anche se la mente irrequietamente
segue suoi percorsi e logiche legati a quel presente con fili sottilissimi. Un racconto,
in questo genere perfetto è "Errori di abbigliamento". Qui la voce
narrante trapassa, con ossimorica ma reale leggerezza
profonda, dall'osservazione di una quadro a uno strano incubo d'inadeguatezza,
per collocarsi all'interno dei pensieri che l'attraversano durante un viaggio. E
poi ancora si alternano ricordi familiari a osservazioni sulle abitudini
stesse del compagno, mai tuttavia dimenticando quel filo rosso, di calzature in armonia o in contrasto con
quanto il resto del corpo sente o intende esprimere.
Corrisponde a questo stile – stile che chiamerei del presente e reale, in contrapposizione con l'altro del passato e della favola – anche il racconto in cui una
protagonista visita città, musei, e intanto a sé stessa commenta la sua scomoda
posizione nel mondo in un contesto
troppo "civile", soprattutto troppo giovane, e, in ogni ambito,
tutto ordinato e efficiente. È "A Amsterdam non si vedono vecchi", dove
via via che il racconto procede il tono progressivamente si fa più aspro e l'autoironia
trapassa nell'autolesionismo. Non a caso il racconto termina con la
protagonista che, essendosi adeguata all'invito al suicidio che l'ambiente
indirettamente rivolge a chi non si trovi nel periodo della vita in cui
giovinezza e bellezza sorridono, si fa saltare in aria. Finale che nella sua
inattesa sproporzione,
ridimensiona la tristezza mortale della protagonista, in un'esplosione, certo,
ma che voglio interpretare come di una risata finalmente liberatoria con cui tornare
alla piena avvertita consapevolezza del diritto di esistere, con libertà e persino
con divertimento.
Foto: Uno sguardo sul Bosforo dalla terrazza del Grand Hotel Beyazid, Istanbul 2012 – di Piera Mattei
Foto: Uno sguardo sul Bosforo dalla terrazza del Grand Hotel Beyazid, Istanbul 2012 – di Piera Mattei
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