Solo una breve riflessione. A proposito di toni e di parole. Di garbi formali e di sostanziali violenze. Ascoltando l’intervento di Giuliano Ferrara in apertura della puntata dell’Infedele di mercoledì 13 febbraio. A proposito del suo manifesto ‘pro-life’ con il quale mette l’aborto fra i temi della campagna elettorale.
Un tono molto pacato quello di Ferrara. Introduce, spiega, argomenta, con voce piana e calma, inanella frasi e parole modulando con garbo, sembra, finanche i respiri. Senza mai uscire dai binari di una condotta di gentilezza estrema. Anche quando gli tocca, come è normale che accada, di dover sovrastare il tentativo di qualcuno degli ospiti di intervenire. Tono pacato, certo, se per pacatezza si intende che l’accoratezza non si è trasformata in fervore, che poi non è trasceso in urla, crocefissi branditi, o intemperanze del genere…
Eppure. La pacatezza a volte sa essere agghiacciante. Se è linguaggio formale che riveste una sostanziale violenza.
E accanto alla violenza di irrompere nella campagna elettorale con una questione così dolorosa e delicata, ho avvertito, nelle parole di Ferrara, i termini di un infierire privato, per il mio sentire inaccettabile.
Come era ovvio, il discorso è andato allo sciagurato episodio del blitz nell’ospedale Federico II di Napoli. Ho trovato di grande violenza il sentire descrivere con lucida dolcezza ‘il bambino che quel feto sarebbe stato’. Come questo non fosse già il pensiero dolente di una donna che si trova di fronte alla terribile scelta di abortire. Che è pensiero e dolore intimo, che non andrebbe straziato da altri davanti a una telecamera. Con l’aggravante, nel caso, che si parlava di una persona precisa, del destino particolare del suo bambino che non è stato.
Ancora. Quante volte è stato pronunciato il nome della donna. Dieci, venti, non so… forse solo cinque volte… Era comunque un nome proprio di persona, che è rimbalzato per tutto il tempo di quell’interminabile intervento. Ma come usiamo le parole e i nomi? Come e quando siamo autorizzati a chiamare qualcun altro, che non si conosce e con cui non si abbia alcuna confidenza, con il nome di battesimo, come si farebbe con una cara amica, ad esempio… Non ho potuto fare a meno di chiedermi, se era davanti al televisore, cosa avrà provato quella donna, a sentirsi chiamare con tanta ostinata pacatezza, mentre di fatto veniva trasformata in emblema di ‘ciò che non si deve fare’.
Ho pensato alla violenza inaudita di sentire il proprio nome, pronunciato ripetutamente, ripetutamente, fin quasi a denudare la persona... L’ho sentita, su di me come su ogni persona, la violenza di una confidenza non voluta, ogni volta come una coltellata…
Davvero strideva, nella gelida pacatezza del discorso pronunciato, la parola ‘amore’, pure tante volte ripetuta.
Ma come usiamo i nomi e le parole... Non c’entra davvero nulla con questa storia, ma mi stavo al contrario giusto interrogando su un nome ‘non pronunciato’, appena un’ora prima in un’altra testata giornalistica, e c’entra forse molto con ‘accortezze’ che invece a volte ci vengono d’istinto.
Ascoltando il Tg1 delle 20,00, sempre il 13 febbraio. I titoli annunciano, fra l’altro, l’arresto di un ex assessore regionale calabrese. Questione di intrecci fra mafia e politica. Mi chiedo a che partito appartenga l’assessore, e aspetto l’annuncio del servizio. Aspetto il servizio. Ma nulla. Per conoscere quella sigla ( per la cronaca Udeur) devo andare a frugare su internet. Tutt’altra storia, certo, tutt’altro interesse, certo. A chi mai sarebbe interessato conoscere quel nome? Perché mai pronunciarlo? In fondo, solo una sigla. E poi, siamo in campagna elettorale…
Francesca de Carolis