giovedì 19 marzo 2009

Riceviamo da Alessandro Centinaro e volentieri pubblichiamo un commento critico a affermazioni sconcertanti, soprattutto per il luogo dove, con autorità, sono state pronunciate:
IL PROFILATTICO…NON BENEDETTO!
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La lingua batte dove il dente duole.
Il Papa non riesce a far passare troppi mesi da una esternazione all’altra sul tema dei contraccettivi, che gli sta particolarmente a cuore, molto più, parrebbe, di tanti altri temi – d’orizzonte storico e metastorico- che meglio potrebbero attrarre la sua attenzione pastorale.
Potrà sicuramente esser ricordato come il Papa più “anti-contraccettivo” (mi scuso per l’aggettivazione un po’ barocca!) della storia ecclesiale.
Forse il tema meriterebbe un’enciclica: che bel titolo sarebbe “Non praeservandum genitabile chàrisma..” …. oppure “ Non contraccipienda seminis virtus..”
Stavolta ha detto senza mezzi termini, parlando della tragica condizione (anche sanitaria) delle popolazioni africane, che il preservativo non risolve i problemi, ma li aggrava, mentre problemi come quello dell’AIDS andrebbero invece curati con una sana educazione sessuale: sarebbe come dire ad un affamato che il problema della denutrizione non si risolve con del volgare cibo, ma con una sana educazione dietetica.
A quanto pare, nella sensibilità “biolatrica” che è sempre più crescente nel mondo cattolico (quella sensibilità per cui la “vita umana” biologicamente intesa, ad esempio la vita di un embrione, è talora più importante della “persona” umana, che moralmente non potrebbe esser salvata se il prezzo fosse il sacrificio di una “sacra” cellula staminale) è maggiormente importante preservare la vita di innumerevoli, innocenti spermatozoi, destinati al massacro contraccettivo, che non preservare la vita dei milioni di africani esposti per via sessuale al contagio di AIDS; più importante ancora è riaffermare che il principio che il sesso è moralmente lecito solo se volto alla riproduzione (sano principio, questo, particolarmente raccomandabile negli allevamenti bovini), mentre solo dei deprecabili relativisti, edonisti e miscredenti potrebbero esser così sciagurati da pensare che il sesso sia una forma di comunicazione fra personalità umane, quindi un “bonum in se”, anche a prescindere dalla riproduzione, la quale peraltro sta a cuore anche ai cosiddetti laici (ed, anzi, speriamo che questi ultimi si riproducano più esponenzialmente dei buoni credenti!).
Ognuno è libero di pensare quel che vuole, e di dirlo; però se una qualunque persona che fosse dotata di un particolare ascendente sulle moltitudini andasse in giro a predicare il valore morale, poniamo, di sport estremi come il paracadutismo a bassa quota od il “free climbing” sui picchi himalaiani, è certo che molta gente, sedotta da quel carismatico, si schianterebbe di brutto al suolo; così se il Sommo Pontefice (il cui ascendente sulle moltitudini, in specie quelle mentalmente “innocenti” del Terzo Mondo, è innegabile) va in giro a dire che il preservativo non è un bene, molti di quegli “innocenti” si beccheranno l’AIDS: niente di male, in fondo, perchè l’AIDS è un castigo divino, e come tale va accettato, non diversamente dal vaiolo, a proposito del quale Papa Leone X disse che, trattandosi di un castigo divino, non doveva essere combattuto con il vaccino, essendo quest’ultimo “una sfida contro il cielo”.
Forse, se c’è Qualcuno, in cielo, o nell’anima degli universi, sorride dell’umana credulità….oppure s’infuria?

Alessandro Centinaro

sabato 14 marzo 2009

Se come sono rimango / infuocata e amata dal fuoco


Ieri, è venuto improvvisamente a mancare Alfredo Mariscoli, il barista di Via Giulia di cui si parla in questo articolo. Con lui una parte della storia recente di Via Giulia e dei suoi abitanti, chiude i cancelli. Con rispetto e affetto per la sua persona gli dedichiamo questa pubblicazione su "Lucreziana 2008".

Il disegno sopra riportato è di un giovanissimo cliente. Nella parte superiore il bancone, nella parte inferiore la tazza del cappuccino con il cuore che Alfredo vi disegnava con la schiuma.

Se come sono rimango / infuocata e amata dal fuoco
Per Ingeborg Bachmann e Via Giulia

di Piera Mattei


Via Giulia. Mi sia concesso dichiarare la mia passione per questo luogo. Qualcuno dice che sia la strada più bella di Roma. Ma l'amore che nutro per la sua prospettiva, per i suoi palazzi e per la cascata di rampicanti che orna il retro di palazzo Farnese, mi lascia la libertà di non condividere un giudizio così assoluto. E' una strada misteriosa, monumentale. Ma vorrei averla com'era più d'un secolo fa, cioè senza i Lungoteveri che le tolsero – escludendo con una corrente di traffico l'accesso al fiume – quella che era stata la sua bellezza naturale, elemento essenziale di ogni bellezza che si rispetti. Ora essendo rimasto il suo tracciato più in basso rispetto al Lungotevere, quindi come infossato, la strada ostenta un'aria scontrosa e un ruvido distacco dal chiassosso circondario. A mezzogiorno è luminosa come una meridiana, ma la sua anima non può liberamente respirare. Osserva accigliata dai palazzi e dalle chiese, contratta tra i Lungoteveri – dove davvero non c'è più spazio per passeggiare – e Corso Vittorio (altra strada fine ottocento) che la mortifica con la sua turistica fretta.
Via Giulia corre, per poco meno di un chilometro, dal secentesco ponte Sisto a San Giovanni Battista de' Fiorentini, basilica di quella ricca comunità. Nell'Alto Medioevo erano soprattutto cambiavalute, che qui, sulle strade limitrofe chiamate appunto dei Banchi Vecchi, dei Banchi Nuovi e dei Banchi di santo Spirito, aprivano le loro agenzie. La basilica, a cui dal Cinquecento al Settecento lavorarono i maggiori architetti italiani, per adattarla alle esigenze della sempre diversa committenza, prima si ergeva su un lieve promontorio, a un'ansa del Tevere. Ora è assediata dagli autobus che scorrono lungo Via degli Acciaioli, una strada che talvolta neppure i taxisti riescono a collocare, a tal punto si segnala come rimanenza impropria di un violato assetto urbanistico.
Da questa parte della via, cioè nella zona che fu già dei Fiorentini, si apre una dimora di bellezza singolare. Fu eretta dal Sangallo come sua abitazione, poi, dopo essere stata proprietà del Cardinale Ricci passò alla famiglia Sacchetti, in origine banchieri fiorentini, che l'acquistarono nel 1664 e ancora la abitano ai piani nobili, affittando gli appartamenti di minore prestigio. La continuità nella proprietà ha permesso al palazzo di conservarsi intatto nell'architettura armoniosa e negli affreschi, di grande originalità e forza, del Salviati.
All'inizio degli anni settanta, c'erano ancora ragazzini a giocare per la strada, perché in questa via di architettura nobiliare, vivevano anche (e ci sono ancora) congregazioni religiose, gente del popolo e quegli intellettuali, che spesso per primi riscoprono il fascino e la gustosa abitabilità dei luoghi di negletta bellezza.
Qui, appunto, all'interno di Palazzo Sacchetti, al civico 66 di Via Giulia, in una specie di mansarda, abitò nel suo ultimo soggiorno romano, dalla seconda metà degli anni '60 al settembre '73, la scrittrice e poetessa austriaca Ingeborg Bachmann.
Oggi, dopo trentaquattro anni, le persone che vivono nel palazzo sono cambiate, e quel nome per molti non ha echi, ma allora, nel settembre '73 quando esplose la tragedia, la strada ne rimase annichilita. La trovarono nell'appartamento avvolto dalle fiamme (un mozzicone lasciato cadere sul lenzuolo?) il corpo ricoperto di gravissime ustioni. Era il 26 settembre. Il 17 ottobre Ingeborg Bachmann moriva all'Ospedale Sant'Eugenio.
Pochi credettero alla versione dell'incidente. Già da molto tempo la Bachmann legava la sua scrittura a meditazioni filosofiche di acre pessimismo, a racconti di morte e sparizione. Pochi mesi prima, nel giugno di quell'anno, era uscito per Adelphi in traduzione italiana il romanzo Malina, primo di una trilogia dal titolo Todersarten (Modi di morire). La protagonista, Io, nell'elenco dei personaggi che apre il racconto ha occhi scuri, capelli biondi, nata a Klagenfurt, proprio come Ingeborg. Io dialoga con gli altri due personaggi Ivan e Malina, ma non fa una grande differenza quando parla con loro e quando parla tra sé, si tratta comunque di un monologo interiore del quale gli altri personaggi non sono che riverberi:
Debbo stare attenta a non cadere con la faccia sul fornello, a non mutilarmi da sola, a non bruciarmi, perché Malina altrimenti dovrebbe telefonare alla polizia e al pronto soccorso, dovrebbe ammettere che per colpa della sua trascuratezza una donna si è quasi bruciata. Mi alzo con il viso rosso per il fornello rovente, su cui la notte ho dato fuoco così spesso a dei pezzetti di carta, non per bruciare delle cose scritte, ma per accendere l'ultima e l'ultimissima sigaretta. Ma non fumo più, oggi ho perso l'abitudine.
Malina è il personaggio maschile che nei confronti della protagonista ha un ruolo di potere. Nel rapporto che si delinea tra i due, alcuni critici pensarono di riconoscere il tipo di relazione che per alcuni anni aveva legato la Bachmann allo scrittore svizzero Max Frisch. Nel romanzo l'autodistruzione di Io avviene per sparizione: la sua persona finisce per dileguarsi in una crepa già comparsa nel muro. Malina risponderà a Ivan, l'altro uomo che cerca Io al telefono, che nessuna donna ha mai abitato a quell'indirizzo.
La Bachmann aveva esordito, nel 1953, a ventisette anni come poetessa con Die gestundete Zeit (Il tempo dilazionato), suscitando grande ammirazione. In quello stesso 1953 risiede per la prima volta a Roma – dove era già venuta in viaggio – poi a Napoli e a Ischia. L'Italia le era sempre apparsa come una terra vicina, una meta naturale. Scriveva tra il maggio e il settembre 1952: Ho trascorso la mia gioventù in Carinzia, nel sud, al confine, in una valle che ha due nomi: uno in tedesco e uno in sloveno. La casa in cui i miei antenati – austriaci e sloveni – hanno vissuto per molte generazioni reca tuttora un nome straniero. Così, si può parlare di due confini, non di uno... anzi... di tre Paesi; perché al di là delle montagne, a un'ora di strada, comincia l'Italia [Biographisches].
In quello stesso anno 1952 parlava anche del suo fervente lavoro poetico, definendolo un'impresa ardua, una disciplina: Scrivere poesie è per me l'impresa più ardua, in quanto si devono risolvere i problemi di forma, tematici e di lingua. Le poesie obbediscono ai ritmi del tempo, ma devono ugualmente mettere ordine, nel nostro cuore, all'insieme di cose nuove e antiche che comprendono passato, presente e futuro.
Cose nuove e antiche, la guerra, per esempio. La Bachmann ricordava l'ingresso dei nazisti nella sua città, e tuttavia nazismo e violenza, le appaiono, prima ancora che fatti storici, degli assoluti che governano i rapporti quotidiani, rapporti di forza e sopraffazione degli uomini sulle donne, dei forti sui deboli:
La guerra non viene più dichiarata, / ma proseguita. L'inaudito / è diventato quotidiano. L'eroe / resta lontano dai combattimenti. Il debole /è trasferito nelle zone di fuoco (Tutti i giorni).
Si era laureata in filosofia a Vienna nel 1950, con una tesi sull'esistenzialismo di Martin Heidegger. Ne racconta in Malina, riferendo anche a quel ricordo immagini di fuoco, di morte: la mattina, prima delle tre ultime prove, nell'Istituto di Filosofia era caduta fuori dalla stufa tutta la brace... le inservienti non erano ancora arrivate, bruciava e c'era un fumo tremendo, mi sono messa a pestare con i piedi sulla brace... le mie scarpe erano bruciacchiate ma niente prese fuoco... dovevo essere lì con un altro candidato, che però non venne, la notte aveva avuto un colpo apoplettico. Il vecchio Consigliere, che allora era anche rettore, portava una toga sudicia... e cominciò a interrogare, molto irritato dall'assenza per decesso di un candidato, ma io almeno mi ero presentata e non ero ancora morta. [... ] Gli feci una timida domanda che riguardava il problema dello Spazio e del Tempo, una domanda, lo ammetto, che allora per me era senza senso, ma lui fu molto lusingato dalla mia domanda, e poi fui congedata. Tornai di corsa al nostro Istituto, non era in fiamme... ma in seguito non ho mai risolto il problema dello Spazio e del Tempo. Cresceva sempre di più.
Questo brano può dare un idea di quale intreccio di ricordi e meditazioni, filtrati da uno stile alto e sorvegliatissimo, renda la prosa della Bachmann di una qualità non troppo distante dalla poesia. I suoi incontri fondamentali furono, dopo la filosofia di Heidegger, il compositore Hans Werner Henze, cui la legherà una lunga intesa anche collaborativa e Celan con cui ebbe una relazione sentimentale, un rapporto che la segnò profondamente. Con lui condivise un pessimismo fondamentale, l'idea che non solo dai torti subiti scaturisce il dolore, ma dalla vita in sé: Privo di sofferenza / è colui cui tutto è concesso. E non gli manca nulla. // E non gli manca nulla: poco soltanto / per riposare e mantenersi ritto (Tema e variazione).
Condivise l'idea che il linguaggio, che ha avallato e continua ad argomentare il male, è esso stesso colpevole. Solo in una lingua nuova, intatta, potrebbe esserci salvezza, una lingua sincera, schietta, come incisa nella corteccia, da contrapporre alle parole del così detto vivere civile – che non escludono, anzi comprendono e organizzano guerre e distruzioni – parole ormai inutilizzabili per le persone che vogliano esprimersi con sincerità e senza vergogna:
Inebriata da sequele cartacee / non riconosco più i rami, / né il muschio, che fermenta in cupi inchiostri, / né la parola, nelle cortecce incisa, / schietta e temeraria // [... ]Ma nel legno, / fintanto ch'è verde, e con la bile, / fintanto ch'è amara, sono intenzionata / a scrivere quello che fu in principio! (Legno e schegge).
Nella raccolta successiva Anrufung des grossen Bären (Invocazione all'Orsa Maggiore) scritta in parte nel soggiorno napoletano, compare il tema del fuoco in un'accezione vitalistica, positiva. La lava è elemento che la inizia all'amore, là dove i libri della sua cultura viennese, a quello istruivano soltanto: Istruita nell'amore / da migliaia di libri[... ] // iniziata all'amore / però soltanto qui – / quando la lava è sgorgata / e il suo fiato ci ha colti / ai piedi della montagna (Canti durante la fuga, VI).
Altrove dirà, con forte senso d'identificazione con quanto brucia : Se come sono rimango / infuocata e amata dal fuoco (Il mio uccello); in contraddizione con l'immagine della salamandra che nella poesia Spiegami, Amore guizza attraverso le fiamme rimanendo fredda e incombusta: Non mi spiegare nulla. Vedo la salamandra / guizzare attraverso tutti i fuochi. / Non la incalza alcun fremito, e non prova / nessun dolore.

Forse se avesse continuato nell'ardua impresa della poesia, dato che con quella disciplina si arriva a fare ordine, la disperazione si sarebbe almeno in parte decantata. Invece, dopo la seconda raccolta che fu anche l'ultima, nel volume di racconti Das dreissigste Jahr (Il trentesimo anno), uscito nel 1961, proprio il racconto che dà il titolo al libro è la lucida cronaca di un progressivo allontanarsi dalla realtà, scritta con gelida disperazione, con violenza autobiografica, anche se riferita a un personaggio maschile:
...Umanità: saper mantenere le distanze.
Tenetevi a distanza da me, altrimenti io muoio o uccido, oppure mi uccido. Tenetevi a distanza, per amor di Dio!
Sono adirato, di un'ira che non ha né principio né fine. La mia ira che ha origine in un'antica èra glaciale e adesso si rivolta contro quest'èra gelida... ché se il mondo deve finire – e tutti lo dicono, credenti e miscredenti, scienziati e profeti, che un giorno finirà – allora perché non prima che smetta di ruotare o prima dello schianto o prima del Giudizio Universale? Perchè questa nostra specie non deve sapersi comportare con dignità e porre fine a se stessa?

E ancora, sempre nel racconto Il trentesimo anno, sul tema della disperante inautenticità, sulla gabbia in cui la cultura e l'imitazione imprigionano – come di necessità – il respiro stesso della scrittura e di ogni altra espressione artistica:
Lo spirito che alberga nella mia carne è un imbroglione anche peggiore di quella finta santa che lo ospita... poiché tutto ciò che penso non ha niente a che vedere con me. Ogni pensiero non è altro che il germogliare di un seme estraneo.
[...]
Come mai per un'intera estate ho cercato la distruzione nell'ebrezza, oppure l'esaltazione nell'ebrezza?
Certo solo per non dovermi render conto che sono uno strumento fuori uso sul quale, tanto tempo fa, qualcuno ha suonato qualche nota, che io nella mia inquietuduine continuo a variare e da cui tento con rabbia di ricavare un brano musicale che porti la mia firma.

Quando nel 2003 l'ambasciata austriaca a Roma rese omaggio con una mostra alla sua poetessa nel trentennio della scomparsa, nel materiale fotografico in esposizione riconobbi, chinato con la sua inconfondibile grazia sulla Bachmann, Alfredo Mariscoli. La foto li riprendeva a un tavolino esterno del bar di Alfredo, che vanta lo stesso nome della strada, bar Giulia. Lui allora sembrava un po'un sosia di Gianni Morandi, di cui anche adesso ama cantare a squarciagola le canzoni.
Alfredo è un personaggio che è quasi un monumento, come la "sua" strada. Apre il locale verso le cinque come un uccello che saluta il giorno e serve il caffè ai primi autisti, ai primi netturbini. Ha una storia che potrebbe sembrare un romanzo dell'Ottocento, alla Dickens. Lavora nel bar che ormai da tempo è il suo bar, da quando, ragazzino di nove anni, dovette lasciare il suo paese in Umbria, perché era rimasto orfano di padre in una famiglia numerosissima. Imparò presto come servire un caffé, una bibita rinfrescante, lavorando dall'alba alle due del pomeriggio al bar, e poi, la sera al teatro Quirino, consegnando i vassoi con le ordinazioni, nei camerini. Lì ha appreso l'arte di rendere gradito anche il primo caffé della giornata ai clienti più diversi. Alfredo è la sola persona del quartiere per la quale il ricordo della Bachmann sia ancora presente. Lui che saliva trafelato le scale fino alla mansarda per portarle il caffè, mi parla commosso di lei, di quella che lui definisce "la grande tristezza di quella donna".

La Bachmann amò Roma: Roma è grande. Roma è bella, scrive in Il trentesimo anno.
Giorgio Agamben, nell'introduzione a Quel che ho visto e udito a Roma, un piccolo libro che pubblica una serie di corrispondenze, cronache e notazioni, inviate dall'autrice austriaca dal luglio 1954 al giugno 1955 per la radio di Berna, ricorda che la Bachmann disse di aver imparato a Roma a darsi tempo, a guardare e ascoltare. Che Roma rimane tra le metropoli "l'ultima in cui si possa avere un sentimento di patria interiore... quest'incomprensibile senso di patria".
Sarebbe bello che quell'amore ricevesse la prova tangibile, visibile di essere un amore corrisposto. Questa via che con magnifica discrezione ha saputo mantenere la memoria di Raffaello, Michelangelo, Sangallo, Salviati, Borromini (e consimili) potrebbe ricordare anche il nome di questo altro grande spirito inquieto, che certo, come quelli, non ha del tutto abbandonato i luoghi.
La tormentata poesia della Bachmann, nelle differenze di cultura e di temperamento, rimanda alla tragica grandezza di Amelia Rosselli. Ad Amelia la città ha posto una targa lì dove volle morire, in via del Corallo. Il ricordo della Bachmann invece, su questa strada dove visse gli ultimi otto anni della vita – per usare la mefora del fuoco – sembra quasi sul punto si spegnersi, sebbene sempre più si accenda l'ammirazione tra quanti la amano.

Nota – Le opere della Bachmann sono citate nelle traduzioni di:
Magda Olivetti per Trentesimo anno Adelphi 1985
Maria Teresa Mandolari per Poesie Guanda 2006
Grazia Maria Manucci per Malina Adelphi 1973

sabato 7 marzo 2009

Scalone monumentale della Biblioteca Vallicelliana, in Roma, piazza della Chiesa Nuova.





Cosa vedono in alto di così divertente? Soprattutto da dove vengono ?

Lo sguardo in alto credo sia rivolto al custode che li vuole vedere scomparire al più presto oltre la porta di ferro battuto, perché il tempo a disposizione è finito, e, loro, i poeti, indugiano in richiami, mentre potrebbe, da un momento all'altro, suonare l'allarme!
Troppi tesori sono custoditi nelle scaffalature borrominiane perché un complesso sistema antifurto non debba essere innescato all'orario di chiusura.

Alle spalle un bassorievo, di cui con ogni evidenza il soggetto è l'incontro tra Attila e Leone Magno (chi ne sarà l'autore?).

Scendono dunque le scale dopo aver assistito alla presentazione di "Melanconia animale"di Piera Mattei. La sala borrominiana dove si è svolto l'evento è un vasto spazio barocco, monumentale e protagonista in proprio. Ma l'atmosfera era riuscita a scaldarsi e l'attenzione a scendere e serpeggiare tra le rigide sedie in pelle con piacere per le parole dette, per le pagine lette.

Sono, da sinistra: Luigi Celi, Piera Mattei mani giocosamente intrecciate con Adele Cambria, Daniela Negri, Claudia Valerio Pagan e Claudia Patuzzi.
Gli altri sono rimasti dentro altre foto.