domenica 19 maggio 2013

Pepe, spettacolo di e con Laura Riccioli, al Teatro Tordinona di Roma




Espedita e Vita,

nota critica di Piera Mattei

Pepe è il titolo di un monologo scritto e interpretato da Laura Riccioli,  che è rimasto in scena (peccato!) solo due giorni al teatro Tordinona di Roma.

Quanto colpisce, durante un'ora o poco più che l'ascoltiamo e seguiamo, è la capacità dell'autrice di trasferirsi completamente nell'altro, nell'altra, nel suo personaggio, fino quasi ad annullare la finzione scenica.
Una scena vuota, col corredo di pochi oggetti – una tela dei pennelli, una rivista d'arte,  un barattolo e un cucchiaio. Si muove irrequieta sulla pedana, atteggia il volto in una mimica mobilissima, in cui le parole si muovono nella bocca come fossero oggetti materiali – masticati, assaporati, espulsi. Poi la pronuncia fondamentale di quelle parole, e quasi del tutto dimentichiamo di avere di fronte una donna borghese, che ha studiato e insegna arte e teatro. Quella, per la durata dello spettacolo, è del tutto scomparsa nel gesticolare di una detenuta ancora giovane, ancora attenta al suo corpo, ancora curiosa e esigente per i corpi degli altri (la chiattona è la Venere di Milo, e lei, la prof, dovrebbe, per favore, rifarsi la tinta), ma probabilmente destinata ormai a muovere quel corpo solo in pochi gesti ripetitivi, tragitti brevi, dalla cella all'aula di teatro e pittura, dalla cella al cortile per la partita di pallavolo.

La libertà consiste ormai nel negarsi la partita per scegliere la conversazione a due con l'insegnate, una conversazione che così può diventare intima, scendere in domande personali e confidenze, che altrimenti, anche possibili insieme alle altre, avrebbero tutt'altro tono, forse quello dell'irrisione.

Chi è dunque Espedita Pepe, che sulla scena s'impossessa in tutto del corpo e della voce di Laura Riccioli? E' una donna effettivamente incontrata, di cui Laura è riuscita a cogliere l'anima, l'atteggiamento nonostante tutto positivo verso la vita, oppure è la sintesi di più donne incontrate durante sei anni di insegnamento nel carcere di Civitavecchia?

Se Espedita si trova lì, è che ha commesso un crimine, più crimini gravi, ma la sua insegnante, forse giustamente, non deve saperlo e neppure noi. Quella che abbiamo davanti è una donna che del suo passato di delitti non vuole dirci nulla. Fa riferimenti, aggressivi o ironici, ai rapporti con le guardie carcerarie e con le altre detenute, certo, ma soprattutto appare determinata a scavare dentro, nell'interno di sè e dell'altra, che dopotutto o soprattutto è una donna, come lei. Allora quale argomento più adatto che la maternità: la madre che viene a trovarla, la figlia che studia. E lei, la prof, ha figli? Ha conosciuto quella passione che lega a chi metti al mondo?
Interpella Vita, come lei chiama la sua prof, che viene da fuori, che vive fuori, che può mostrarle qualcosa di diverso dalla realtà in cui, anche fuori, viveva lei, o dalla realtà attuale, ripetitiva e disperata, del carcere. E Espedita prende appunti, scrive anche lei le sue massime che forse le serviranno persino nei comportamenti irrigiditi nei rituali della vita detentiva, ma soprattutto alimentano una cura di sè, che la fanno resistere, anche chiusa lì dentro, nell'ambito di quella che (non sempre a buon diritto, tuttavia) chiamiamo umanità.

Dunque, brava Laura Riccioli! La pronuncia del testo è perfetta, cioè senza scarti o ristagni tra scrittura e interpretazione, e bella anche la voce, o le voci, delle canzoni carcerarie, che qui non possiamo citare, perchè il nome non compare sulla locandina.