martedì 27 ottobre 2015

Valerio Magrelli – Millenium poetry – Viaggio sentimentale nella poesia italiana – il Mulino 2015




PRIA CHE PASSIN MILL’ANNI
nota critica di Piera Mattei


La prima considerazione che si affaccia dopo la lettura di questo libro è di carattere antropologico. Persino etologico, direi, in una prospettiva che non differenzia sostanzialmente l’uomo dal resto del mondo animale. Cosa è, infine, un millennio rispetto ai tempi, ai milioni di anni trascorsi dall’invenzione del linguaggio prima, della scrittura poi, della formazione di diverse lingue, della trasformazione del latino nelle varie lingue romanze ?
Questa la domanda, ed ecco le rime che, nonostante il titolo inglese del libro, mi sono subito rimbalzate nella mente. Dante, sempre ancora l’immenso nostro moderno delle origini :

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e il ‘dindi’, 

pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio all’etterno, c’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.

La connessione non voluta, istantanea, che la memoria mi ha regalato mi è sembrata straordinaria per due motivi.  Vengo al primo. Mille anni sono un tempo che la mente e il gusto personale di uno studioso della poesia italiana, un poeta, può far liberamente attraversare al lettore nel giro di poche ore. E che Valerio Magrelli sia uno studioso eccellente della poesia italiana oggi, nessuno lo metterà in dubbio, neanche l’autore di questo libro, anche se gli piace presentarsi come un « non addetto » e giocare con gli scrupoli che in lui, un non-accademico della materia, si sono affacciati prima d’intraprendere il suo viaggio. L’enunciazione di questi scrupoli credo serva a Magrelli soprattutto per prendersi poi tutta la libertà di cui ha bisogno per indicare ciò che gli piace e ciò che lo diverte. Questo libro è infatti certamente anche un divertimento, nel senso etimologico del termine, cioè un lavoro di dirottamento della storia della poesia da quella matrice lirica, ripetitiva e malinconica, che da Petrarca in poi segna il flusso principale della nostra letteratura poetica.  Non che la melanconia non abbia qui spazio, ma di quale natura essa sia lo vedremo presto.

Dante, che in ogni registro raggiunge vette assolute, viene qui presentato da Magrelli, con la citazione delle sue famose terzine provenzali messe in bocca  a Arnaldo Daniello  in Pur. XXVI e per altre sue invenzioni linguistiche, essenzialmente per avere un valido pretesto di riflettere sulla «vastità del panorama e del repertorio poetico alloglotta» nella nostra letteratura.
 Petrarca, più che come padre della poesia d’amore in Italia e in Europa, è visto come il primo di quanti poeti cercano nello specchio le conferme della propria personalità o le prime tracce dell’irreversibile naturale cambiamento. Tema ripreso poi, nei noti narcisistici sonetti di Alfieri e Foscolo, che in questo viaggio incontreremo più avanti.

Qui veniamo al secondo tema presente nelle terzine dantesche che ho più sopra citato, quello dell’invecchiamento, della morte (“se vecchia scindi/ da te la carne”). Se la morte è necessaria e ogni umana esistenza solo da quella acquista forma, nessuno vedrà mai la forma completa della propria vita, anche se è quanto vorrebbe (cfr.Alfieri: “Muori, e il saprai”). Quella forma è infatti necessariamente postuma.

Ma è la malattia in poesia a farla da padrona in queste pagine. Valerio Magrelli raduna molti degli sfoghi ipocondriaci dei nostri poeti, a cominciare da quel campione del genere che è il grande passionale Jacopone da Todi :
“O Segnor, per cortesia, manname la malsania!”
Che la malattia venga richiesta  come punizione dei peccati e risarcimento alla morte di Cristo, come in questo caso, o sia il nome che si dà alla propria sofferenza e al lamento, l’aspetto comune in queste liriche è la conoscenza dettagliata di tutte le malattie possibili e i loro nomi.  Si veda la rabbiosa descrizione dei propri mali in Michelangelo: « I’ sto rinchiuso come la midolla», l’anatomia cruda, viva e vera di Campanella  nel madrigale «Di’: come al buio hai tu distinto l’ossa? », dove la percezione del corpo è quella di un uomo sopravvissuto a lunghe torture e a lunghi anni di prigionia. Ciro di Pers invece dedica un suo sonetto a una specifica malattia, la calcolosi renale: «Son nelle rene mie, dunque, formati / i duri sassi alla mia vita infesti ».

Presente qui è anche l’ansia, il tormento che non ha cause e nome, da un lato l’attrazione senza oggetto... dall’altro una sofferenza senza origine , come in Ariosto,  « Lasso! che bramo ancor, che più vogli’io ». Poesia in cui Magrelli indica la condizione di stallo in cui giungono gli amanti ariosteschi quanto, terminata la caccia, raggiungono l’oggetto del desiderio.  In questa composizione tuttavia vedo additata anche un’altra delle predilezioni di Magrelli: nelle loro varie forme la ripetizione e il gioco linguistico: « Io voglio, ma io non so quel ch’io mi voglia ; / e volendo mi doglio; ah duro fato, / che senza alcun dolor sempre mi doglia! »

Si diverte Magrelli. Molto lo fa prendendo le distanze da malinconia e ipocondria, ma anche in altri modi. Per esempio segnalando quella che definirei la sincera ipocrisia di Monsignor della Casa che fugge ormai dal « fallace mondo » dopo aver inutilmente rincorso, non senza contraddizioni e incidenti di percorso, il traguardo della porpora cardinalizia.
Il sorriso, l’ironia e anche il sarcasmo aleggiano in tutte queste pagine. Pagine di un serio ricercatore che, attraverso le idiosincrasie dei poeti nei secoli, segue con compiaciuto distacco le proprie. Anche lì dove sento un’ammirazione senza riferimenti espliciti all’ipocondria e alla malinconia, quando cioè viene a parlare del Belli, Magrelli non può trattenersi dal citare la scoperta che il poeta enuncia in Er cimiterio de la Morte: « che ll’omo vivo come ll’omo morto / Ha una testa de morto in de la testa ».
Proseguendo nel suo viaggio, se certo non è troppo originale citare una poesia sui morti venendo a Pascoli, più particolare lo è parlando di D’Annunzio. Qui giacciono i miei cani è una poesia che si colloca fuori del dannunzianesimo più noto, anche se persiste nelle tematiche e nello stile decadente.
Quale maggior poeta della malinconia, tra quelli nati nell’Ottocento, che Guido Gozzano, che  più ripete il ritornello : « Bada che non ti parlo / per acrimonia mia : / da tempo ho ucciso il tarlo /della malinconia », meno riesce a farcene convinti?

Tra i classici moderni, venendo a Montale, Magrelli sceglie la poesia L’anguilla che incita a imparare a memoria, forse ricordando come amasse ripeterla a memoria, quando l’occasione se ne presentasse, l’amica di Montale Maria Luisa Spaziani.
Montale. gli dà l’occasione di sottolineare ancora una volta l’esistenza di un legame tra enigmistica e poesia : preme ribadire, scrive, come quest’ultima sia innanzitutto una sorta di forma- pensiero, pensiero fatto forma , forma fatta pensiero, chimica non soltanto di parole, bensì di sillabe, lettere, spazi.

Concludendo questo mio breve viaggio sul viaggio magrelliano nella letteratura italiana di un  intero millennio mi sentirei di confutare, almeno in parte, la possibilità di usare questa originale antologia come una gioiosa propedeutica che raggiunga una fascia di lettori finora estranea alla nostra tradizione poetica. Va bene il giocosa, va bene anche definire i materiali di questo libro una schedatura ludica e sentimentale. Ma questi, se vogliamo continuare nella metafora che usa Magrelli, ripresa sul retro di copertina, non sono starters per stomachi digiuni. Direi, e torniamo a Dante, al suo Convivio, che l’invito a questa tavola è piuttosto rivolto a chi del cibo della poesia si è saziato, ne ha già avuto abbastanza. A chi non ne ha più appetito, perché ha gustato sempre dello stesso cibo, in maniera conformista, con scarsa curiosità per cibi meno tradizionali. Magrelli qui, anche apparecchiando lingue diverse o di autori stranieri che hanno voluto saltuariamente esprimersi in italiano, cerca di farci avventurare verso esperienze il più possibile nuove. 

Come attraverso un viaggio nell’anti-materia, Magrelli ci ha traghettato non nella poesia italiana tout court ma in una sua zona rimasta fino ad ora (quasi) invisibile.