domenica 28 giugno 2009

Piera Mattei – Una Demetra in prendisole bianco


La collana Sguardi della Casa editrice milanese è diretta da Gabriela Fantato e occorre qui notarlo, per sottolinearne, in contrasto con tanta editoria frettolosa e distante, la cura e la rivendicazione delle scelte. La partecipazione e condivisione del libro si manifesta, in questo caso come in altri, anzitutto nell'intelligente nota introduttiva.

Come in tutti i testi di spessore, molti sono i livelli di fruizione: Gabriela Fantato legge questo libro soprattutto seguendo uno schema simbolico: la spiaggia come soglia tra terra e mare dove il mare è l'Acqua dell'origine, uno degli Elementi Primi del mondo degli antichi. Suggerimento suggestivo, dato che l'acqua è insieme simbolo di vita e di morte, di rinascita, simbolo materno, anzi amniotico, che precede ogni rapporto responsabile.

A contatto con la mia sensibilità reagisce anche la forte dimensione sensoriale, tattile. Seguo gesti delle mani, movimenti del corpo, della schiena sulla sabbia, che restano indelebili. Nel poemetto Senza voce dove è la madre scomparsa a parlare, la volontà e le finalità artistiche di Lucetta sono enunciate per suo tramite: Ai tuoi versi dicevi: statemi intorno / fatemi caldo voglio il tepore / la pelle l'odore / e nessuna metafora nessuna / finzione: da voi voglio / realtà.
La madre appunto. E' un libro dedicato alla madre, non a una madre simbolica, una madre vera che al mare, sulla spiaggia, si sentiva ringiovanire:…Mi precedi / in prendisole bianco pelle scura / borsa rossa.
Una madre amata, laboriosa e ottimista: una vera madre, mi verrebbe da dire. Ridotta infine come la vita spesso riduce: regredita, svuotata, disperata, fino a sviluppare un impossibile desiderio di fuga, attraverso una magica porta. Questa è tutta la mia casa – dici – e indichi il letto / con le sbarre intorno. Fammi uscire di qui. Da un buco del pavimento / dietro una mattonella / si troverà una strada / che fugge verso il porto…
Senso del tatto, il primo dei sensi a risvegliarsi con l'olfatto, mentre la vista e l'udito elaborano più lentamente le loro più complesse potenzialità. Quando Frisa afferma di essere la regina assoluta del piccolo, penso intenda questo, far seguire alle parole gli impulsi che vengono dai sensi più semplici, un frammento d'infanzia conservato intatto alla poesia.
Questo è vero soprattutto nel primo poemetto: una lunghezza molto varia dei versi, inserti di prosa poetica e un volontario restringersi, un guardare all'indietro, alla ripetizione, al cerchio che torna su se stesso ingrandendosi di un giro come in quel lavoro all'uncinetto col quale la madre si rappresenta come parca di stessa. La voce vibra, oscilla, recita incipit di favole, il c'era una volta, che passa dalla fantasia alla realtà, perché tutto quanto c'era muta e si dissolve, scompare, alla vista, alla vita.

Il bisogno che la figlia avverte ancora dolorosamente della madre, ci fa rivivere, invertito direi, il mito di Demetra e Proserpina. Lì era la madre impazzita di dolore a desiderare a qualsiasi costo il ritorno della figlia, qui la madre torna, nel già citato poemetto in cui parla in prima persona, con desiderio di essere sciolta dal legame, di vivere, per se stessa, come individuo:Vorrei dirti che sono stanca / stanca di essere ancora tua madre…
Il rimpianto che la figlia ha per il suo nome pronunciato dalle labbra di lei, il desiderio di udire ancora il richiamo materno è tema che torna più volte . Lo cito da 6 Luglio : ma rimandami il nome – il mio – andato via insieme alla tua voce.
La presenza dell'uomo, come nel mito, riporta alla necessità di una separazione, anche se l'avvicinamento e la resa all'Altro, al maschile che impedisce il ricongiungimento nel ventre e nel sogno, avviene nella solarità, non nel sotterraneo inverno di Ade. Così in Spiaggia di Ariana: Per la prima volta ho sognato mia madre / Aveva il prendisole bianco / le ho detto fai qualche passo / verso di me voglio fotografarti. / Nell'attimo dello scatto / tu mi hai svegliato.

Non so se scrivendo questo libro, o alcune sue parti, Lucetta Frisa abbia avuto presente Ginsberg e il suo Kaddish non rituale, il suo laico pianto sulla madre morta. Lì certo c'era la presenza di una madre precocemente allontanatasi dalla realtà, madre giovane impazzita, qui in un modo diversamente tragico si tratta di una malattia della senescenza, ma in entrambi i casi colpiscono i lampi di disperata lucidità che il poeta-figlio sa cogliere nell'oggetto d'amore con l'ambivalente desiderio di liberarlo dalle catene della decadenza.

In un contesto meno autobiografico, anzi totalmente trasferito in una fantasia che ha raffinatezze e echi rilkiani, il rimpianto del nome chiamato torna nel bellissimo poemetto Porta rosa che chiude il libro, anche formalmente molto distante da Gioia piccola che lo apre. Qui, in un verso compatto che non conosce rotture Lucetta Frisa delega i propri pensieri a un personaggio sconosciuto, una donna velata di nero, sperduta tra le rovine di Velia, una creatura che è uscita dalla tomba, incerta e spaesata ma pacata, benché segua le tracce di un ricordo che non corrisponde alla visione attuale di silenti rovine, e non trovi più la sua casa. I luoghi, le persone, i dati sensoriali della vita da viva, tornano lentamente al suo ricordo di antica trapassata, e tra tutti forte è quello della madre che la chiama per nome. Qui Lucetta Frisa definitivamente ha abdicato alla consegna di restare la bambina di "quella" madre, alla sua voluta, edenica e insieme dolorosa, condizione di regina assoluta del piccolo. Trasferendo su una creatura della sua invenzione il dolore, il senso di mancanza, dona alla poesia un valore oggettivo, ci dà testimonianza di un'alta elaborazione del lutto, ci fa ascoltare, in musica perfetta, un discorso severo e forte.
Lucetta Frisa – Ritorno alla spiaggia, poesie 2001-2007 – La vita felice 2009

venerdì 19 giugno 2009

in memoria di Vito Riviello – !8 maggio 2009


Ettore è un soldato disperso

sulla mia morte non ci sono dubbi. Ne rimangono invece / intorno ai modi...
Ettore B, voce narrante e protagonista del poemetto esordisce con l'uso di una minuscola, riprendendo un ragionare mai interrotto, un andare e riandare ai fatti che eliminarono per lui la dimensione del futuro. Sprizza umore sarcastico. Soldato obbligato dalla leva a combattere, incolpevole e forse in parte o in tutto ignaro, morì di morte violenta e il suo corpo non fu ritrovato. Non avendo lui stesso deciso di passare alla storia come eroe, fu obbligato dagli eventi e dai superiori a morire eroicamente.
Nelle linee generali, l'episodio storico a cui Luigi Ballerini fa riferimento è noto, addirittura abusato, in tempi recenti. Si tratta di Cefalonia, luogo-sinonimo del massacro di soldati italiani da parte di soldati tedeschi, nel settembre '43. Un episodio che ha sedimentato nella mente, allora infantile e prelogica, dell'autore, più che vittima – che a tale non si atteggia – parte lesa e offesa, cui ripugna ogni strumentalizzazione retorica.
Più o meno ogni pagina, alternando al nome di Ettore B quello di Hans D, esordisce con la stessa minuscola e termina senza il punto. Neppure tra il discorso dell'uno e dell'altro c'è un vero stacco, anche se sappiamo che Ettore è un sottoproletario italiano, Hans un borghese tedesco, chi ha subito la guerra e chi l'ha preparata. Il nome – Ettore – completa la premessa tragica. Forse è una scelta obbligata ma corrisponde – sia intenzionale o corrisponda a un dato anagrafico – al mito del duellante destinato alla sconfitta.
Nonostante la struttura formalmente dialogica tutto il poemetto si svolge in realtà sul tono del monologo, stempera nel gioco formale – intrecci di canzonette, proverbi e dialetti a schegge di letteratura alta – l'infelicità di un morto non pianto, di un marito-padre che dalla guerra non è ritornato.
Un ritmo sempre sostenuto – una valanga di detriti della memoria – mescola frammenti della Commedia e assonanze del Dolce Stile a un rabbioso digrignare:
noi siam li tristi sgarbi accalorati, le formicuzze/ il forellin dolente, noi siam le tristi penne scalcagnate...
L'oggi e quel lontano '43 sono compresenti nel giudizio. Non solo Ettore ma ognuno dei giovani soldati delle due sanguinose guerre mondiali sembra "elargito a sproposito", oggi che la guerra si è mutata da dovere verso la patria, in lavoro crudele ma ben retribuito. Lì nasce il contrasto tra la visione che esalta quei morti come eroi e il senso di rabbiosa inutilità del martirio:
...Ma io vago insepolto, / elargito a sproposito, e mi è chiara la violenza di un pensiero in linea / retta, che si posa sui clivi e sui colli...
Ettore, insepolto, può esserci tematica più epica? Eppure il lessico adottato e il racconto che, come trama visibile, sottostà al monologo impone di dissipare l'equivoco :
Meno che mai martirio per cui si accede, anche non battezzati (che /
ne basta il desiderio) alla gloria dei santi...

Del resto strumentalizzazioni, trappole, allucinazioni, sono sempre all'origine di comportamenti che sfidano spavaldamente la morte, nelle guerre guerreggiate come nei racconti poetici. Questo è anche il senso della sconfitta di Ettore omerico, narrata nel libro XXII dell'Iliade: nell'Olimpo, dopo tanto litigare, finalmente la decisione finale è presa, e per l'inganno allucinatorio ordito da Atena l'eroe troiano si offre al duello con colui che è, con ogni evidenza, il più forte.
L'Iliade rimane qui sullo sfondo imitata, sofferta e in qualche modo irrisa. La seconda parte del libro s'intitola "Se il tempo è matto", italianizzando, come spiega in una delle illuminanti note lo stesso autore, una locuzione lombarda (se 'l temp l'è matt, mi sont minga matt"), che designa un certo comportamento eccentrico, schematico fino all'autolesionismo. Si conferma la chiave sarcastica e, sul piano formale, la mescolanza di registri come cifra stilistica. La citazione classica si meticcia con la canzone appassionata e ironica ("siempre que te pregunto"), offrendo spunto alla considerazione morale, allo sfogo di un fastidio esistenziale. Ossessione per le responsabilità eluse, per le fatalità cospiranti, cantata tra i denti come si canta una canzone che s'è incisa nella mente e ne scarica il lavorio.
Anche in questa parte del libro l'autore si serve, per stemperare il pathos, massimamente della parodia, molto frequentata dalle avanguardie degli anni '60, con le quali lo stile di Ballerini da allora si apparenta, riprendendo con grande maestria e senza maniera un filo mai interrotto della scrittura.
Luigi Ballerini – Cefalonia – Mondadori 2005

Piera Mattei

Ettore è un soldato disperso

Elio Pagliarani negli States con La ragazza Carla

Ieri, 18 giugno, nella Sala Convegni Santa Marta, in piazza del Collegio Romano n.5, si è reso omaggio a Elio Pagliarani, in occasione della traduzione newyorkese di gran parte delle sue poesie ( New York, Agincourt, 2009).

L'autore, presente in prima fila accanto a sua moglie Cetta Petrollo, ha assistito silenzioso, annuendo talvolta con viva partecipazione. Non ha letto lui stesso, con la nota forza sciamanica che Ballerini ed altri gli riconoscono, affidando alla voce di Carla Chiarelli l'interpretazione della sua poesia.

Assente giustificato il Ministro Sandro Bondi, nel ruolo di moderatore Giuseppe Benelli, l'attenzione si è concentrata sui poeti e critici, amici storici, Luigi Ballerini e Walter Pedullà. Ha parlato manifestando una certa emozione, Patrick Rumble, traduttore e curatore della bella edizione americana, di cui è editore lo stesso Luigi Ballerini.

Luigi Ballerini in particolare ha inteso mostrare, con discorso filologico che sfiora la passione investigativa, le intenzioni remote e le stratificazioni di La Ragazza Carla, poemetto fondamentale che si presenta al lettore newyorkese nella nuova traduzione. Gli esiti di tale ricerca Ballerini ha riportato nel libro 4 per Pagliarani – edito da Scritture nel 2008 – che comprende altri tre saggi brevi sull'amico, personaggio di assoluta centralità nella letteratura italiana della seconda metà del secolo scorso.

A incontro concluso ho avvicinato Ballerini per informarlo che vorrei inviargli copia del libro di interventi critici, in uscita per Zone editrice, L'immaginazione critica, in cui figura una recensione al suo Cefalonia. Il libro si riferisce a un noto, tragico evento della seconda guerra mondiale: è quindi poesia ma accende interrogativi che vanno oltre la poesia.

La recensione ho pensato di riportala anche qui di seguito come anticipazione ai lettori di Lucreziana 2008.
Piera Mattei

lunedì 8 giugno 2009

Georges de Canino – Rimbaud e l’Altro, io e Rimbaud

Una relazione fisica, cosmica, mentale, corporale, psicologica, astrologica, spirituale, carnale, visionaria, passionale, intellettuale, dolente, emotiva, eroica, relazione che passa tra la mia anima e Rimbaud, la poesia dell’anima e la libertà. La carne, il sangue, il dolore, il corpo di Rimbaud e il mio corpo poetico si disegnano in gioia inesprimibile, si sommano e si scorporano le mie mani. Nascono e si plasmano, lottano le dita colorate dell’arcobaleno, fuoriescono i colori che prendono corpo in forma di lettere e di parole. Scrittura dai colori dell’acqua e del cielo, composti di terra e di fuoco, corpi fisici, corpi astratti, corpi naturali, corpi essenziali, corpi feriti dalla bellezza, si prolungano nelle forme dell’artista. L’artista vede e trasforma con tenacia e forza formidabile le compenetrazioni dell’anima. Chiamiamo arte il mistero che non conosciamo. Conoscenza, rigore, autocoscienza, responsabilità, annullamento, concentrazione, si alternano in abnegazione, nella dura disciplina del lavoro. Ribaltamento della realtà che l’artista esplora e trasforma. L’artista è l’unico punto di prospettiva e di partenza dei diversi linguaggi dell’arte. Quindi l’artista è il vero strumento di rigenerazione del mondo. Non sono le convenzioni, non sono le regole, non sono le leggi del mercato, è la proprietà e l’indipendenza dello strumento e l’autonomia dell’intelligenza che ribaltano e rovesciano costantemente la fissità delle regole e del potere. La cognizione della realtà ci rende consapevoli della nostra energia. L’artista è impegnato a migliorare l’insana aridità degli uomini, a combattere le pigrizie intellettuali, a stravolgere il conformismo delle idee e delle convenzioni; l’artista deve porsi fuori dai recinti e dalle prigioni e dagli inferni in cui le società si alimentano di violenza. Società regolate dai profitti e sfruttamenti, chiudendo le porte all’intelligenza, al progresso, alla libertà libera. Non vi è scampo per il futuro, il poeta è il centro delle mutazioni, primavere della storia e del mondo. Non è possibile, non è accettabile negare la memoria, uscire dalla memoria e dalla storia. Il mondo contemporaneo è intriso , prigioniero, imbavagliato di nuovi massacri collettivi, di disastri politici, dovuti a vecchie e nuove dittature totalitarie. Senza libertà l’arte, la poesia, la scienza, la cultura, la memoria, non hanno futuro. L’arte, la cultura, la scienza rigenerano l’anima più profonda dei popoli, la libertà degli individui e delle nuove generazioni. Auschwitz è il punto di arrivo della fine di una civiltà, una civiltà vecchia e satura di una cultura costituzionalmente saldata dall’odio, dal razzismo, dall’antisemitismo e dalla xenofobia. Modelli politici e religiosi che mantengono società incancrenite dalla disperazione e dalla violenza. I regimi radicati dalla violenza e dall’ingiustizia sono destinati ad essere spazzati via dalla storia. La libertà non è trattabile, non è oggetto di scambio, non è una illusione, non è una merce. La libertà indivisibile dalla giustizia e dalla democrazia può essere l’unico cammino percorribile della storia e del nostro futuro. Come cresce la creazione cresce la libertà. Si sviluppano l’arte, la cultura, la scienza, la poesia, la vita, nella libertà delle idee. La poesia è la rugiada delle nostre emozioni, la linfa dei nostri sentimenti, il fuoco delle nostre passioni e delle idee. La poesia è l’espressione delle nostre preghiere, delle nostre labbra, dei cuori. La poesia è la carezza dell’anima, la poesia è le carezze che non sappiamo dare, per aridità e per nostra infelicità, incapaci di amare. La poesia è il bacio e la tenerezza di una madre e di un padre, poesia è la carezza che i figli danno ai loro vecchi. La morte e la vita sono la linea ininterrotta della poesia, la linea dell’uovo dell’universo.

Un poeta dalla statura di Philippe Soupault che è stato l’autentico ed unico inventore della scrittura automatica, insieme a André Breton astuto e avventuriero, scrissero Les Champs magnétiques, mutando radicalmente metodi e tecniche di scrittura della poesia del XX secolo, ricordo che Philippe Soupault in più occasioni ha manifestato la sua posizione come testimone del mio lavoro di artista, partendo dalla lettera nota come La lettera del veggente, che venne inviata da Rimbaud a Paul Demeny il 15 maggio 1871. Cesare Vivaldi poeta estroverso e critico della generazione degli artisti degli anni ’60 e ‘70 ha avuto il coraggio di leggere nella mia opera la realtà e il miracolo generativo che corrono tra il verbo di Rimbaud e la passione resurrezione laica della mia militanza artistica, nel panorama visivo e figurativo dell’arte e della poesia contemporanea. Due poeti italiani solitari e marginali, radicati a Roma, protagonisti della poesia del ‘900, sia Sandro Penna sia l’altro Giorgio Vigolo, sono stati le sentinelle della mia lotta poetica e artistica, hanno saputo vedere e unificare le linee di una discendenza che si è manifestata nel silenzio di Rimbaud, nella sua ribellione cosmica e poetica, disegnando e completando la mappa di una poesia nuova che ci salverà, sveglierà la coscienza di generazioni di uomini e di donne liberi.

La poesia come la libertà non hanno etichette, la libertà e la poesia sono figlie dell’amore amato, amanti dello stesso amore. La poesia è il gesto segreto quotidiano e politico del riscatto di tutte le lacerazioni sociali e intime.
La poesia è la più alta avventura dell’umanità, dei costruttori di storia, senza poesia è impossibile urlare la libertà.
La poesia è vita e morte, l’arte e la scienza sono le ali della nostra libertà.
Come l’arte, la poesia, la memoria, il teatro, la danza e la musica vivono, le arti si intrecciano nella speranza e nella libertà.
In questo anno del centenario del Manifesto del Futurismo di Marinetti (Parigi, Le Figaro, il 20 febbraio 1909) alcune riflessioni dovrebbero essere fatte adeguatamente con la massima onestà e riscoprire alcuni poeti e artisti che hanno scardinato l’arte e la poesia dalla mummificazione accademica, dal nostalgismo idiota, dalla superficialità di tanta critica becera e convenzionale che fino ad oggi ha imperversato, rendendo giustizia all’arte e alla poesia italiana. Uno fra tutti, tra questi artisti pionieri dell’avanguardia futurista è Francesco Cangiullo (1884-1977), poeta e artista totale, futurista napoletano che scelse Livorno come sua nuova patria ideale, dove visse alcuni decenni della sua lunga vita, dimenticato dal mondo. Geniale autore, convinto prestigiatore della poesia moderna Cangiullo regge e afferma accanto a Guillaume Apollinaire le invenzioni della poesia, della parola futurista e dell’illusione del teatro dell’assurdo e in generale della poesia visiva contemporanea.
Le infinite forme, i colori, le parole, la musica, i nostri gesti trasformano il mondo ogni istante in eternità.
Questa mia lezione-incontro tenuta a Gallarate il 22 maggio 2009 è dedicata ad una donna, un poeta, Alda Merini, poeta dell’innocenza, poeta della libertà.

Non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti,
di parole, di parole scelte sapientemente,
di fiori detti pensieri,
di rose dette presenze,
di sogni che abitino gli alberi,
di canzoni che facciano danzare le statue,
di stelle che mormorino all' orecchio degli amanti.
Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi
.
Alda Merini

sabato 6 giugno 2009

Due mesi fa il terremoto dell'Aquila


Due mesi fa, nelle ore della notte la terra si è scossa violentemente nel territorio del l'Aquila. Negli ultimi mesi la terra ha tremato in quella zona per più di 7000 volte.

Oggi la gente vorrebbe tornare a vivere nelle case ma insieme ha paura. Quello che dovrebbe essere il riparo, quello che atavicamente è il luogo della sicurezza, per un altro profondo sussulto della terra potrebbe rovinargli addosso.
Questo sentimento d'ansia e allarme, non del tutto infondato del resto, in qualche modo precede le difficoltà economiche, comunque connesse alla ricostruzione.

Noi vorremmo che la gente ci sentisse vicini. Noi torneremo dai nostri amici, a Tempera. Non è facile capire cosa possa essere utile, ma vorremmo sentir parlare la gente del paese, vorremmo sentire dalle loro parole, quali sono oggi i loro sentimenti rispetto ai luoghi che sono stati costretti ad abbandonare.

Gli uomini hanno da sempre convissuto con il terrore della terra che trema. Hanno negli anni trovato il modo di reagire, di ricostruire, di dimenticare il terrore, di cercare di spiegare il fenomeno, per prevenirlo. E' difficile, certo, difficilissimo.
Intanto, come diceva il nostro amico Marco quando siamo andati a Tempera a meno di una settimana dal disastro, bisogna cercare di capire.
Anche Lucrezio nel lontano I secolo a.C. riteneva che la comprensione dei disastrosi fenomeni naturali aiutasse a meglio fronteggiarli.
Siamo andati a ricercare, nel suo sommo poema, i versi che ci riguardano:

Ora ascolta qual causa produca i terremoti.
Anzitutto pensa che la terra, sotto il suolo
così come sopra, è piena ovunque di spelonche ventose,
e racchiude in seno molti laghi e molti stagni
e rocce e massi dirupati, e bisogna ritenere
che molti fiumi nascosti sotto il dorso terrestre
travolgano con violenza le onde e i macigni sommersi.
[…] E dunque per tali congiunzioni nel profondo,
la terra in superficie trema scossa da vaste rovine,
quando il tempo fa crollare enormi caverne sotterranee;
allora cadono intere montagne, e il tremito provocato
dalla violenta scossa di lì si propaga in luoghi lontani.
[…]
Inoltre se il vento, raccolto nelle cavità sotterranee,
prorompe e incalza in un'unica direzione, premendo
con irresistibile forza sulle profonde spelonche, la terra
si piega dove incombe l'impeto del vento.
Allora le abitazioni che sono edificate sul suolo,
e in maggior misura quelle costruite più alte,
pendono recline e minacciano di rovinare verso la medesima parte,
e le travi fuoriescono oblique pronte a cadere.

(De rerum natura - Libro VI - 535-560 - traduzione di Luca Canali)