giovedì 16 febbraio 2012

Alessandro Centinario su Vincenzo Anania



TRAME TRA I RAMI DELL'ARIA
Vincenzo Anania è un poeta che ha covato l’uovo della poesia per lungo tempo; comparve sullo scenario ufficiale poetico italiano a circa cinquant’anni (ora ne ha ben oltre settanta), ma vi comparve non in punta di piedi, da circospetto esordiente, bensì con la sicurezza di un linguaggio maturo per sapienza evocativa, e raffinato per elegante arguzia espressiva, che gli valse “da subito” importanti riconoscimenti, come il premio “Alfonso Gatto” per la raccolta “Nell’arco” (Ediz. Crocetti ‘92).
Seguirono svariate altre pubblicazioni, fra le quali ricordiamo “Le ali di Darwin” (Loggia de’ Lanzi, 1999) e “Noi” (Zone Editrice, 2003); parallelamente al proprio discorso poetico ha portato avanti la prestigiosa rivista internazionale di poesia “Pagine”, di sua ideazione.
L’ultima, più corposa pubblicazione è stata la raccolta “Biblioteca” ( “Zone Editrice” 2007) che è una antologia ma non solo una antologia, contenendo anche numerosi inediti: è un libro in cui l’autore rimedita, quasi con elegante distacco, tanto la propria esperienza esistenziale “dentro” la poesia, quanto il proprio linguaggio poetico, distillandone in purezza i salienti motivi di ispirazione.
Il discorso di Vincenzo Anania è però tuttora “in fieri”, ed altre pubblicazioni sono in gestazione ( a breve comparirà una nuova raccolta a cura della editrice “Passigli”)
Il forse principale tratto fisionomico dell’autore, non solo nella “antologia” ma in quasi tutte le raccolte degli ultimi anni, è dato dal sentire la poesia come momento di palingenesi della personalità esistenziale, come se in ogni composizione poetica l’arco vitale venisse per così dire ricapitolato “ab ovo”; riprendo qui la metafora dell’uovo, che “in rebus naturae” è al tempo stesso condensazione di memoria genetica e prefigurazione di nuovo ciclo vitale: così pure in effetti la buona poesia condensa il memoriale del vissuto e fa schiudere aurorali embrioni di senso, come i “pulcini impazienti nelle uova” cari all’autore.
Tutte le raccolte di Vimcenzo Anania possiedono la grazia persuasiva di un piccolo concerto per violino ed orchestra; pare materializzarsi la voce del violino – “naturaliter” elegiaca - intonante un canto che si distende nelle docili vibrazioni d’una coralità orchestrale però sommessa, volutamente sottotono, come nell’aura liricamente penumbratile d’una sospensione fra il monologo ed il dialogo, ove la voce poetante percorre un intimo paesaggio del senso evocato, sovente trasfigurato in sapienti metafore arboree (il melo, il salice, gli alberi del frutteto e quelli del bosco), quasi a ricordare (con Jung e Neumann) che l’albero (nella scura profondità delle radici e nella aerea proiezione dei rameggi) è subcoscienziale congiunzione tra terra e cielo, e cognizione dell’una e dell’altro, tra gravità ctonia ed uraniche trasparenze : “Volo impedito l’albero ospita uccelli fra le sue ali ( ..) stormendo dissimula il rammarico ai racconti d’avventura d’aria”
Così il momento germinale e vegetante dell’anima pulsa ed emerge là dove “ un rampicante ho scoperto / al mio corpo avvinto: esilissimo, un niente, e non sale dalla terra./ Non so quanto vivrà, se covi fiori-io lo poto e annaffio. Ieri/ mi ha punto il cuore.
I paesaggi dell’anima trascorrono dunque dietro le quinte di mutevoli scenari fra le dissodate terre del vissuto e le ideali acque d’una mitica origine (che “rivive sulla pelle del lago” ove si scandiscono “le pause l’incresparsi del respiro”) fra archetipi femminili, liricamente sorgivi o risorgivi, che ci richiamano alla mente l’Anna Livia Plurabelle della Joyciana “Veglia di Finnegan”, e che qui con sapiente affabulazione ripetono l’estetica del mito rigenerativo, quando “a ogni foglia che muore vibra l’anima del mosto”; tutto ciò quasi nell’itinerario di iniziazione ad una sacralità di bellezza che è nel “secretum” e nel “recessus”, come sulle orme di una lezione petrarchesca innervata però di modernissima ed inquieta sensibilità esistenziale, sempre condita di arguzia, ove l’approdo ad una pace non è se non sofferta conquista d’una “reductio ad unum” fra gli sparsi (defluenti, confluenti o refluenti) alimenti d’un “liquido” divenire dell’anima in cerca di un senso, se non di una personalissima metafisica del quotidiano che affiora a quel momento crepuscolare in cui le cose sono sull’orlo del nulla: “Guardai sotto un sasso: da un viavai di formiche una vocina: ciao caro sono dio, come stai?”
La configurazione del testo è sempre calibrata ed elegante, il ritmo disteso e risonante; la struttura della elocuzione poetica - talora discorsiva, ma mai declamatoria - si risolve sempre con una “clausola” icastica, frutto del delicato “rameggio” dei versi che la precedono; a testi “conchiusi”, che modernamente evocano il sapore alessandrino di un “epillion” (come un piccolo favo denso di zuccherina ma equilibrata dolcezza, temperata d’amaro) si avvicendano altri in cui il respiro poetico è più ampio (e talora intriso anche di vibrante ed “onesta” passione civile e politica), e si effonde, sempre con misura, sino ad alludere sapientemente ad un inespresso, che è quanto il lettore deve aggiungere di suo nella viva interlocuzione con una scrittura che a tanto lo intriga e lo invita nella felicità aerea di questo gioco poetico che “sa di valle d’erba offerta al sole”.
Mi piace pensare e dire, di Vincenzo Anania, la stessa cosa che ebbi modo e piacere di dire di Luciano Erba: entrambi, nella loro poesia, manifestano i tratti sia del “puer” che del “senex”.
La dicotomia del “puer” e del “senex” è una intuizione di quello scienziato della psiche, nonché poeta “sui generis”, che fu Gustav Jung, ed è ormai invalsa nel dizionario degli psicologi: i due archetipi hanno valenze simboliche positive e negative.
Sempre secondo Jung, il “puer”, se non s’attarda a confrontarsi con il tempo e con il limite, potrebbe pervenire a figure apicali dell’archetipo, quali un San Francesco, od un Cristo, sorgenti eternamente giovani e inesauribili d’amore e di scoperta; il “senex”, come archetipo psicologico, è a sua volta ambivalente, può essere Saturno, il potere senile chiuso, geloso, avaro, che, invidiando la giovinezza, divora i figli; oppure può essere un Mago Merlino, il “senex” pervaso di esperienza affabulatrice ma con cuore di ragazzo, inventore di fiabe per l’ascolto pensoso dei bimbi e dispensatore di favolosi misteri distillati nel percorso di costruzione di una saggezza sottile, così sottile da essere al confine dell’invisibile, e della buona magia della poesia.
Ecco, dunque, questa “fanciullesca senetudine” di Vincenzo Anania, che con la sua “ironia fantastica” (anche in questo molto in sintonia con Luciano Erba) si diletta ad intessere, con epicureistico distacco, e pur con dolceamaro senso ludico, un dialogo giocoso perfino con Sorella Morte, così apostrofandola “Morte candida volpe, / delle mie colpe indifferente / giudice, tu la pioggia/ e grondaia, io l’operaia / tu l’ape regina / mai sazia così vicina / che tu sembri la carne / io le ossa.”

(Alessandro Centinaro)