martedì 14 ottobre 2014

Fuga dal tempo e dall’abbraccio nella poesia di Giancarlo Stoccoro – di Piera Mattei

nota critica a
Giancarlo Stoccoro "Il negozio degli affetti " Gattomerlino edizioni 2014


Non parlerò di “Il negozio degli affetti” come chi incontri per la prima volta questo libro, già stampato, perché infatti sono  –in parte non minima– responsabile della sua struttura.
Eppure, tornando a leggendolo, nella sua compiutezza, ha sentito un’aria di novità, mi è apparso diverso dall’insieme di poesie che tuttavia avevo scelto con Giancarlo, una a una.

 Questa è la magia del libro: diventa altro dalla somma delle sue parti, acquista una sua vitalità nuova, lo affermava anche Paul Valery.

Da questo libro ho quindi visto emergere una trama, anche se ero io stessa già stata testimone della non-programmaticità del racconto. Ho visto infine emergere una biografia, raccontata per flash, per immagini, mentre le pagine aggiungevano poco a poco altri dettagli alla storia, al carattere, al pensiero del loro autore. La sorpresa è stata che alla terza alla quarta lettura quell’immagine che pensavi di avere fissato continuava a muoversi, a mutare, ad articolarsi.

Quindi mi fermo. Chiudo il libro. E mi rendo conto che ciò che rimane più vivido è, insospettabilmente, la sensazione di essere entrati in una storia d’amore, di convivenza, comunque di confronto con una donna, con la donna, un confronto non sereno, spesso amaro, forse conflittuale, senz’altro enigmatico.
Vediamo come questa sensazione ha potuto prendere forma, prendiamo la poesia a pag.15:
Non mi risolvo alla partenza
ancora interrogo il tuo gesto
[...]
non resta che piegarsi al tempo
muovere incessantemente la bocca
come fanno i pesci che non hanno
mai parlato fuori dell’acquario.

In questa poesia il tema dell’incontro-separazione si coniuga con la riflessione sul tempo, direi anzi con la ribellione per l’assoluto scorrere del tempo, ed entrano a fare parte della poesia l’atto del parlare, le parole, con un’immagine tra le più particolari e originali del libro: come fanno i pesci che non hanno / mai parlato fuori dell’acqua. Ora certo i pesci muovono la bocca, ma noi diciamo muto come un pesce: i pesci non parlano. Qui invece l’immagine riproduce l’idea che un acquario sia un po’ come un piccolo universo separato, dove i pesci parlano tra loro e non sono uditi all’esterno. Solo se li togli dall’acquario, il loro parlare diventa un soffocato e veramente muto boccheggiare.
I pesci come oltraggiata immagine di morte sono materia per un’altra similitudine a pag. 24:
Altro sarebbe mutare gli occhi
come fanno i pesci
quando vengono cotti

Certo ci sono probabilità che quella che ci appare come una storia personale, perché raccontata da una sola voce, riassuma invece echi di molte altre storie, forse anche racconti di pazienti. Ricordiamolo: Stoccoro è psichiatra e psicoterapeuta. Data questa precisazione torniamo a rintracciare gli elementi esterni, quelli che non sono riflessioni sullo scorrere del tempo o sull’uso e la forza delle parole– su cui torneremo più avanti– ma particolari che identificano luoghi, situazioni, l’aspetto concreto della vita. E ritroviamo nella poesia a pag.17 il muretto di casa, entità fisica che diventa un elemento di sostegno anche morale, una struttura a cui potere poggiare le spalle.

Ancora a pag.30 un’inquadratura di paese o di periferia cittadina. Si tratta di un sogno e l’atmosfera onirica si concentra su due immagini, bambini in gioco e la durata di un abbraccio: bambini che giocano a palla con un po’ di veleno”... ci siamo abbracciati a lungo in mezzo ai panni stesi nel retro di una casa...
Una storia che trema sempre al bordo del precario, della delusione. Oppure registra la propria volontà di rivolgere uno sguardo crudele, freddo, uno sguardo che sa la fine, mentre l’altra, colei che è guardata, ancora –forse– la ignora o non ne fa motivo di assoluto distacco(pag.50):
io ti osservo tranquillo dalla riva
mi fai cenno più volte di entrare
ma fredda per me è l’acqua

Altre immagini di questa storia (o di queste storie), dove tuttavia il tu cui le parole sono rivolte è sempre una donna, lasciamo al lettore di ritrovarle.
E passiamo, dal racconto, alle riflessioni su quanto è nelle cose, non come materia e immagine, ma come forza invisibile, coordinata imprescindibile: il tempo, il movimento nello spazio o l’immobilità della Terra. Questo ultimo concetto si articola, in particolar modo nelle poesie a pag. 34 e 39:
Importa attendere che la terra giri
e voltandosi dalla tua parte
raggiunga anche te
+++
Se guardo in alto vedo
 il cielo ancora chiaro
 ma la terra non mi segue
 non si alza mai
 forse dovrei starmene
 sdraiato fare come lei

 Ma la terra finge forse persino la sua immobilità apparente? Forse non solo si gira nel cosmo ma potrebbe accadere di vederla salire, rumorosissima, verso l’alto(pag. 67). Vedere il rumore, o per lei, la donna, essere dipinta col suo odore (pag.33): le immagini sinestesiche tornano più di una volta, in queste pagine.
Quanto al tempo, alla sua dimensione implacabile e noiosa, noto la ripetizione del nome “andirivieni” associato a quello di misure del tempo: l’andirivieni di giorni (pag. 17);
l’andirivieni feroce dei compleanni (pag.19). L’aggettivo feroce si associa altra volta a una determinazione di tempo non tutti i giorni sono feroci (pag. 18). Il tempo ha un temperamento persecutorio: A cosa serve la velocità se poi il tempo ci segue in ogni gesto, sbuca fuori dal più piccolo anfratto?
Un altro carattere che contraddistingue più di una poesia è l’esordio su una negazione o su una litote, l’espressione al negativo di un concetto. Alcuni casi rientrano nei versi già citati a cui aggiungo a pag. 26  non tutti i luoghi sanno partire e inoltre, il verso d’apertura della già citata poesia a pagina 50, non è un luogo qualsiasi.  In questo universo concettuale e affettivo non conta solo la negazione, eppure la negazione è molto forte. Una negazione che è talvolta un vivo sottrarsi, prospettando persino ipotesi funeste che diano la possibilità del ricatto affettivo:
Nel caso mi ammalassi
solo dopo aver fatto pace
potrai occuparti ancora di me

Queste parole, per il tono rivendicativo in cui trema un’insicurezza infantile, mi rimandano all’immagine a pag.62:
anche un bambino nato senza padre
porta addosso la sua carne
cammina tra le sue stesse mura

Non avrà tempo per guarire dall’infanzia
mentre le rughe crescono dalle sue mani

Rughe della pelle, pieghe della terra. Anche la terra che nutre le piante è importante in questo libro. Tuttavia anche rispetto a quest’ultima metafora, quella del suolo che dà nutrimento, l’impossibile ipotesi che si affaccia è quella di essere nato diversamente o altrove:
Saremmo stati altro
se solo avessimo potuto
cambiare ghianda cambiare quercia
ma così ci capita di stare al mondo
accanto a un lembo di terra

dove il penultimo verso richiama l’Ungaretti dell’ “Allegria”: “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”. La condizione umana è precaria, casuale, anche se le trincee sono lontane.

Giancarlo Stoccoro dimostra in queste pagine una notevole facilità e felicità di scrittura. Afferra rapidamente le immagini, formula con noncurante rapidità dispettosi concetti. Una scrittura densa da cui possibili molteplici letture fanno emergere rimandi e riferimenti continui all’interno del libro. Si ritagliano un carattere a parte alcune poche immagini e situazioni, che si riferiscono, ci sembra, alla professione di Giancarlo Stoccoro. In questa chiave almeno leggo la bella poesia di rumori (passo pesante... il calpestio e lo scricchiolio) e di silenzi, di sentimenti rappresi e soffocati di pag.72:
Per appostarmi meglio al mondo, alzo di poco la tenda a pacchetto e resto in attesa che anche il mio ospite si sieda.


Sofferenza, la propria e l’altrui sofferenza, pessimismo: forse vale la pena sottolineare che le quattro sezioni del libro portano tutte in esergo una citazione da Paul Celan.  L’ultima pagina della raccolta invece è un semplice congedo che, con altre parole– quelle di Peter Handke–, ridice quella oggettività e novità del libro rispetto ai materiali poetici che lo compongono, a cui ci riferivamo in apertura di queste note: “Ascolta, erano tutte cose mie. E adesso sono nostre”

giovedì 11 settembre 2014

Io amo amare – Piera Mattei per Maria Luisa Spaziani



 Riportiamo qui  la nota critica all'autoantologia di Maria Luisa Spaziani: uno sguardo che, da fuori campo, osserva l'immagine di lei riflessa nello specchio. 
In quel volume lei  offriva la sua personalità poetica, che con ansia aveva modellato, allo sguardo critico, prima che l'uscita del Meridiano si prendesse cura dell'intera sua opera.

 nota critica a Maria Luisa Spaziani – Poesie 1954 –2009, Oscar Mondadori 2011 

Di un'autoantologia il cui titolo riporta solo il nome dell'autrice e l'arco di tempo che copre, quasi per intero a tutt'oggi, la sua intensissima produzione, non è semplice parlare. Molteplici  i riferimenti a fatti e avvenimenti anche politici, di cronaca o sociali (Alle vittime di Mauthausen; Italia '92-'93; Il mostro di Firenze), le esperienze, i toni, le dediche a grandi amici-poeti come Luzi, Montale, Alvaro, Piccolo. Una voce autentica resta tuttavia sempre riconoscibile – in tempi e luoghi distinti, toccando argomenti diversi – con il suo amore per l'intelligenza, i suoi abbandoni lirici e, non contraddittoriamente, con il gusto dell'ironia, della brevitas, dell'aforisma. Occorrerà pertanto, per non sperdersi, cercare un'angolatura da dove gettare luce su questa lunga vita filtrata, e pertanto, in senso etimologico, inventata, dalla poesia.
Mi è parso di trovarla,  questa angolatura,  in una delle poesie dalla raccolta La luna è già alta (2006):
Io amo amare. Tutta la mia vita
brillò di stelle a sfida d'ogni buio.
Furono pianetini, soli ardenti,
meteoriti, lune, astri, comete.

Di sei uomini il nome mi accompagna,
soavi nomi esotici o di casa.
Astronomi famosi: quale gloria
poter dare dei nomi alle stelle.

Occorre da subito notare – l'avevo già sottolineato commentando l'ultimo libro di Spaziani,  All'incrocio delle mediane, che non è incluso in questa raccolta – l'ardire di porre il pronome di prima persona in positio princeps, proprio all'inizio della poesia e del verso, dove forte batte la voce. Poi l'uso del tempo presente a indicare una costante assoluta: l'amore non è sentimento che appartiene a una sola stagione della vita. In quel presente c'è tutta la forza, il coraggio di chi si è sempre fatta trovare pronta a cogliere la gioia là dove l'occasione la porgeva. Maria Luisa Spaziani si osserva: vede, e vorrei dire, "ama", questo tratto ineludibile  della propria personalità.
Quindi,  usando il tempo al passato, il tempo della storia, si volge al ricordo, alla "rassegna", con compiacimento sincero, con altrettanto sincero sorriso. Conta sulle dita delle due mani i nomi degli uomini che ha amato, che, volta a volta, ha scelto come astri a illuminarla. Però, attenzione, talvolta si trattava di minuscole personalità, di pianetini.  E non sfugga che quelle stelle è lei a nominarle, è lei a dare loro importanza e identità.
"Soavi nomi esotici o di casa": certo nella prima categoria il più facile da ricordare è Elèmire Zolla, che fu anche suo marito. Alla dolorosa separazione, a quello strazio che fu vissuto anche, se non soprattutto, come il tradimento di un'amica (Cristina Campo) sono dedicate le terzine di Fuoco dipinto in Utilità della memoria (1966):
La mia vita sarà tabula rasa.
Dove fiorì il roseto di parole
sprofonda un fosso di filo spinato.

Sul male nessun bene è radicato.
E tu hai voluto, o cùcula loquace,
sulle macerie altrui fare la casa.

Una poesia risentita, tutta fondata sui contrasti e sul disvelamento: l'amica che sembrava fiorire in un roseto di parole si è rivelata una cùcula loquace, una ladra di nidi, e il suo bel parlare non suona ormai se non come uno stolto, ripetitivo e subdolo canto. La rima baciata in -ato tra le due terzine, e l'opposizione assoluta tra bene e male, come tra due entità non mediabili, metafisiche, sottolinea solennemente la massima morale in cui si cela, come in un testo sacro, una minacciosa profezia. Maria Luisa Spaziani nel dolore si manifesta forte, anche spietata, non ama i toni assolutori e autoconsolatori. E la memoria la conforta riportandole il ricordo della meravigliosa sottomissione dell'altro alla  potenza dell'amore,  se ricordo / che un bacio ti scuoteva come un pioppo / lungo i lampioni di periferia: è una delle immagini più belle consegnate a questo libro.
Altrettanto intensa, con riferimenti concreti al fisico desiderio, antielegiaca, è l'espressione della propria gioia di amare, alla quale Spaziani ha dedicato in tempi non troppo lontani (2002) un intero libro, La traversata dell'oasi,  di cui in questa antologia, sono riportate circa cinquanta liriche. Una raccolta che – lei stessa ce ne informa nella prefazione – è il suo libro più ricco di edizioni e di riscontri critici e premi. Credo che questo successo corrisponda al grande desiderio del lettore di poesia di sentire pulsare sentimenti e passioni autentiche e di ammirare il coraggio di parlarne con dignità e forza. E qui mi accorgo di aver usato più di una volta il concetto di forza  riferendomi a questa poesia e alla personalità della sua autrice: ma come dire altrimenti una voce che mai dimenticando la sua femminilità, tuttavia la risolve non nella fragilità e nel nascondimento, ma nella sicurezza, nella imponente statura, in precise,  epigrammatiche e aforistiche affermazioni, in rapide metafore, nella contrapposizione netta (tu-io) dei pronomi personali di prima e seconda persona?
C'è davvero"forte"passione in questi versi e quasi il vanto di esibirla:
Dunque subdola miccia è l'amore.
Serpeggia a lungo, è un "sentito dire",
una favola altrui, un improbabile.
Poi raggiunge il castello, e in mille schegge
l'intera vita esplode.
*
Mi avviluppa la tua voce al telefono
come un lenzuolo nuziale di lino.
Mi accarezza dalle orecchie alle caviglie
e lentamente scivolo nel sogno.
[…]
Tu continua a parlare, di qualsiasi cosa,
elenco del telefono, fogli di dizionario,
bollettino del tempo, poema in aramaico.
Intanto (tu continua) io traduco.

Eppure in questa  antologia troviamo anche un poemetto di dolcezza vibrante, pudica, per il quale saremmo tentati dal richiamare certe liriche di Pascoli, o anche di Gozzano, del francese Francis Jammes, se non fosse che qui il linguaggio rimane sempre anche metricamente nitido, mai allusivo, se non fosse, infine, per la sapienza proustiana nel richiamare il preciso ricordo di odori e sapori. Si tratta di Luna Lombarda, incluso nella raccolta Utilità della memoria (1966) di cui l'autrice, sempre nella prefazione, scrive: un piccolo romanzo che non ho mai voluto togliere da rifacimenti e ristrutturazioni successive perché, cosa rara, mi ricorda una violenta felicità misteriosa in quanto priva di una causa precisa. Non è questa una possibile definizione dell'amore: la rarità, la violenta, gratuita e misteriosa felicità che comporta?
L'atmosfera è quella di un collegio della Lombardia, a Treviglio. Ecco ritornare quel sicuro segnale: nell'ultimo verso della quartina quella contrapposizione tu… io, come se il mondo fosse vuoto d'ogni altra presenza:
I letti sapevano di mèliga,
l'acqua il mattino spezzava le mani.
La tavolata immensa come a corte,
tu da un lato, io dall'altro.
*

Non c'è al mondo liquore inebriante
come l'acqua di fonte del collegio.
La si beve in bicchieri spessissimi,
Molto simili a lumi d'altare.

Vi traspare un sentore di mandorla,
di giovinezza, lacrime e genziana,
palpebrando sul fondo in filigrana
del tuo volto la corolla celeste.

La presenza negli oggetti e nei luoghi di un volto e di quello soltanto, parla di un amore romantico, che forse tiene lontano il desiderio sessuale, ma assoluto come ogni altro amore. E si conclude, il racconto in versi – ricco di ariosi dettagli come quelle partite di pallavolo che più volte ritornano – con la partenza della protagonista, che ritaglia l'episodio in un tempo  preciso, mentre prova a racchiudervi un'eco di eternità:
Si sfila il treno dalla pensilina
come sangue che svuoti la vena.
Questo viaggio, lo so, non ha ritorno,
non sei rondine da attendere al nido.
[…]
Esserti a fianco in quell'acerbo volo
d'allodola gaudiosa nella sera!

Altro amore, certo da non conteggiare nel numero dei sei nomi di astri, nome assoluto, che non consente di essere allineato ad altri, è quello della madre, presenza che, con rispetto, tenerezza e infinito rimpianto percorre tutti i libri qui raccolti. Madre associata al pane scuro della guerra, madre che raccoglie il pigolante sparso nido, madre d'antica pazienza, presenza in ogni recesso ancora viva, quando si presenta la necessità di abbondonare, di vendere la casa, il giardino e gli alberi a cui lei dedicava la sua cura (L'ultima notte del Soratte). Non meraviglia che Maria Luisa pensi che la madre amatissima possa essersi reincarnata in quei raggi di luna che, giocosamente,  di notte vengono a battere ai vetri della sua finestra (Accanto ai vetri).

Infine,  nella poesia Testamento che chiude la raccolta,  parole d'amore, musicali parole, ignote anche al Petrarca,  a Maria Luisa Spaziani le sussurra la nostra comune morte. Non quindi francescanamente "sora nostra morte corporale / dalla quale nullo homo vivente può campare", non quindi la sorella di tutti i  viventi, ma di nuovo quel pronome "Io" a inizio di verso (Io e la mia morte), segnale dell'assoluto legame che definisce l'amore,  a evidenziare,  con "l'altra", una complicità senza schermi che porta non solo  a essere compagne di giochi e di letture, ma perfino – mai spenta passione! – senza ribrezzo alcuno,  a carezzare gli stessi uomini.

sabato 6 settembre 2014

Dall'altro paradiso non arrivano cartoline


Lino Angiuli– cartoline dall’aldiquà– ventotto paesie con inserto fotografico di Angelo Saponara – Quorum Italia


Cos’è, ci chiediamo, l’aldiquà? Un paradiso agli antipodi dell’aldilà, un paradiso in terra, cioè il vero paradiso, visto che dell’altro non c’è prova né certezza?
Dall’altro paradiso non arrivano cartoline. Che erano una volta le gentili prove, concrete, cartacee che, da lontano, da questo posto, “io t’ho pensato”. Si sceglievano con cura e, spesso, chi le riceveva le custodiva gelosamente. Non c’era il cellulare, non c’era skype.  “Ti penso” ormai, è più facile dirlo a viva voce, o guardandosi in faccia (telematicamente). 

Ma queste cartoline, spedite da vari piccoli centri del Sud, a chi sono indirizzate? mi viene da pensare che Seclì, Trito, Rotello, Roccaforzata e tutti gli altri paesi per lo più al di sotto delle mille anime, che abitano questo libro, se le siano inviate l’un l’altro, come in un gioco fanciullesco. Un gioco di frammenti di specchi, con sguardi in tralice, come tra fratelli molto simili che ancora non lasciano la casa.

Questo piccolo libro è un omaggio d’amore di Lino a quel sud di cui si sente figlio, in cui si sente anche turista, perché la vita, i libri – mentre lui restava legato a questi luoghi – l’hanno anche trasportato lontano:

Ritornare
con un gruzzolo di soprannomi in tasca
a riaprire il libro delle facce
ognuna un nome ognuna una canzone
girovaga di bocca in bocca
a piedi o su una bicicletta sbucata
dalla penombra degli anni cinquanta
(Saluti da Tornareccio)

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A pochi centimetri dall’occhio
su un filo di memoria intermittente
 il giorno è tondo la notte pure
al centro rimane il punto fermo
della piazza accasata al campanile
trapiantato all’altezza dell’indaco
(Saluti da Loseto)

Il tempo l’ha trasportato lontano da quei paesi. Perché i paesi, come Lino vuole ricordarli, sono quelli della sua infanzia, degli anni cinquanta. E anche le immagini – bellissime immagine dell'obiettivo di Angelo Saponara – il volto serio della donna incorniciato dagli stessi merletti che le sue mani ormai legnose intrecciano a memoria, la porta scrostata, il pescatore con la sua rete, l’uva Italia appoggiata su una sedia impagliata in vendita al prezzo di £ 1000, appartengono tutte a un’estetica ormai muta o che parla una lingua del passato, un lingua di bellezza museale, o di sogno. Sotto queste immagini, anche il lento canto che mi sembra di ascoltare, è musica che viene da lontano, una voce paesana d'altri tempi.
PIERA MATTEI

nella foto: due paesi allo specchio: Castel di Tora, visto da una discesa al lago di Colle di Tora

giovedì 28 agosto 2014

India–Cina–Paesi Occidentali: Parametri economici e capacità d’innovazione di Claudio Marcelli


Tornare in India dopo quasi venticinque anni è stata un’esperienza molto coinvolgente. Molto è cambiato dal gennaio 1989 quando per la prima volta atterravo a Nuova Delhi e mi immergevo in una realtà lontanissima dal mondo in cui vivevo. Un’esperienza di viaggio unica, il “Viaggio” con la lettera maiuscola, nel senso più completo del termine.

Molto è cambiato, ma molto del fascino “antico” dell’India è ancora lì a ricordarci che non basta avere una democrazia per essere un paese moderno e occidentale. Ancora oggi solo il 74% della popolazione indiana è alfabetizzato e questa percentuale scende ulteriormente nelle zone rurali e per le donne. In generale, se confrontiamo i due grandi paesi asiatici, l’aspettativa di vita è più bassa in India che in Cina e anche la condizione della donna in India è sicuramente peggiore. Per non parlare delle grandi infrastrutture, quelle cinesi sono avanti di decenni rispetto a quelle indiane e negli ultimi anni la Cina ha investito (~sette/otto volte di più) e continua a investire molto più dell’India. Numeri che provano a raccontarci come il mondo cambia. 

Ogni giorno, infatti, ascoltiamo, leggiamo, parliamo di statistiche sociali ed economiche. Il presente e il futuro del mondo sono ormai quotidianamente e indissolubilmente legati ai valori economici, alla borsa, allo spread, numeri che provano a sintetizzare quello che succede in un unico network planetario.
Nelle ultime settimane alcune analisi indicano che già quest’anno l’economia cinese supererà gli Stati Uniti in termini di dimensioni. Molti hanno scritto che l’economia Cinese supererà quella degli Stati Uniti dopo il 2020, l’analisi statistica effettuata dall’ICP (International Comparison Program: http://siteresources.worldbank.org/ICPEXT/Resources/ICP_2011.html) nell’ambito di un progetto coordinato dalla Banca Mondiale, ha presentato un’analisi basata sul potere d’acquisto partendo dai dati del 2011 che si riferiscono a 199 stati di tutti i continenti. Questi dati, ottenuti convertendo il prodotto interno lordo di un paese in dollari ai tassi di cambio di mercato, mostrano la parità del potere d’acquisto (PPP) di un paese e sono basati sul Prodotto Interno Lordo (PIL). L’analisi indica chiaramente che l’economia cinese è molto più grande di quanto risulti secondo altri criteri di valutazione. Secondo questa statistica infatti la Cina segue molto da vicino gli Stati Uniti, precedendo l’India (solo decima nel 2005) che ha scavalcato il Giappone (in questa classifica il nostro paese occupa l’undicesima posizione). Sulla base del PIL, l’economia USA nel 2012 valeva oltre sedici milioni di milioni di dollari, circa il doppio di quella della Cina. Con questi numeri l’economia cinese non sarebbe in grado di superare gli Stati Uniti prima di un decennio.

Tuttavia, molti sostengono che il PIL da solo è un parametro fuorviante anche perché non considera le fluttuazioni del cambio e la valuta cinese è sottovalutata così come quella di molte altre economie asiatiche. Poiché in sostanza, il valore del denaro è diverso nei paesi in via di sviluppo e nelle economie occidentali e i costi di molti beni sono molto più alti nel mondo industrializzato. Confrontando il potere d’acquisto è possibile fare valutazioni più realistiche basate sul diverso costo di beni e servizi nei diversi paesi valutando meglio la dimensione delle economie delle nazioni “più povere”.

Rimane comunque aperta una domanda: “per capire e costruire il futuro di una nazione è sufficiente guardare ai parametri economici”? Questo è oggi un problema particolarmente sentito in Europa, ma rimane sicuramente d’interesse “globale”.
A questo proposito è importante ricordare alcune parole di Qian Xuesen (Tsien Hsue-shen), il padre del programma spaziale cinese morto nel 2009. Oltre ad essere un grande scienziato, Qian Xuesen era una personalità riconosciuta da tutto il paese. Durante una visita dell’ex-premier Wen Jiabao che era andato a trovarlo pochi anni prima della sua morte, Qian Xuesen aveva dichiarato: “La Cina manca di originalità e innovazione, e non riesce a produrre talenti. Questo è un grosso problema. http://en.boxun.com/2009/11/14/qian-xuesens-regrets/ "

Lo stato dell’istruzione e la necessità di promuovere la creatività e l’innovazione rimangono in Cina, e purtroppo in molti paesi del mondo, un nodo da affrontare e risolvere. In molte università non s’insegna più a sviluppare il pensiero creativo, ma si formano spesso solo “tecnici”. La formazione di persone creative, “artisti” nei loro campi, è invece una condizione indispensabile per costruire il futuro.
L’arte è una parte fondamentale dell’attività produttiva di una società: aiuta ad ampliare l’immaginazione e a “pensare”. Arte e pensiero sono elementi alla base di un sistema sociale maturo, essenziali al progresso e alla prosperità, anche se difficili da raccontare con le statistiche. Forse anche questo è un esercizio di creatività che alla fine qualcuno saprà risolvere.


Nella foto: Dal paesaggio al modernismo esasperato, “dentro” l’arte al 798 di Pechino