giovedì 11 settembre 2014

Io amo amare – Piera Mattei per Maria Luisa Spaziani



 Riportiamo qui  la nota critica all'autoantologia di Maria Luisa Spaziani: uno sguardo che, da fuori campo, osserva l'immagine di lei riflessa nello specchio. 
In quel volume lei  offriva la sua personalità poetica, che con ansia aveva modellato, allo sguardo critico, prima che l'uscita del Meridiano si prendesse cura dell'intera sua opera.

 nota critica a Maria Luisa Spaziani – Poesie 1954 –2009, Oscar Mondadori 2011 

Di un'autoantologia il cui titolo riporta solo il nome dell'autrice e l'arco di tempo che copre, quasi per intero a tutt'oggi, la sua intensissima produzione, non è semplice parlare. Molteplici  i riferimenti a fatti e avvenimenti anche politici, di cronaca o sociali (Alle vittime di Mauthausen; Italia '92-'93; Il mostro di Firenze), le esperienze, i toni, le dediche a grandi amici-poeti come Luzi, Montale, Alvaro, Piccolo. Una voce autentica resta tuttavia sempre riconoscibile – in tempi e luoghi distinti, toccando argomenti diversi – con il suo amore per l'intelligenza, i suoi abbandoni lirici e, non contraddittoriamente, con il gusto dell'ironia, della brevitas, dell'aforisma. Occorrerà pertanto, per non sperdersi, cercare un'angolatura da dove gettare luce su questa lunga vita filtrata, e pertanto, in senso etimologico, inventata, dalla poesia.
Mi è parso di trovarla,  questa angolatura,  in una delle poesie dalla raccolta La luna è già alta (2006):
Io amo amare. Tutta la mia vita
brillò di stelle a sfida d'ogni buio.
Furono pianetini, soli ardenti,
meteoriti, lune, astri, comete.

Di sei uomini il nome mi accompagna,
soavi nomi esotici o di casa.
Astronomi famosi: quale gloria
poter dare dei nomi alle stelle.

Occorre da subito notare – l'avevo già sottolineato commentando l'ultimo libro di Spaziani,  All'incrocio delle mediane, che non è incluso in questa raccolta – l'ardire di porre il pronome di prima persona in positio princeps, proprio all'inizio della poesia e del verso, dove forte batte la voce. Poi l'uso del tempo presente a indicare una costante assoluta: l'amore non è sentimento che appartiene a una sola stagione della vita. In quel presente c'è tutta la forza, il coraggio di chi si è sempre fatta trovare pronta a cogliere la gioia là dove l'occasione la porgeva. Maria Luisa Spaziani si osserva: vede, e vorrei dire, "ama", questo tratto ineludibile  della propria personalità.
Quindi,  usando il tempo al passato, il tempo della storia, si volge al ricordo, alla "rassegna", con compiacimento sincero, con altrettanto sincero sorriso. Conta sulle dita delle due mani i nomi degli uomini che ha amato, che, volta a volta, ha scelto come astri a illuminarla. Però, attenzione, talvolta si trattava di minuscole personalità, di pianetini.  E non sfugga che quelle stelle è lei a nominarle, è lei a dare loro importanza e identità.
"Soavi nomi esotici o di casa": certo nella prima categoria il più facile da ricordare è Elèmire Zolla, che fu anche suo marito. Alla dolorosa separazione, a quello strazio che fu vissuto anche, se non soprattutto, come il tradimento di un'amica (Cristina Campo) sono dedicate le terzine di Fuoco dipinto in Utilità della memoria (1966):
La mia vita sarà tabula rasa.
Dove fiorì il roseto di parole
sprofonda un fosso di filo spinato.

Sul male nessun bene è radicato.
E tu hai voluto, o cùcula loquace,
sulle macerie altrui fare la casa.

Una poesia risentita, tutta fondata sui contrasti e sul disvelamento: l'amica che sembrava fiorire in un roseto di parole si è rivelata una cùcula loquace, una ladra di nidi, e il suo bel parlare non suona ormai se non come uno stolto, ripetitivo e subdolo canto. La rima baciata in -ato tra le due terzine, e l'opposizione assoluta tra bene e male, come tra due entità non mediabili, metafisiche, sottolinea solennemente la massima morale in cui si cela, come in un testo sacro, una minacciosa profezia. Maria Luisa Spaziani nel dolore si manifesta forte, anche spietata, non ama i toni assolutori e autoconsolatori. E la memoria la conforta riportandole il ricordo della meravigliosa sottomissione dell'altro alla  potenza dell'amore,  se ricordo / che un bacio ti scuoteva come un pioppo / lungo i lampioni di periferia: è una delle immagini più belle consegnate a questo libro.
Altrettanto intensa, con riferimenti concreti al fisico desiderio, antielegiaca, è l'espressione della propria gioia di amare, alla quale Spaziani ha dedicato in tempi non troppo lontani (2002) un intero libro, La traversata dell'oasi,  di cui in questa antologia, sono riportate circa cinquanta liriche. Una raccolta che – lei stessa ce ne informa nella prefazione – è il suo libro più ricco di edizioni e di riscontri critici e premi. Credo che questo successo corrisponda al grande desiderio del lettore di poesia di sentire pulsare sentimenti e passioni autentiche e di ammirare il coraggio di parlarne con dignità e forza. E qui mi accorgo di aver usato più di una volta il concetto di forza  riferendomi a questa poesia e alla personalità della sua autrice: ma come dire altrimenti una voce che mai dimenticando la sua femminilità, tuttavia la risolve non nella fragilità e nel nascondimento, ma nella sicurezza, nella imponente statura, in precise,  epigrammatiche e aforistiche affermazioni, in rapide metafore, nella contrapposizione netta (tu-io) dei pronomi personali di prima e seconda persona?
C'è davvero"forte"passione in questi versi e quasi il vanto di esibirla:
Dunque subdola miccia è l'amore.
Serpeggia a lungo, è un "sentito dire",
una favola altrui, un improbabile.
Poi raggiunge il castello, e in mille schegge
l'intera vita esplode.
*
Mi avviluppa la tua voce al telefono
come un lenzuolo nuziale di lino.
Mi accarezza dalle orecchie alle caviglie
e lentamente scivolo nel sogno.
[…]
Tu continua a parlare, di qualsiasi cosa,
elenco del telefono, fogli di dizionario,
bollettino del tempo, poema in aramaico.
Intanto (tu continua) io traduco.

Eppure in questa  antologia troviamo anche un poemetto di dolcezza vibrante, pudica, per il quale saremmo tentati dal richiamare certe liriche di Pascoli, o anche di Gozzano, del francese Francis Jammes, se non fosse che qui il linguaggio rimane sempre anche metricamente nitido, mai allusivo, se non fosse, infine, per la sapienza proustiana nel richiamare il preciso ricordo di odori e sapori. Si tratta di Luna Lombarda, incluso nella raccolta Utilità della memoria (1966) di cui l'autrice, sempre nella prefazione, scrive: un piccolo romanzo che non ho mai voluto togliere da rifacimenti e ristrutturazioni successive perché, cosa rara, mi ricorda una violenta felicità misteriosa in quanto priva di una causa precisa. Non è questa una possibile definizione dell'amore: la rarità, la violenta, gratuita e misteriosa felicità che comporta?
L'atmosfera è quella di un collegio della Lombardia, a Treviglio. Ecco ritornare quel sicuro segnale: nell'ultimo verso della quartina quella contrapposizione tu… io, come se il mondo fosse vuoto d'ogni altra presenza:
I letti sapevano di mèliga,
l'acqua il mattino spezzava le mani.
La tavolata immensa come a corte,
tu da un lato, io dall'altro.
*

Non c'è al mondo liquore inebriante
come l'acqua di fonte del collegio.
La si beve in bicchieri spessissimi,
Molto simili a lumi d'altare.

Vi traspare un sentore di mandorla,
di giovinezza, lacrime e genziana,
palpebrando sul fondo in filigrana
del tuo volto la corolla celeste.

La presenza negli oggetti e nei luoghi di un volto e di quello soltanto, parla di un amore romantico, che forse tiene lontano il desiderio sessuale, ma assoluto come ogni altro amore. E si conclude, il racconto in versi – ricco di ariosi dettagli come quelle partite di pallavolo che più volte ritornano – con la partenza della protagonista, che ritaglia l'episodio in un tempo  preciso, mentre prova a racchiudervi un'eco di eternità:
Si sfila il treno dalla pensilina
come sangue che svuoti la vena.
Questo viaggio, lo so, non ha ritorno,
non sei rondine da attendere al nido.
[…]
Esserti a fianco in quell'acerbo volo
d'allodola gaudiosa nella sera!

Altro amore, certo da non conteggiare nel numero dei sei nomi di astri, nome assoluto, che non consente di essere allineato ad altri, è quello della madre, presenza che, con rispetto, tenerezza e infinito rimpianto percorre tutti i libri qui raccolti. Madre associata al pane scuro della guerra, madre che raccoglie il pigolante sparso nido, madre d'antica pazienza, presenza in ogni recesso ancora viva, quando si presenta la necessità di abbondonare, di vendere la casa, il giardino e gli alberi a cui lei dedicava la sua cura (L'ultima notte del Soratte). Non meraviglia che Maria Luisa pensi che la madre amatissima possa essersi reincarnata in quei raggi di luna che, giocosamente,  di notte vengono a battere ai vetri della sua finestra (Accanto ai vetri).

Infine,  nella poesia Testamento che chiude la raccolta,  parole d'amore, musicali parole, ignote anche al Petrarca,  a Maria Luisa Spaziani le sussurra la nostra comune morte. Non quindi francescanamente "sora nostra morte corporale / dalla quale nullo homo vivente può campare", non quindi la sorella di tutti i  viventi, ma di nuovo quel pronome "Io" a inizio di verso (Io e la mia morte), segnale dell'assoluto legame che definisce l'amore,  a evidenziare,  con "l'altra", una complicità senza schermi che porta non solo  a essere compagne di giochi e di letture, ma perfino – mai spenta passione! – senza ribrezzo alcuno,  a carezzare gli stessi uomini.

sabato 6 settembre 2014

Dall'altro paradiso non arrivano cartoline


Lino Angiuli– cartoline dall’aldiquà– ventotto paesie con inserto fotografico di Angelo Saponara – Quorum Italia


Cos’è, ci chiediamo, l’aldiquà? Un paradiso agli antipodi dell’aldilà, un paradiso in terra, cioè il vero paradiso, visto che dell’altro non c’è prova né certezza?
Dall’altro paradiso non arrivano cartoline. Che erano una volta le gentili prove, concrete, cartacee che, da lontano, da questo posto, “io t’ho pensato”. Si sceglievano con cura e, spesso, chi le riceveva le custodiva gelosamente. Non c’era il cellulare, non c’era skype.  “Ti penso” ormai, è più facile dirlo a viva voce, o guardandosi in faccia (telematicamente). 

Ma queste cartoline, spedite da vari piccoli centri del Sud, a chi sono indirizzate? mi viene da pensare che Seclì, Trito, Rotello, Roccaforzata e tutti gli altri paesi per lo più al di sotto delle mille anime, che abitano questo libro, se le siano inviate l’un l’altro, come in un gioco fanciullesco. Un gioco di frammenti di specchi, con sguardi in tralice, come tra fratelli molto simili che ancora non lasciano la casa.

Questo piccolo libro è un omaggio d’amore di Lino a quel sud di cui si sente figlio, in cui si sente anche turista, perché la vita, i libri – mentre lui restava legato a questi luoghi – l’hanno anche trasportato lontano:

Ritornare
con un gruzzolo di soprannomi in tasca
a riaprire il libro delle facce
ognuna un nome ognuna una canzone
girovaga di bocca in bocca
a piedi o su una bicicletta sbucata
dalla penombra degli anni cinquanta
(Saluti da Tornareccio)

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A pochi centimetri dall’occhio
su un filo di memoria intermittente
 il giorno è tondo la notte pure
al centro rimane il punto fermo
della piazza accasata al campanile
trapiantato all’altezza dell’indaco
(Saluti da Loseto)

Il tempo l’ha trasportato lontano da quei paesi. Perché i paesi, come Lino vuole ricordarli, sono quelli della sua infanzia, degli anni cinquanta. E anche le immagini – bellissime immagine dell'obiettivo di Angelo Saponara – il volto serio della donna incorniciato dagli stessi merletti che le sue mani ormai legnose intrecciano a memoria, la porta scrostata, il pescatore con la sua rete, l’uva Italia appoggiata su una sedia impagliata in vendita al prezzo di £ 1000, appartengono tutte a un’estetica ormai muta o che parla una lingua del passato, un lingua di bellezza museale, o di sogno. Sotto queste immagini, anche il lento canto che mi sembra di ascoltare, è musica che viene da lontano, una voce paesana d'altri tempi.
PIERA MATTEI

nella foto: due paesi allo specchio: Castel di Tora, visto da una discesa al lago di Colle di Tora