lunedì 22 aprile 2013

Su "Diario Ottuso" di Amelia Rosselli – Parte seconda




Scrivere per imparare a dire

Esaminando quindi dall'inizio i capitoletti, brevi e brevissimi di "Prime prose italiane": i primi due riproducono un'atmosfera di periferia neorealista, i colori della terra, delle case, del cemento sono in bianco e nero, in grigio, come quelli  delle pellicole del tempo, ma un fuoco d'erbe accese ne spezza il numero, la periodicità. Sembra avvertire nel silenzio un'inquietudine la cui espressione è affidata ad aggettivi, degni dell'inferno dantesco, da selva dei suicidi: viali appena inalberati, cespugli torti, case violente. E la luna incomoda, ha le dita prese dal fastidio, è notte, ma intanto la collina sciupa il nodo al sole. Ritmo musicale, endecasillabi che si ritagliano, mentre lo sguardo tenta di definire lo spazio. Infine uno sbarramento, uno squarcio della strada: come nelle  fiabe un divieto di andare oltre:

Non so quale nuovo rigore m'abbia portato a voi, case del terreno nero. La stesura dei campi vi spinge sul limite dei viali appena inalberati. Tra i cespugli torti le case s'innalzano violente. Rompe il numero un fuoco d'erbe accese.
Ha le dita prese dal fastidio la luna, piena la notte, incomoda giù per i balconi nuovi. è tremante il quartiere d'ingiuria. La collina sciupa il nodo del sole.

*
Il ponte è perfettamente bianco e si stende perfetto sul fiume appena mosso. Le costruzioni pallide si rincorrono fino alla sponda. In là varca un ponte grigio.
Oltre lo squarcio della strada non andare, se questo è l'ultimo paesaggio.

Era dunque "l'ultimo paesaggio" e ora Rosselli ci conduce in interni. Dentro una trattoria un oste che sembra ricordare le intriganti figure manzoniane. Lui è pericoloso, sa tutto. In quel "tutto" c'è la disperazione, la persistente manìa di persecuzione di Amelia, che presta a chi non ama e non la ama, alla società fredda e aggressiva, il ruolo di aguzzini. Per contrasto un giovane cameriere che corre per le camomille è un angelo salvatore, anzi il personaggio più nobile, il re d'Italia:

Che strana trattoria possibile che qui sanno tutto? Mi accoglie l'oste grasso pericoloso con occhio sapiente. Era molto tempo sapeva. Mia esistenza dove m'hai buttata!

*
Bellissimo cameriere tu sei il re d'Italia tu che pazientisci e corri per le camomille.

Il quinto capitoletto è dedicato a un'invocazione-deprecazione di Roma, dove amore e risentimento si mescolano. La bellezza e l'eternità del luogo implicando un obbligo di servitù e sudditanza da parte di chi la abita, porta a covare la ribellione, il risentimento. Lei, Roma, è come una donna ancora bella (i tuoi seni bianchi e lustri), una conquistatrice stanca delle sue conquiste: ora siedi, riposi assestata:

Roma città eterna che silenziosamente di notte ti bevi il tuo splendore hai tu nulla da predire. Ti sei fatta principessa e languisci. Nulla ti vieta. Arrotonda pure i tuoi seni bianchi e lustri. Le massaie si sono stancate di portarti le acque piovane. Tu hai succhiato latte di volpe hai rubato hai  saccheggiato e ora siedi riposi assestata.

In questo paragrafo si è inserito il tema dell'acqua, che, come in una partitura musicale si svolge nei due capitoletti successivi con variazioni: dal fiume al mare, all'acqua piovana, all'incontro della corrente con l'immensità equorea. Il paragrafo si apre su una similitudine che nella sua stranezza tuttavia ci riconduce al regno di quanto è umido: L'acqua è una grande rana.
Ma poi l'acqua acquista una valenza etica, caritatevole. Il  fiume è anche un'entità esteticamente affascinante : è lentigginoso, perché una brezza muove il riflesso del sole sulla corrente. Nella sua agilità è una pantera, è feroce, selvaggio e solitario, ma è anche una donna, che dovrebbe prepararsi adeguatamente all'incontro col mare, mentre lungo la sua corrente, presenze invisibili di morti sfiorano e forse attraggono le donne lungo le rive.
Anche al mare compete un'analogia strana, presa dal basso mondo animale: Sei una grande bestia lumaca, e poi ancora altre analogie quasi inafferrabili che si chiudono tuttavia su un'affermazione forte e chiarissima: Sei ... una forte tomba.
Dalla distesa d'acqua all'acqua piovana, cui sono dedicate due o tre righe di grande efficacia, dove la ripetizione e l'assonanza (tu cammini dolente tu cammini dolente e lenta) rendono il senso del malinconico incedere sotto la pioggia leggera.
Nel terzultimo capitoletto compare un colore, il blu della solita Maria, in un contesto barocco,
di cui Rosselli sottolinea la valenza erotica: nudo scandalosamente il Cristo attraente alle bambine. Cristo Jesù legno che non marcisci con lo cuore spinoso, dove viene fatto di chiederci perché quella sostituzione dell'articolo "il" con "lo", ma poi l'orecchio prova a dare la sua risposta: lo cuore
è certamente più spinoso che non il romanticamente abusato "il cuore".
Quindi il paragrafo più breve e più enigmatico, che torna all'assenza di colore:
Erba nera che cresci segno nero tu vivi.
A conclusione ritorna il fiume, il Tevere, il luogo delle sue passeggiate, dei paesaggi e delle impressioni catturati per la poesia. Qui non è più pantera, né più minaccia. È bello come può essere bello un cadavere, tranquillo come il cane che siede sulla sponda (Siedi come un cane), che col il fiume, con la sua pace cadaverica, s'identifica. Torna qui il tono che abbiamo definito infantile, con l'adozione dell'aggettivo "bello"in funzione esclamativa, con l'uso dei diminuitivi (Bello che sei fiumicino cadaverino). Un uso storpiato, giocoso, se non fosse macabra in sé l'idea di un fiume già del tutto morto.

La seconda brevissima raccolta di prose, compresa nella seconda sezione del libretto, Nota, comprende scritti che vanno – sembrerebbe però programmatico – dal primo gennaio '67 al 30 dicembre '68. Così ne scrive Rosselli con riferimento ancora una volta a modi e tempi di scrittura, (a mano o a macchina) aggiungendo stavolta  anche un breve cenno all'accoglienza ricevuta durante le letture:
É prosa difficile, interiore quanto la poesia, ma vorrebbe riflettere, come in uno specchio curvo, il razionale. L'ho letta in pubblico una volta, invece di leggere poesie e l'attenzione era forse maggiore.
Come si deforma il razionale, riflesso in uno specchio curvo? Focalizza la realtà, dilata i tratti, i  contorni? È forse questo il modo più consueto di riflettere, non la realtà, sia chiaro, ma la ragione, che porta avanti la scrittura di Amelia Rosselli?
Di questa raccolta ci colpisce in particolare un paragrafo che afferma la sopraggiunta consapevolezza, la forza della propria volontà: Io decidevo di esprimermi con maestà e furore anche se le parole assumevano a volte un contegno più che irrispettoso. Dove colpisce la forza del verbo, irritualmente preceduto dal pronome di prima persona e quei due complementi di modo, di una forza assoluta. Ma ancora più contraddistingue questa voce, quel far ripiegare tanta violenza nell'ironico contegno "irrispettoso" delle parole. Le parole sono avvertite come strumento ribelle, oppositivo, persino ironico, di quella espressione forte e altera.
Proprio nell'ultima prosa di Nota, quella che porta la data del 30 dicembre 1968, compare, con le due iniziali maiuscole, il nome "Diario Ottuso", che in senso stretto compete all'ultima raccolta del libretto:
Fingendo i benpensanti d'essere così luminosi mi misi a stringere nella mano questo Diario Ottuso.
Tra queste varie prose solo Diario Ottuso è scritto in terza persona, ma soltanto simula una vera narrazione oggettiva. Ritroviamo qui, ancora più esplicita, quella voce, quella sensibilità infantile a cui abbiamo fatto riferimento più avanti. Qui, si racconta di una partenza, di un distacco, non desiderati, compiuti in obbedienza a un ordine. E di quale ordine si tratterà se non dell'ingrato obbligo di diventare adulta, di finirla con l'innocenza, con l'immaturità, verso quella completa assunzione di responsabilità alla quale gli altri, i cosiddetti adulti, ci spingono? Maturità di cui, come nelle tradizionali iniziazioni, occorre dare, e la voce narrante sfida sé stessa a dare, concrete prove:
Ora farò vedere che sono cresciuta fino alla età che avevate voi quando mi avete messa al mondo!
Più avanti un tormentone sul tema della partenza e del partire, del volere e non volere lei stessa o altri che lei partisse. In sette righe, con bravura funambolica che rende l'intima dissociazione, il verbo partire è coniugato in differenti tempi e forme ben tredici volte, senza che una sola volta suoni superfluo:
Partì senza dire a nessuno perché partiva: partiva ed era obbediente agli altri nel partire, essi che preferivano che lei partisse. Partì, e fu come togliersi la giacca, tutta indaffarata nel partire, e pensare: perché sono partita? perché mi hanno fatto partire?
Non so perché sono partita, si disse, e nemmeno voglio sapere perché essi hanno voluto ch'io partissi, si disse, e ora non ho nemmeno voglia di partire, pensò partendo.
Il racconto dello strappo continua: il treno conduce la protagonista in un luogo dove avrebbe finalmente imparato a vivere. Gli incontri, l'amicizia, un giovane forte "fratello" hanno l'opposizione di maestri furbastri, espressione che torna più d'una volta, ancora una volta ingenua, quasi da vocabolario di scolara ribelle.
Ma, tornando al legame forte tra la donna e un uomo:
 L'uomo non fu mai uomo pienamente e l'altra rifiutò di essere donna. L'uno morì, l'altra se ne pentì. [...]Giocò, come tutti, con la  vita, ma non più infantilmente: con graffi sui tavoli degli osti meravigliati del suo improvviso ritorno con faccia angolosa.[...] Fucilò il resto della sua forza; fucilò il fuoco della verità che trapelava di tra le ciglia chiuse dell'infante sbalordita, del mondo ricurvo che voleva mostrarsi quadrato.
Ecco dunque: due volte è pronunciato quel concetto "infantilmente", "infante". Quella creatura che balbetta e che grida la sua inadeguatezza al mondo, che Rosselli sta descrivendo, è lei stessa disperata di aver ormai deciso di fingere l'età adulta. Torna anche l'immagine dello specchio curvo del razionale, sopraffatto dalla minacciosa ottusità di quanto si mostra di misura perfetta, squadrato.
Non mancano nella storia della protagonista di Diario Ottuso, alter ego di Amelia, i momenti luminosi, semplice felicità nella natura, accanto all'amico fratello. I "maestri furbastri", ora che lui non c'è più, consiglierebbero di dimenticare, lei non può e non vuole e si aggira sperduta e chiusa nella sua solitudine.
Era partita, ma vorrebbe fuggire ormai, tornare indietro – rifugiarsi nuovamente nel buio di un utero accogliente? Questo non è possibile, non c'è ritorno :
Nessun ponte ostacolava la sua andata ma il ritorno era frastagliato di disinterrate mine, e molti piccoli ponti grigiastri collassavano nelle rupi bidestre, maldestre, asciutte, tetre.
Qui il cerchio si chiude, il romanzo brevissimo si conclude, non rimane che quell'illuminazione, di apparente rinuncia, quasi di sapienza orientale, quella luce esatta sulla sua "dimensione vitale": il non sapere, il non vedere, il non capire.
Piera Mattei