martedì 14 ottobre 2014

Fuga dal tempo e dall’abbraccio nella poesia di Giancarlo Stoccoro – di Piera Mattei

nota critica a
Giancarlo Stoccoro "Il negozio degli affetti " Gattomerlino edizioni 2014


Non parlerò di “Il negozio degli affetti” come chi incontri per la prima volta questo libro, già stampato, perché infatti sono  –in parte non minima– responsabile della sua struttura.
Eppure, tornando a leggendolo, nella sua compiutezza, ha sentito un’aria di novità, mi è apparso diverso dall’insieme di poesie che tuttavia avevo scelto con Giancarlo, una a una.

 Questa è la magia del libro: diventa altro dalla somma delle sue parti, acquista una sua vitalità nuova, lo affermava anche Paul Valery.

Da questo libro ho quindi visto emergere una trama, anche se ero io stessa già stata testimone della non-programmaticità del racconto. Ho visto infine emergere una biografia, raccontata per flash, per immagini, mentre le pagine aggiungevano poco a poco altri dettagli alla storia, al carattere, al pensiero del loro autore. La sorpresa è stata che alla terza alla quarta lettura quell’immagine che pensavi di avere fissato continuava a muoversi, a mutare, ad articolarsi.

Quindi mi fermo. Chiudo il libro. E mi rendo conto che ciò che rimane più vivido è, insospettabilmente, la sensazione di essere entrati in una storia d’amore, di convivenza, comunque di confronto con una donna, con la donna, un confronto non sereno, spesso amaro, forse conflittuale, senz’altro enigmatico.
Vediamo come questa sensazione ha potuto prendere forma, prendiamo la poesia a pag.15:
Non mi risolvo alla partenza
ancora interrogo il tuo gesto
[...]
non resta che piegarsi al tempo
muovere incessantemente la bocca
come fanno i pesci che non hanno
mai parlato fuori dell’acquario.

In questa poesia il tema dell’incontro-separazione si coniuga con la riflessione sul tempo, direi anzi con la ribellione per l’assoluto scorrere del tempo, ed entrano a fare parte della poesia l’atto del parlare, le parole, con un’immagine tra le più particolari e originali del libro: come fanno i pesci che non hanno / mai parlato fuori dell’acqua. Ora certo i pesci muovono la bocca, ma noi diciamo muto come un pesce: i pesci non parlano. Qui invece l’immagine riproduce l’idea che un acquario sia un po’ come un piccolo universo separato, dove i pesci parlano tra loro e non sono uditi all’esterno. Solo se li togli dall’acquario, il loro parlare diventa un soffocato e veramente muto boccheggiare.
I pesci come oltraggiata immagine di morte sono materia per un’altra similitudine a pag. 24:
Altro sarebbe mutare gli occhi
come fanno i pesci
quando vengono cotti

Certo ci sono probabilità che quella che ci appare come una storia personale, perché raccontata da una sola voce, riassuma invece echi di molte altre storie, forse anche racconti di pazienti. Ricordiamolo: Stoccoro è psichiatra e psicoterapeuta. Data questa precisazione torniamo a rintracciare gli elementi esterni, quelli che non sono riflessioni sullo scorrere del tempo o sull’uso e la forza delle parole– su cui torneremo più avanti– ma particolari che identificano luoghi, situazioni, l’aspetto concreto della vita. E ritroviamo nella poesia a pag.17 il muretto di casa, entità fisica che diventa un elemento di sostegno anche morale, una struttura a cui potere poggiare le spalle.

Ancora a pag.30 un’inquadratura di paese o di periferia cittadina. Si tratta di un sogno e l’atmosfera onirica si concentra su due immagini, bambini in gioco e la durata di un abbraccio: bambini che giocano a palla con un po’ di veleno”... ci siamo abbracciati a lungo in mezzo ai panni stesi nel retro di una casa...
Una storia che trema sempre al bordo del precario, della delusione. Oppure registra la propria volontà di rivolgere uno sguardo crudele, freddo, uno sguardo che sa la fine, mentre l’altra, colei che è guardata, ancora –forse– la ignora o non ne fa motivo di assoluto distacco(pag.50):
io ti osservo tranquillo dalla riva
mi fai cenno più volte di entrare
ma fredda per me è l’acqua

Altre immagini di questa storia (o di queste storie), dove tuttavia il tu cui le parole sono rivolte è sempre una donna, lasciamo al lettore di ritrovarle.
E passiamo, dal racconto, alle riflessioni su quanto è nelle cose, non come materia e immagine, ma come forza invisibile, coordinata imprescindibile: il tempo, il movimento nello spazio o l’immobilità della Terra. Questo ultimo concetto si articola, in particolar modo nelle poesie a pag. 34 e 39:
Importa attendere che la terra giri
e voltandosi dalla tua parte
raggiunga anche te
+++
Se guardo in alto vedo
 il cielo ancora chiaro
 ma la terra non mi segue
 non si alza mai
 forse dovrei starmene
 sdraiato fare come lei

 Ma la terra finge forse persino la sua immobilità apparente? Forse non solo si gira nel cosmo ma potrebbe accadere di vederla salire, rumorosissima, verso l’alto(pag. 67). Vedere il rumore, o per lei, la donna, essere dipinta col suo odore (pag.33): le immagini sinestesiche tornano più di una volta, in queste pagine.
Quanto al tempo, alla sua dimensione implacabile e noiosa, noto la ripetizione del nome “andirivieni” associato a quello di misure del tempo: l’andirivieni di giorni (pag. 17);
l’andirivieni feroce dei compleanni (pag.19). L’aggettivo feroce si associa altra volta a una determinazione di tempo non tutti i giorni sono feroci (pag. 18). Il tempo ha un temperamento persecutorio: A cosa serve la velocità se poi il tempo ci segue in ogni gesto, sbuca fuori dal più piccolo anfratto?
Un altro carattere che contraddistingue più di una poesia è l’esordio su una negazione o su una litote, l’espressione al negativo di un concetto. Alcuni casi rientrano nei versi già citati a cui aggiungo a pag. 26  non tutti i luoghi sanno partire e inoltre, il verso d’apertura della già citata poesia a pagina 50, non è un luogo qualsiasi.  In questo universo concettuale e affettivo non conta solo la negazione, eppure la negazione è molto forte. Una negazione che è talvolta un vivo sottrarsi, prospettando persino ipotesi funeste che diano la possibilità del ricatto affettivo:
Nel caso mi ammalassi
solo dopo aver fatto pace
potrai occuparti ancora di me

Queste parole, per il tono rivendicativo in cui trema un’insicurezza infantile, mi rimandano all’immagine a pag.62:
anche un bambino nato senza padre
porta addosso la sua carne
cammina tra le sue stesse mura

Non avrà tempo per guarire dall’infanzia
mentre le rughe crescono dalle sue mani

Rughe della pelle, pieghe della terra. Anche la terra che nutre le piante è importante in questo libro. Tuttavia anche rispetto a quest’ultima metafora, quella del suolo che dà nutrimento, l’impossibile ipotesi che si affaccia è quella di essere nato diversamente o altrove:
Saremmo stati altro
se solo avessimo potuto
cambiare ghianda cambiare quercia
ma così ci capita di stare al mondo
accanto a un lembo di terra

dove il penultimo verso richiama l’Ungaretti dell’ “Allegria”: “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”. La condizione umana è precaria, casuale, anche se le trincee sono lontane.

Giancarlo Stoccoro dimostra in queste pagine una notevole facilità e felicità di scrittura. Afferra rapidamente le immagini, formula con noncurante rapidità dispettosi concetti. Una scrittura densa da cui possibili molteplici letture fanno emergere rimandi e riferimenti continui all’interno del libro. Si ritagliano un carattere a parte alcune poche immagini e situazioni, che si riferiscono, ci sembra, alla professione di Giancarlo Stoccoro. In questa chiave almeno leggo la bella poesia di rumori (passo pesante... il calpestio e lo scricchiolio) e di silenzi, di sentimenti rappresi e soffocati di pag.72:
Per appostarmi meglio al mondo, alzo di poco la tenda a pacchetto e resto in attesa che anche il mio ospite si sieda.


Sofferenza, la propria e l’altrui sofferenza, pessimismo: forse vale la pena sottolineare che le quattro sezioni del libro portano tutte in esergo una citazione da Paul Celan.  L’ultima pagina della raccolta invece è un semplice congedo che, con altre parole– quelle di Peter Handke–, ridice quella oggettività e novità del libro rispetto ai materiali poetici che lo compongono, a cui ci riferivamo in apertura di queste note: “Ascolta, erano tutte cose mie. E adesso sono nostre”