giovedì 11 febbraio 2016

Tutto cambia? Osservazioni e domande a Roberta Fabbri di Piera Mattei

Roberta Fabbri – Helios, la via dell’Essere – Il ciliegio edizioni 2015

Roma 3 febbraio 2016 
Studio fotografico Alfredo Matacotta Cordella



La ferrea organizzazione della serata ha deciso di collocarmi “in fundo” lì dove si deposita quanto è delizioso. Vorrei essere degna di questa privilegiata collocazione. C’è un solo rischio, che tutto quanto è importante sia stato già detto. Ma forse rimane da evidenziare soprattutto quanto non è nel CUORE del libro, nelle note, negli esergo. Dettagli essenziali li chiamerei con un facile ossimoro

Cominciamo dalla copertina, dal TITOLO:
Helios, la Via dell'Essere
In questo titolo, soprattutto nella parola Essere scritta con la maiuscola, ho forse sentito un eccesso, una forzatura verso l’esoterico. Mi pare d’intuire un intervento dell’editor, che infatti l’autrice mi conferma. Helios, in realtà è una forza naturale più che metafisica. Helios guarisce con le erbe, Helios va a Ovest, come appunto il sole nel suo quotidiano apparente tragitto.

Gli ESERGO
 Ce ne sono due: Il primo è la dedica al figlio che non richiede commenti, si scrive sempre per chi viene dopo di noi, o da noi. Il secondo è una citazione da Dag Hammarshold: “il viaggio più lungo è il viaggio interiore”. Non mi sembra trascurabile che questo personaggio (D.H.) sia morto per un incidente aereo, durante un viaggio diplomatico in Africa e che di lui sia stato trovato, postumo, un diario che parla di un suo cammino verso l’ascesi, la purificazione.

Ancora analizzando informazioni al margine della narrazione. Leggiamo come ultime parole di una

NOTA FINALE che la prima idea del romanzo è nata dall’ascolto della voce di Mercedes Sosa che canta, lei argentina, la canzone scritta da un cileno, Julio Numhauser , TODO   CAMBIA. Il tema forte di questa bellissima canzone non è tanto l’elenco poetico di tutte le cose che cambiano ma la constatazione – tornando, dal mondo intorno, al proprio sé – che conclude quelle strofe: “così come tutto cambia che io cambi non è strano”, cioè l’accettazione del cambiamento che il tempo impone a ogni essere vivente. Infine le ultime strofe di quella canzone introducono l’affermazione che la sola cosa che non cambia è l’amore per la propria terra e forse questo  è quanto Roberta Fabbri intende soprattutto confermare per sé.

Ma tornando all’idea che tutto cambia dovrei chiedere qui all’autrice perché se l’ispirazione viene dall’idea di continuo cambiamento, l’ambientazione è invece decisamente arcaica, come di un mondo in cui il tempo si sia fermato a cento anni fa: non c’è acqua calda nelle case, l’acqua si mette a scaldare sul fuoco, non c’è Tv, ci si appisola davanti al fuoco, non ci sono lavatrici, i panni si lavano ai lavatoi. C’è un grande controllo sociale, c’è pettegolezzo e da nessuna parte compaiono quegli oggetti che effettivamente hanno cambiato anche antropologicamente l’informazione: computers, telefoni mobili...
Il racconto vive qui nel tempo del Mito Paesano? quando si è formato nell’autrice questo mito? Quando poi si è fissato con inchiostro indelebile?

LO STILE
Siamo, direi, più che nei Malvoglia dentro Le Veglie di Neri di Renato Fucini, alias Neri Tanfucio.
Sulla lapide di Fucini si legge che quello scrittore ha elevato alla letteratura la lingua del popolo. Qui direi che il processo è invertito. Si riprende quella lingua del popolo conferendole preziosità, con passione che definirei antiquaria, come si riscopre la bellezza di una vecchia lampada da anni dismessa.  Espressioni come il peschio dell’uscio indicano da un lato la passione per certi suoni, la ripetizione di quei suoni stessi, dall’altra il vezzo di usare termini desueti o consueti solo in un ambito ristretto, come, per citarne alcuni, le parole ciuca, forteto, salcione, la pozza, usata in senso assoluto, e molte altre, per cui la lettura di questo libro richiede anche la frequente apertura di un sofisticato vocabolario.

Tutto resta perciò immoto e insieme todo cambia, perché il cambiamento di cui si parla è interiore. È interiore ma si riflette all’esterno, anche Pinocchio quando smette di essere un burattino con tutte le sue bugie e le sue marachelle, e ha compiuto atti d’amore e di coraggio, diventa, anche esteriormente, un bambino. Cito qui Pinocchio perché l’ho trovato in queste pagine. Certamente per l’autrice è una lettura prediletta, quel testo addirittura compare tra i libri di Alchimia di Polluce.

Abbiamo già accennato alle Veglie di Neri di Fucini al Pinocchio di Collodi, potremmo senz’altro citare anche Cent’anni di solitudine di Garzia Marquez, e qui, dove appunto stile e voce narrante tendono a identificarsi, introduciamo la

VOCE NARRANTE
la voce narrante è maschile, ma non basta, forse per volontà di accentuare l’estraniamento è talvolta persino maschilista, soprattutto quando parla di corpi  femminili sciupati  dalla vita, dagli anni. É, soprattutto nella prima parte la voce di un monellaccio frammista alla crudeltà tipica degli ambienti paesani, delle vecchie comari. Ricorda, soprattutto nel primo capitolo lo stile verghiano dei Malavoglia, cambiando la parlata di Aci Trezza con quella di Poggiosorbi, il Poggio delle Sorbe, frutto aspro per definizione e ormai, anche lui, arcaico, praticamente scomparso. È il paese tutto che racconta che bisbiglia e mai con tono benevolo. Di una fisonomia, di un corpo cattura prima il particolare sgradevole, tipica maniera d’interessarsi agli altri delle piccole comunità chiuse.
Maschio, il protagonista, non ama la madre, che rifila scapaccioni ed ha le mani rosse, invidia la madre all’amico Giovannino, una madre che un giorno prende a spogliarsi sulla pubblica piazza: la madre dell’amico è pazza sì, ma delicata e di carni bianchissime.
Tuttavia, a proposito della madre, attraverso la donna del Lago il protagonista ha una rivelazione, anzi una visione. Rivede la madre bambina, poi il giorno del matrimonio, già incinta e col progetto di fare del figlio una persona se non colta almeno istruita. Vede che la violenza che la madre ha esercitato su di lui, lei l’ha a sua volta subita dalla propria madre. Qui forse è l’unico momento in cui la voce femminile dell’autrice si tradisce: di madre in figlia, si trasmette la catena di un amore equivoco che non conosce tenerezza (pag37).


Nella selva dei personaggi che dal terzo capitolo in poi il racconto dispiega  mi piace segnalare quella del SACERDOTE, personaggio fondamentale della catena della salvezza, che tuttavia è goloso, ha quella invincibile debolezza della gola ed è quella che lo rende un personaggio vero, attraente.

C’è un tragico terremoto in questa storia e ci sono malattie che Helios sa guarire perché Polluce, uno dei due fratelli dei primi incontri gli ha insegnato i segreti delle erbe. Medicina è anche potere, potere di guarire certo, ma di avere attraverso i corpi la resa delle anime. Così Helios conosce Minos Delgado e salverà poi dalla malinconia il figlio di Minos, Veloso.


Il libro è un racconto che si chiude, ad anello. Il protagonista parte dal paese natale, da giovane, e a quel paese torna, da vecchio, avendo compiuto il viaggio, per morire avendo tutto compreso.  Il protagonista – è la sua fortuna – consuma la vita realizzando la vera conoscenza. Questo perciò, nel periodo di cupo pessimismo che stiamo attraversando (e spero che sia appunto una traversata, una via che ci condurrà a momenti migliori) è un libro carico di ottimismo.
(nella foto: Alfredo Matacotta, fotografo)