lunedì 25 ottobre 2010

Tre poesie inedite di Cristina Vidal Sparagana

Cristina Vidal Sparagana,è nata a Roma, il 1 novembre 1957. Laureata in lettere moderne all’Università di Losanna, è stata traduttrice di testi teatrali per la Radio Svizzera Italiana e di romanzi per l’Editore Rizzoli. Nel 1990 si è trasferita in Cile dove ha lavorato come funzionaria presso l’Istituto Italiano di Cultura di Santiago, e docente di letteratura italiana all’Università Cattolica di Valparaíso. In questo periodo ha fondato e diretto la rivista “Appunti Italo-cileni”e ha pubblicato il saggio “Tre poeti italiani: Bertolucci, Gatto, Penna”, (Istituto Italiano di Cultura). Tornata a Roma nel 2000, ha vinto il Premio Montale Inediti nel 2002, cui ha fatto seguito il Premio George Byron nel 2003, e ha cominciato a collaborare con la rivista “Poesia” di Nicola Crocetti per la quale ha realizzato traduzioni di numerosi poeti cileni e latinoamericani, fra cui Gonzalo Rojas, Armando Uribe, Oscar Hahn, e Vicente Garcia Huidobro. Nella primavera del 2006 è uscito presso le Edizioni del Giano, il suo libro di versi “Il demone gentile”, con prefazione di Plinio Perilli. Sue poesie e traduzioni sono state incluse nelle riviste cilene “Pluma y Pincel” e “Caballo de fuego” e nelle italiane “Polimnia”, di Dante Maffia, “La Mosca di Milano” di Gabriela Fantato, “Poesia” di Nicola Crocetti, “Poeti e Poesia” di Elio Pecora, “Testo a fronte”di Franco Buffoni, “Gradiva” (New York) di Luigi Fontanella, “Pagine” di Vincenzo Anania. È dello scorso anno un suo saggio - con relative traduzioni - su Gabriela Mistral, presente nel volume “Con la tua voce” ( “La vita felice”), mentre alcuni estratti del testo teatrale in versi “Drake” sono presenti nell’antologia di Roberto Mussapi “Bona Vox” (Jaka Book, Milano, 2010).



IL FALCO

Il falco non ha nulla
sotto le zampe.
Non un ramo di faggio,
non un arco, non la borsa di un angelo,
neppure
un cavaliere ammutolito, nulla
che sostenga nel vuoto la sua curva.

Il falco è appeso all’occhio di un defunto
come a un chiodo ficcato nella notte.
Ma non ha nulla sotto il corpo, solo
la luna che si sveste nei tre quarti
di uno specchio sul punto di cadere,
il negato, violento sopracciglio,
un dio vuoto, una lacrima, una spilla.

Non esiste
la terra. Il cielo è un sacco
strappato al vento,
un tramonto sbiancato a mezza via,
un silenzio di foglie che s’incrina
su ciò che è stato o non è stato, vibra
come nel ghiaccio.

E non ha nulla, il falco, che lo intinga
nell’inquieto confine della luce,
non un fischio, o una fiaccola o il brucare
di un gregge assente.

Nulla che regga il suo orologio immenso,
il bersaglio crudele dello sguardo,
la profonda sentenza. Solo un chiaro profilo
che si volge
per scomparire oltre la sabbia, solo
il rifiuto dell’anima, la ferma
traccia del tempo.

MARE MORTO

Il mare è morto a fine agosto,
è morto
come un astro staccato
dal suo ramo
o un suggello di plancton,
e le esequie sommergono le rocce.
Funerali profondi, chiazze gialle
su lunghi colli:
simili a cigni tolti al capezzale
le bagnanti galleggiano, ridenti.

(Radar che sembrano fotografare
l’incrociata barriera e le sue leghe,
lunghi tubi che solcano le onde).

La città è un firmamento.
Le stelle sono i pacchi,
i brevi gong dei tacchi a spillo, i lampi
dei semafori usciti dalla fitta
cecità dell’estate.
Le galassie, gli uffici spalancati
a divorare strappi di cappello
e di giornali arrotolati come
cannocchiali di carta.

Ogni gonna
si unisce a una candela.
Ogni amante ha sognato di morire.
Ha sognato che il vuoto più crudele
era un coltello tra le labbra, un bacio
precipitato dal balcone, destinato
a sventolare come una bandiera
tra cicale di porpora.

Messe in piega si drizzano nel mare
appese a colli sconosciuti,
neri, gialli, marrone.
Il mare è morto, eppure
sigarette lo pungono, segnali
di nuova vita svolgono il suo letto
come nastri adesivi, mani grasse
lo posano su un rogo
di sorrisi e di perle, di conchiglie
nate all’ombra del polso.

Le teste non si piegano,
i colli come tubi
hanno smesso di stridere al tramonto
in un piccolo bosco di persone
strette a una tana di civetta. Tutti
porgono il mento all’aglio e al vino.
Tutti
sgorgano a tempo.
Sotto la guancia di un bambino il mare
è morto a fine agosto. Sotto
la caviglia nervosa di una vecchia
troppo remota al fiotto della lana,
che alza lo sguardo verso il cielo come
se cadesse una palla.
Sotto tre gelidi silenzi alti
come bagnini nerboruti. Il mare
si ritrae dal suo sasso.

Sballottato da venti di regalo,
trascinato alla raffica, sepolto
da sua stessa vertigine. Verranno

altre rinascite,
culle piene di paglia,
buoi dalla lingua come cani, nuovi
colpi di zappa.

Verranno sedie fitte nella luna,
pelli rosse di vespe, pelli tese
tra zanzara ed incudine. Da quando
il mare tornerà a gridare
come un ragazzo dei giornali, come
una bocca d’uccello, come un topo
dalla zampa divisa, come un nido
rovesciato dal vischio.


UNA GOCCIA DEL CUORE DEL TOPO

Una goccia del cuore del topo. Una goccia
come cento altre gocce. Buco
ficcato in polvere vermiglia,
sangue, lancio di scheggia,
pioggia lieve
su frazioni di capsula, canzone
svociata in pezzi di campane, lame
dentro la pietra.

Fra stinchi e soffi di rovina, giace
ciò che resta del topo: un occhio nero
come quello di un pugile, una coda
simile al dito di un guerriero, un duro
getto di calce.

Il topo unto nel veleno, il topo
essiccato dall’urlo,
beatificato nella colla, zampa
e demonio, avvolge tutto questo
in minuscolo lutto.

Pure, c’è chi si sporge sulla terra
per vederlo morire, chi stropiccia
la sua crosta di sangue fra le dita.
C’è chi posa la mano sulla tenue
brevità del suo sonno, chi lo addita
tra cipresso e letargo.