domenica 15 agosto 2010

LA CONIUGAZIONE DI AULICO E POPOLARE

Novostilvecchio o della metamorfosi delle pipe, omaggio ai sec. XIII-XVII (Azimut 2009) di Paolo Borzi e Esuli a domicilio (Universitalia 2009) di Daniela Negri: tra queste ultime prove di due autori che da tempo conosco e stimo ho trovato una particolare assonanza, un'affinità non superficiale che ho "sentito" di dovere approfondire, per così dire, in parallelo.
I due autori non fanno, in alcun modo riferimento l'uno all'altro, non si conoscono, non appartengono a una maniera di fare poesia, sono autori eccezionalmente "singolari". Né tanto meno io stessa li avrei posti accanto "a priori", come chi, avendo a disposizione una serie di contenitori precostituiti o formule di recente invenzione, li vada poi a riempire trovando nella sua collocazione la giustificazione a questo o quell'autore. Per me infatti il primato è alla poesia, è lei che interpella la critica. Il critico ha certamente i suoi strumenti, ma la sua dote imprescindibile è, credo, una particolare disponibilità all'ascolto e, solo in seconda istanza, al raffronto, alla comparazione, alla categorizzazione. Anticipando le conclusioni del mio discorso, entrambi, per vie diverse, raggiungono un obbiettivo simile, quello di percorrere luoghi da tempo vietati alla poesia, attraverso antichi canali, che nell'atto della poesia rinnovano per un'estetica attuale.
Entrambi gli autori, mi pare, mostrano di questo una notevole consapevolezza.


Borzi dal quale comincerò a parlare, esibisce già nel titolo un solido progetto letterario. Novostilvecchio è infatti, nel più alto senso, una parodia, o meglio un pastiche, che ritrova, nella sua struttura composita e "non finita" i suoi lontani modelli nelle Silvae di Stazio e poi nel Poliziano. Parodia come memoria irrinunciabile, eco che ritorna naturale e necessariamente contraffatta, eco in parte involontaria, accolta con un sorriso come in posizione di riposo, in situazione di gioco.
Il primo autore la cui voce qui risuona è nientemeno che Dante, se il Prologo in Terra così comincia: Il maggior Vate del sobborgo antico, Gaetano Pollastri, venne a noi come l'uomo che malmischiati sogni e beveraggi affatica. Nonostante il riferimento al vino, ai sogni "malmischiati" per effetto di quello, la parodia non ha per fine qui, il volontario goliardico abbassamento, il dileggio. L'autore dedica la sua opera, (che tripartita è appunto come la Commedia), in omaggio, ai secoli della nostra gloria letteraria, dal Dolce Stile al Barocco. Ciò che distingue questo ripetere il verso dal "fare il verso", dallo sberleffo, è l'immedesimazione dell'autore sia nei classici richiamati che nel pastiche della loro rivisitazione.
L'opera si compone quindi di tre parti. La prima si presenta come un poema breve, che riguarda addirittura la visione di Dio, il dantesco desiderio d'indiarsi e, infine, la delusione dell'esperienza, il silenzio, il nulla che inghiotte. Cantore è Gaetano Pollastri, maestro ottavarolo. E' un ambiente, questo degli improvvisatori in ottava rima – ancora vivo soprattutto tra l'Alto Lazio e la Maremma – che il Borzi frequenta o ha lungamente frequentato. Da loro Borzi riprende quello stile di improvvisazione – una naturale posa, una maniera autentica – per cui quando la rima giusta non soccorre si può candidamente cambiare la finale di un nome, correggendosi poi all'inizio del verso precedente: Ma non considerava un tale imbrolio…/ imbroglio dico, messo in preventivo. / L'interpretare aveva un monopolio.
Il protagonista del viaggio verso una divinità deludente, e in definitiva ingorda, è Gordini. La divinità mostra due volti: quello di un enorme occhio, con penetrazione e seduttività femminile e quello di un disgustoso Calamaro, fritto nell'olio, elemento, che permette di giocare, per assonanza, sul passato felice di un'età dell'olio. Dicevamo che risuona da subito il ritmo contraffatto della terzina dantesca, ma la strofa è invece l'ottava, che permette brevi blocchi narrativi, quello sfiatarsi e riprendere il fiato, proprio della poesia a braccio. Inoltre nel prologo, attribuito, in questo pastiche a "io stesso" ragioniere-reporter del gruppo, toccando di morte e di tomba, si esorbita dall'ambito dei secoli a cui l'omaggio è esplicitamente reso, col riferimento, che torna poi più volte, all'arbore amica foscoliana. Poiché il tema è quello dello Spaventevole avvento del dio Calamaro, c'immergiamo in un mondo in cui un Medioevo indeterminato, si riferisce lo stato monastico del protagonista, e barbarico futurismo alla moda degli inizi di questo millennio, si combinano con gusto pulp. Si canta di un Dio Calamaro, un antidio orrendo e tentacolare che ricorda anche, non so quanto voglia citare, gli Squids di Matrix e le immagini finali della visione nell'ultimo film della serie, di una potenza somma, appunto simile a uno spaventoso tentacolato. Il Dante borziano, il Gordini, scoperto questo aspetto opposto e complementare della divinità non vorrebbe certo più "indiarsi", ma la divinità positiva, Monocol, nel suo grande occhio amorosamente lo ingloba simile a Donna…in fronte a fiero sposo […]/E il ciglio allor fu sopra a lui richiuso. Nell'epilogo del breve poema in cinque cantari tutti i discepoli del cantore Pollastri ne commentano il senso letterale, morale e psicologico (cosa avrà voluto dire il Pollastri?)

Se in questa prima parte, e ne fanno testimonio i commenti degli allievi, l'essenza stessa del femminile è vista come divina predazione, nella seconda sezione al femminile è veramente reso un omaggio poetico, degno della grande e antica tradizione della poesia d'amore: Canto il tuo seno e canto l'amarezza per impazzire se ne resto privo; e il fremito che i glutei le accarezza. E d'anima e di pelle quella tinta lodo, sì bianca, che mia vita ha vinta […] Una ternaria pena d'amor mi squassa e non arretra: di vuoto e fuoco e ghiaccio in parte varia. Impugno questa penna ed essa immetra canti, lanciati a un vuoto più lontano: lapilli d'uomo e versi di vulcano! Bellissimi endecasillabi, tutto cantati sul ritmo, come talvolta ama fare "il Borzi", senza necessità di "a capo". Ma ecco l'estasi s'attenua e la donna mostra, anche lei come la divinità, la sua duplice natura: Porta del Cielo e buca per l'averno, madre di Vita Nuova e anche matrigna nel rischio d'ammattirsi per l'eterno

Siamo in Urbe e altro tema centrale alla narrazione, oltre il contrasto tra il rapimento per una nuova Beatrice e la tentazione di ritornare a una più nota e terrena, meno angelicata, Mirella, è la triste attesa della morte del genitore. Di seguito sono anche protagonisti: una sintetica enciclopedia filosofica, di uso scolastico, La "storia della filosofia" del famigerato "Gnoccacci", quindi il sor Pippa, un artigiano di pipe e sua moglie Peppa, un oste. Lo "spirare" del Congiunto si confonde con l'ispirazione di una dolcissima poesia augurale che altrettanto bene può essere dedicata sia al padre morto che alla compagniuccia del primo bacio, che lontana sapevo e infelice per nozze malandate e incipiente e grave depressione. Dolore e amore nello sfondo di una spiaggia novembrina e dei giardinetti del nosocomio.
L'omaggio giocoso alla letteratura dal Dolce Stile, passando per le Rime a Forese Donati, la Commedia, Poliziano e Pulci, arriva all'esaltazione barocca degli oggetti, non come espansione dell'io, non come segnali psichici, ma nella loro misteriosa pluralità, apertura alla metafora, alla fantasia, in un gioco di fuochi d'artificio: e qui diventa protagonista la pipa. Oggetto della parodia, sempre nel senso di qualcosa che profondamente appartiene al mondo dell'autore, sono anche i rudimenti filosofici classici, il dibattito sul tema di Universali. Un trattatello in prosa rimata e rime, che passando attraverso un seicentesco gioco delle metafore, una Fenomenologia del Pipare che descrive gli infiniti usi e connotazioni della pipa, cerca d'estrarne infine l'Universale forma.
La terza parte del poema s'intitola Gli Arconti invisibili di Zebràs e canta di eventi avvenuti in un lontano mitico passato: 9746 a. C., in Atlantide. Zebràs è, come dice una didascalia, la più ripugnante delle città-stato atlantidee

Qui la voce del poeta, che riparte con le ottave del tradizionale poema eroicomico, torna a mescolare la sua fantasia con le suggestioni di una Città del Sole all'inverso e immagini che la letteratura fantascientifica e il cinema ha impresso nella memoria. Ascolto echi di Dune di Frank Herbert celebre romanzo di fantascienza ridotto per lo schermo del cinema e della televisione, mi pare di udire echi dei vizi dei sanguinari Harkonnen, del ripugnante Barone, nel macabro nutrirsi di sangue e feci. La carica di Arconti richiama gli arconti della tradizione gnostica, che sottomettono gli uomini in uno stato di servitù, cui pure si fa riferimento nella popolare serie di Matrix. In Zebràs gli umani sono asserviti e piegati, educati a non provare piacere da cibo, da sesso o da qualunque altra attività e costretti a riprodursi solo meccanicamente. L'eroe di questo racconto, Novello Porcari, ha la speranza di tornare a provare gusto e passione quando incontra Ninetta. Fuggono insieme su una cinquecento. Ma poi l'eroe si trova nuovamente abbandonato e repentinamente ricatapultato nel secolo ventesimo, così come repentinamente il racconto si conclude.

Nonostante i nomi popolareschi dei cantori e dei personaggi cantati, già presenti alcuni nel precedente romanzo comico–epico le Sciamanicomiche, siamo nell'ambito di una ricerca stilistica appassionata. Il gusto per le ottave dei poemi cavallereschi e eroicomici contaminò negli anni Settanta gli scrittori più raffinati o d'avanguardia come Manganelli, Sanguineti, Calvino. Di Sanguineti molti ricordano la riduzione per il teatro di Ronconi dell'Orlando Furioso, di Manganelli vorrei citare una lettura e spiegazione del Morgante del Pulci per la radio, di recente ripubblicata dalle Edizioni Socrates, infine è inutile addirittura ricordare Calvino, citato indirettamente per l'assonanza tra il titolo Le cosmicomiche e quello del già menzionato romanzo di Paolo Borzi.
Poesia quella di Borzi, che appartiene meno alla letteratura del riso che a quella del paradosso, in chiave appunto Morgantesca. Di cibo, come nei poemi eroicomici e nella letteratura comica in generale, si parla anche qui con esagerazione. Olio e vino, primeggiano come forze della natura, liquido in cui galleggia l'Essere, il primo, fonte d'energia creativa, il secondo. La lirica, in questo universo s'inserisce come cammeo, pregiato elogio della donna. Ogni riferimento alla vita personale dell'autore, anche quando è presente, come nella morte del Congiunto, è allontanato col sorriso verso un universo di cantastorie e mito. Borzi, per l'originalità con cui rivisita la tradizione nello stile dei cantori in ottava rima, contaminandoli con i miti dell'oggi, finisce per collocarsi nella letteratura italiana attuale, contro lo stanco riprodursi degli schemi lirici novecenteschi, come un autorevole ousider.


Outsider, alla lettera e con orgoglio, si vuole Daniela Negri: Dai vicini, all'oscuro del nostro esilio a domicilio / le è stato detto: vendi e te ne fuggi via. Ringrazio del consiglio e faccio come voglio / io che assaggio del bene e del male il frutto. In ogni pagina di questo libro, che è di poche pagine solo perché è densissimo di una stampa minuta, l'autrice si ribadisce abitante e proprietaria di casa e orti presso Malaporta, cioè in una zona ancora salva dalla urbanizzazione, alle porte dell'Urbe. Un piccolo libro premiato da una rispettosa Presentazione di Carlo Bordini e dal riconoscimento della rivista di poesia Lìnfera, dal titolo, appunto, Esuli a domicilio.
Da questo titolo siamo subito avvisati che, a differenza dall'altro libro, siamo al cospetto di una scrittura lontana dal gioco letterario, animata invece da profonda emotività e dalla contraddizione, non solo accettata, ma senz'altro scelta. L'esergo dedica la fatica poetica ai membri della famiglia: a nonna Filo, la fata / a nonno Pasqua, contadino suo consorte / alla zia Francesca, che non ho conosciuto / a nonno Sebio, l'emigrante / a Tonino, scomparso / a mio Padre, il sognatore.
Queste dunque saranno le figure positive a cui si farà riferimento, gli ispiratori, i lari. Figure tramutate, come dice la connotazione che ciascuno porta accanto al nome, in creature della personale mitologia della Negri. La dedica successiva è invece rivolta al lettore ideale: per quelli che perseguono la virtù, / da leggere lentamente al lume degli altari / come fanno le streghe.
Ci troviamo quindi di fronte a una poesia che ha certamente in sé la propria giustificazione, ma che fa parte, o è la modalità, di un progetto che va oltre. E' stata pronunciata la parola ormai da tempo impronunciabile: virtù. E di una lettura lenta certo questo libro ha bisogno, perché, sebbene si srotoli con foga e maestria, seguire tutte le implicazioni, etiche, politiche, polemiche e mistiche del discorso non si rivela impresa facile.
I primi inni sono composti in terzine, metro che la nostra tradizione ha adottato per il discorso di lungo respiro, narrativo essenzialmente. Ma questi non sono endecasillabi, come nella misura classica. Sono versetti lunghi che ricordano il ritmo delle traduzioni bibliche e l'uso che di quella versificazione ha fatto un poeta–profeta come Walt Withman. Un richiamo, non so quanto consapevole, al cantore dell'energia umana è il poemetto "Alle aquile", anche se rispetto alla visione folgorante dell'accoppiarsi dei regali uccelli in volo del poeta americano, qui il viaggio delle aquile è inizio enfatico di un discorso che termina accusando e condannando con violenza le religioni (il papa), per rivendicare, argomento anche questo withmaniano, la sola potestà della Natura : Oh Natura, Natura, tu sola puoi rassegnarci alla sfida, la pace! // Crudelissima tu, Natura, ci fai vendetta e ci riappari ai lari
Credo non ci possano essere dubbi che ci troviamo davanti a una poesia di tipo profetico, interpretazione confermata dal consiglio di leggerla al lume degli altari, e non si tratta certo degli altari delle religioni tradizionali.
Così posti sull'avviso, apriamo La Costituzione, prima parte di Romitorio. Ci rendiamo conto di essere in piena sensibilità tragico-pulp con sfumature grottesche. Nella casa di pelle e tendini tesi e sangue / versato nelle ore del riposo di quelli dai quali corpi / è stata fatta in carne e ossa Bruna, la pupa ora // tutta in similpelle. La lingua è un arcaicizzante postmoderno, pieno di colori e oggetti, di passione e di distinguo. Con la forza che deriva da una consapevolezza: il microcosmo che racconta nei minimi dettagli – e pare di vederlo – è il mondo. Profetismo dicevamo, nel senso di un linguaggio impregnato di sdegno, che, come ogni messaggio profetico, ha direzioni diverse d'indirizzo, livelli molteplici di comprensione. Notiamo da subito l'uso abbondante delle preposizioni relative, così come, vedremo, di congiuntivi e condizionali, in periodi che spesso si avvolgono per più terzine. Inoltre ci troviamo all'interno di un idioletto per cui occorre essere edotti del significato inequivocabile di determinate parole, e difatti un essenziale vocabolario e apparato di note ci soccorre nelle pagine finali del libro.
…Non come certe donne / di società mondana, e senza tetto e senz'arte altra // che fare del pinco legamento ai ruderi del grembo,
leggiamo un paio di terzine dopo. "Pinco", ad esempio, sta per l'organo sessuale maschile, ma direi non in sé, piuttosto nella sua relazione all'uso strumentale che certe donne ne farebbero per motivi di promozione sociale o convenienza economica. "Legamento ai ruderi del grembo" è espressione dura, spregiativa che rimanda allo squallore, alla paura dell'abbandono, del decadimento. Ma più avanti con ardito riferimento alla politica :
… E' concesso e necessario alla stato di merde secche che scrivo / – dove gl'intellettuali s'arruotano ai Palazzi, dove le troie / sono intente a abbuffare i nuovi arrivati e saltare su la carrozza // in corsa al parlamento […] che qualcuno detto artista s'inventi una via règia / per l'arte che persegue, dove non sono ammesse le ruffiane / né gl'intelletuali in vendita, dove sia // l'unica sua famiglia utile al gaudio del cuore, la poesia.
Ho voluto proporre questa lunga citazione (tagliandone via un' incisa dove strali aguzzi erano rivolti senza mezzi termini anche al "piddì" e al sindaco) per sottolineare il trapasso dalla furia dell'invettiva alla dolcezza, "gaudio del cuore", della poesia che crea "versi e narrazioni e fatti", lingua d'armi ch'è dei miei versi e per la quale via regale io lavoro / notte e giorno presso le torri e nel giardino sotto vento e piogge. Sembra ascoltare nel contrasto tra la rusticità del luogo e la regalità o dignità del ruolo, l'eco lontana di un Machiavelli in esilio. Qui c'è già molto di quanto è necessario al bagaglio autocritico: consapevolezza e materia del proprio poetare. Una poesia dunque, anche questa di narrazioni e fatti, ma lontano è il gioco, questa è una "lingua d'armi" e molte sono le ingiustizie contro cui combatte, pochi, anzi pochissimi e eletti gli ospiti e gli amici del cuore, i simili. A parte, con grande risalto sui loro altari, i lari della dedica, gli antenati circonfusi di aureole di rispetto e amore.
Alla rabbia contro quanto è sentito negativo, ripulsivo, s'oppone l'amore per il luogo, i suoi orti. Luogo amato di amore geloso, esposto alle incursioni di ospiti, che s'impongono con versi non graditi e si fanno la spesa all'orto, con scarso rispetto per la fatica che costa crescerlo: fatta di bestemmie e di sudore a pane e a acqua la casa. In quel luogo, MalaPorta o Le Torri che si chiami, l'ospitalità è sacra se si annuncia il generoso ospite regale: da ospitato sa scambiare le parti e / ora dopo ora si adopera a ospitare e / insieme all'ospite re spazza con la ramazza di zeppi, // Lava, ripara e stira, impara, vanga negli orti sarchia e stima / di gioie e di letizia la casa, la fa ricca. Orto tanto amato, da cui tuttavia la madre la caccia: …scacciandola dalla scena dell'orto che io adoro //[…] Va' a scrivere una poesia… Dove c'è un'affettuosa implicita svalutazione della poesia da parte di chi sa curare la terra, non solo perché è la madre, ma perché è più sapiente giardiniera.
"Costituzione", è chiaro, è la legge delle leggi che vale solo per i "pazienti dell'arte", che vivono in libertà monastica, da sé facendo da sé decidendo. Il luogo dove la Costituzione si applica si compone di una casa e di un orto, ma fa parte di un Vico.
Il capitolo che porta questo nome, si apre su una descrizione della popolazione che lo abita dove l'umorismo sottile si mescola al giudizio morale con tono inconsuetamente lieve. Chi scrive fa parte del gruppo "monaci della Torri", ci sono poi gli slavi, le reginette di gran vita, ma soprattutto delle incorruttibili vecchie che con pioggia sole o neve spazzano e ripuliscono gli spazi comuni per gettare segretamente tutto, foglie e feci di cani, in un giardino privato.
Nella casa invece si svolgono i Colloqui con il padre, lui muto perché / lui non può rispondere, perduto il pedale di Broca, // ma ci capiamo con gli occhi il cenno le mani. Il padre pensa che forse tutto sarebbe diverso se lei avesse un figlio. Il tema del figlio e del procreare è uno dei perni tematici di questa poesia. Figli non se ne possono avere e sola / una generazione è troppo poco per me che sono in forma di anni assai. E poi i figli sono per sé, le loro qualità non appartengono al genitore : …Invece qui voglio tanto da me, / me bella me buona, me figlia madre donna amante poeta e dell'orto curatrice ubbidiente di Lei.

Mi accorgo di procedere per commenti puntuali a brevi citazioni: in questo libro densissimo lo stile è essenziale. Grottesco e solenne, procede con grande sicurezza su tematiche a cui chi scrive è appassionatamente legata: il chiodo che si conficca nella coscia lasciando un segno indelebile, quasi un tatuaggio alla moda, quando lei cade in una fossa durante il solitario lavoro nei campi, il sudore e l'emozione di scavare un pozzo per l'acqua: Questa terra sa di me io di lei, modulate cose al carbonio. L'amore per la Natura, vera divinità al di fuori delle religioni, porta con sé l'amore per essenziali concetti scientifici, che rendono la verità della sostanziale unità di tutte le cose. Ma la terra non è solo in senso stretto il fondamento, non costruisce solo le fondamenta della poesia, è anche proprietà, appassionatamente rivendicata con una sottolineatura del possessivo di prima persona, così forte e rabbioso da ricordare un'analoga foga di S. Pietro nel Paradiso dantesco. Spavalda è ancora l'energia con cui proclama suo lo spazio delle Porcilaie, che danno vita al poemetto omonimo, dove si gioca di paranomasia, con uno scambio di consonante tra porci e proci, coloro che siedono e banchettano insieme pronti a tradire, ad appropriarsi indebitamente.

Poiché infine siamo partiti dall'aver sentito un'affinità tra questi due libri, ecco un argomento su cui Paolo Borzi e Daniela Negri hanno forti parole: quello della riproduzione. In Borzi si parte dal presupposto di parlare di un mondo lontano nel tempo ma certo la riproduzione in Zebràs, per legge, deve avvenire senza amore. Daniela Negri in Il punto di utopia chiede a sua volta che la funzione riproduttiva sia considerata arte sacrissima e che professare la genitrice sia uno / di questi piaceri stipendiato / e poi sia legge di stato / la cessione dei nati in soprannumero. Dove è chiaro che la Costituzione, non ambisce a restare solo legge nel Vico, ma avrebbe proposte – utopie – da proporre a tutta questa penisola assediata.
La tendenza profetica, quindi iussiva, quindi legiferante di questa opera si rende definitivamente esplicita nell'ultimo capitolo del libro intitolato appunto Dodecalogo dove in dodici articoli si struttura lo statuto della poesia. Così suona l'articolo III: I poeti lasciano al pubblico i versi, Come l'esseoesse un naufrago in mare. Ma infine si conclude con la legge, la XII, che dichiara il primato della vita: Le più grandi poesie di tutti i Poeti di ogni terra e di ogni tempo non valgono la vita di uno solo.

Credo, con questi excursus necessariamente rapidi sulla materia assai complessa di questi due libri, di aver dato l'idea di quale selva di pensieri, parole, in quale azzardato miscuglio di arcaico e attuale, alto e bassissimo ci troviamo trasportati: si tratta di poesia antilirica e antirealistica, o a volte di un lirismo e di un realismo completamente rivisitati con una fantasia che, letteralmente, non conosce confini, con voce che non conosce divieti. In entrambi gli autori la forma arcaicizzante accusa l'inadeguatezza della lingua attuale a dire quanto è necessario con la dovuta forza. Il metro svolge la narrazione, i fatti, scaglia le accuse, sussurra le poche intense gioie con un'immediatezza che trae vantaggio, più che non impaccio, da un linguaggio sintatticamente strutturato e sonoro, come si crederebbe impossibile ormai esprimersi. Invece questi due autori rappresentano, mi pare, la prova che si può coniugare aulico e popolare, all'interno della lingua italiana, trovando in essa la forza di dire, in poesia, quanto non sarebbe poetico secondo i canoni tradizionali, ma utilizzando proprio la forza della tradizione. Mengaldo, alcuni decenni fa lamentava assente nella nostra letteratura contemporanea, il coraggio di unire i due registri, con la conseguenza di una dispersione nelle prove dei dialetti. Borzi e Negri mostrano quanta forza rimanga da snidare nella nostra lingua, azzerando o quasi nella loro lingua poematica, la lingua dei poeti contemporanei, quindi proponendosi – o inventandosi ?– culturalmente e socialmente come outsider. Chiarisco il significato del termine che, credo, li definisca, perché non sfuggirà al lettore che il libro di Borzi ha una prefazione e una postfazione di noti critici, che a Daniela Negri non manca certo – dagli amici che la vanno a trovare – della critica giusta per lei. Outsider significa qui scelta volontaria e irrinunciabile di luoghi periferici, di temi e toni al di fuori del linguaggio medio – anche della poesia – senza per questo ricadere nella maniera dell'avanguardia, nella parola che vuole essere pronunciata ma non intende dire, portando invece avanti un racconto, descrivendo mondi complessi, veri e fantastici. Essere "fuori" significa cantare – per Paolo Borzi con la voce del Vate del sobborgo antico, per Daniela Negri dal Vico fuori porta, dalla Laga dei querceti – la disperazione per la decadenza del mondo, i progetti di salvezza, la disperata fiducia nella forza della poesia.
Piera Mattei


Apparso sulla rivista di poesia internazionale "pagine"n.61, anno XX

Fabriela Fantato – Codice terrestre – La vita felice 2008

Milo De Angelis nella sua precisa e attenta introduzione definisce questo ultimo complesso libro di Gabriela Fantato come il libro "del destino e della maturità". Si compone infatti di una serie di poemetti che, in stile omogeneo, toccano le originali tematiche, sostanziali a questa poesia.
Proprio per il suo carattere di libro della maturità, tornano qui, non come miti, ma concretamente come radici, molte figure e voci dell'infanzia.
Chi dice che i ricordi dell'infanzia siano luminosi? In queste poesie il sostantivo infanzia è abbinato a due aggettivi deprivativi: infanzia "orfana" (La forma della vita) e infanzia "rubata" (Città in sotterranea). E, ancora, l'infanzia non sarà accolta e amorevolmente compresa ma severamente "giudicata". In questo libro l'età prima sembra una stagione della vita legata all'imposizione di "saltare", sentito non come gioioso rimbalzo di un agile corpo, ma come sfida che non si vuole o non si può accettare, un salto mai imparato. Il rimando è a lezioni di ginnastica quando il corpo s'impuntava, saldamente a terra, se si trattava di superare a comando l'ostacolo, nel salto alla cavallina, mentre il piede invece scivolava via se doveva tenersi in riga, sull'asse d'equilibrio.
Una durezza, una disciplina dalla quale adesso la poesia celebra il riscatto, perché adesso è la poetessa a imporre a se stessa e alla sua scrittura le regole di un codice, che ritorna, con i suoi modi, a quelle origini, senza tradirle, legato alla terra, codice terrestre, come si definisce.

Fin dal primo poemetto Una geometria, forse compare una natura in fiore con piante selvatiche o spontanee: viole, papaveri, edera, corbezzoli. Ma non emerge un mondo multicolore per la prevalenza ossessiva del bianco e del rosso, con graffiature di un terzo colore-non colore, il nero. Ho scritto di questo libro, altrove, come di una bicromia in bianco e rosso, una sanguigna dove il bianco è la figura in luce, il rosso segna le zone d'ombra. Mille sfumature di significato assume in questo libro quel bianco che tutto lo attraversa.
Un'incisione, dunque, a puntasecca. Tagliare, incidere, scavare col bulino, col coltello. Quest'ultimo lo troviamo anche in cucina, sulla tavola apparecchiata, suo luogo naturale, ma tradisce la sua natura di arma, che può produrre la ferita, far scorrere il rosso sangue. Tradisce la sua natura di simbolo e metafora di rapporti umani taglienti. Ma coltello è anche, come abbiamo sopra notato, strumento che ritaglia, definisce, incide, segna la nettezza dei contorni. Questo album in bicromia rimane sombre perché la vita che descrive è segnata dalla forte consapevolezza del processo lineare del vivere. Di questa ineluttabile direzionalità sono l'immagine – in più luoghi – le formiche come linea che si getta in un nero buco del terreno (pag. 58)

Sappiamo che la poesia di Gabriela si è sposata più volte alla musica, non conosciamo che tipo di musica, immaginiamo percussioni e fiati, suoni delle gamme estreme della scala, per un verso che è tutt'altro che cantabile. Sono rime scabre, e non uso l'aggettivo a caso. Verbi e aggettivi (come"sghembo") sono scelti con preferenza sui loro sinonimi per una certa predilezione per l'esse impura iniziale: scordare a preferenza di dimenticare, scorrere, (dove quell'esse impura in inizio della parola ha sicuramente un valore onomatopeico), scivolare (scivoliamo nel passo sulla trave, / come alle elementari), slabbrare (anche la città si slabbra), stagliarsi, spezzare, spaccare, dove sulla doppia consonante iniziale la voce fa forza a rendere lo sforzo dell'azione che designa.
Sono rime petrose, dove l'emozione è sempre trattenuta e sempre poggia sulla corporeità, di preferenza facendo riferimento a parti del corpo dove, sotto la pelle, l'osso sia visibile, parti del corpo aguzze, come, zigomo, gomito, spalle. Queste ultime in particolare sono sentite come la parte del corpo dalla quale si è indifesi, dove si può essere attaccati.

E' come se, dato un caos emozionale, la necessità di fare ordine, diventi obbligo di creare geometrie – sebbene si tratti di geometria del dolore (pag. 50) – geografie, carte dai confini determinati, consultabili.
Nel poemetto sul tema dell'eros Un bacio dopo l'ultimo trovo molto indicativo che l'esergo sia ripreso da Guillelma di Rosers, una trobairitz del XII secolo che firma, nella parte femminile, un partimen, una tenzone sul tema dell'etica amorosa, con Lanfranco Cigala, dove la donna esprime un ideale intransigente della fedeltà e della dedizione del cavaliere. Quello di Guillelma è tuttavia un "trobar leu", una lingua che scorre facile e diretta a ciò che, imperiosamente, vuole affermare, mentre direi che lo stile di Gabriela sia più prossimo a un "trobar clus", d'interpretazione difficile e con riferimenti che solo il destinatario afferra completamente. L'eros (pag. 34) non è pacificatorio, l'immagine è una sorta di continuo incontro-scontro.
Mentre la memoria è sempre presente, per rapide accensioni e rimandi, raramente Gabriela si abbandona all'onda del ricordo. Per disporre sulla pagina frammenti narrativi la memoria preferisce compiere un salto di generazione, alla giovinezza non sua ma di sua madre, alla giovinezza di uno zio mai conosciuto ma di cui la madre le consegna la responsabilità della somiglianza, un'eredità della specie: Tu gli somigli è il conferimento di un privilegio e un'imposizione (Per un Addio).
Segnale dei luoghi della madre è, a pag. 12 e a pag. 60, la pianta del gelso, sono le rane del galleratese.
Luogo del padre è in vece il delta del Po, a cui Gabriela ha dedicato altre poesie, il fiume, simbolo forte di ciò che corre a gettarsi lì dove si annulla, come ogni forma di vita.
L'acqua e la città: Milano e i suoi navigli, l'acqua là sotto sembra volere esplodere (pag. 67). Milano può essere pertanto simile alla donna che (pag. 35) contiene fiumi in piena. E' la città teatro del vivere quotidiano, microcosmo dal quale si può ascoltare il racconto della vicenda universale.

La poesia che chiude il libro (A pochi) compendia i diversi temi a cui ho fatto qui, brevemente, riferimento. Tornano il bianco ostinato, la strada rossa. In particolare il tema del taglio, dell'incisione a puntasecca. Solo nel taglio esatto /a volte riposo, sono le parole conclusive del libro, una sorta di sintesi della poetica di Gabriela Fantato, ma anche asserzione di forte valenza esistenziale.

Piera Mattei


Apparso sulla rivista di poesia internazionale "pagine" n.61 anno XX