La consistenza ontologica dell’io
Valerio Magrelli – Sangue amaro – Einaudi 2014
C’è sempre grande attesa
intorno a un nuovo libro di Magrelli, grande aspettativa.
L’ impressione alla prima
lettura è che questa raccolta voglia lasciarci con più sete, che già dal titolo
non ci permetta di presagire, né tanto meno ci prometta, una simpatetica
rispondenza, che veramente, anche per Valerio Magrelli, come per Sanguineti,
l’amata Poesia sia metà cultura, metà
idiosincrasia, per citare il verso che lui, riferendolo credo anche a se
stesso, dedica al poeta ligure.
Magrelli ha però la sua
inconfondibile cifra: leggibilità, asciuttezza e compostezza, gioco letterario
intelligente e ironico ma anche, nel più grande pudore, un’assoluta sincerità, “un
cuore messo a nudo”.
Il Sangue amaro
è anche il titolo dell’ultima sezione del libro, quindi apriamolo da lì, sulla
poesia omonima, che formalmente si presenta come la parodia della pubblicità di
un amaro, che si tiene quindi tutta sul paradosso e l’ironia:
C’è chi fa il pane.
Io faccio il Sangue Amaro.
C’è chi fa i profilati d’alluminio.
Io faccio il Sangue Amaro.
C’è chi fa progetti per lo sviluppo aziendale.
Io faccio il Sangue Amaro.
Io mi faccio il Sangue Amaro.
È una specialità della casa, sin dal lontano 1957.
Il pronome personale di prima
persona compare in maiuscola, dopo un punto, a inizio di verso per quattro
versi su otto. Per tre volte ripete Io
faccio Sangue Amaro, come se Sangue Amaro fosse un marchio di fabbrica. La
quarta volta tuttavia ecco, apportando leggere varianti, apparire la frase che
ha dato origine alla poesia: Io mi faccio
il Sangue Amaro, un’espressione del parlare comune, che indica la
disposizione a soffrire di tutto, a prendersi arrabbiature, come si dice con
altra frase del parlare comune. L’autore gioca su due elementi di quella frase,
da un lato restituendo al verbo fare il
suo primo significato, di attività dell’homo faber, il fare artigianale-industriale,
dall’altro rendendo sostantivo l’aggettivo amaro che diventa (Sangue Amaro) il
nome depositato di un malefico liquore.
Centralità dell’ io,
manipolazione e gioco di parole e significati, al fine di dire tutto ma
sdrammatizzando, o guardando come dall’ alto, con un lieve ghigno, al burrone
della propria disperazione.
Nella stessa sezione, in
altre poesie, pronomi e aggettivi di prima persona – quasi un’ossessione – come
a volersi rassicurare della consistenza ontologica di quell’io da cui, chi
scrive quei versi, come tutti, non può separarsi (Raccoglimento).
Martellante è l’interrogativo
sulla forma, sullo stampo della propria personale esistenza:
Invisibile e invincibile / è lo stampo che porto
dentro di me, / stampo del mondo impresso a me nel mondo/ e che mi fa essere al
mondo / soltanto nella forma dello stampo.
Versi in cui le parole mondo e stampo nella loro struttura
analoga (bisillabi con la finale in –ndo,– mpo) rimbalzano come ottuse biglie tra
un mi e un me che reclamerebbero la loro originale giustificazione
nell’universo.
Ancora, sempre nell’ultima
sezione, mi soffermo sul primo verso di un’altra drammatica poesia, poesia di
fuoco, di incubo d’incendio:
Sono una città incendiata
dove il verbo è alla prima
persona e il predicativo è un nome che indica una collettività. Una visione-patimento
notturno che acquista il valore di un superlativo, mentre l’identificazione del
proprio corpo con un luogo definito e circoscritto indica l’identità tra un io
che brucia e la sua prigione esistenziale.
Anche in altre sezioni del
libro ascoltiamo una voce che quasi non disciplina la pronuncia del suo io, che
usa il pronome di prima persona e il corrispondente aggettivo possessivo, per
dissipare il terrore che, per esempio nell’attraversamento delle infernali
selve burocratiche, gli venga definitivamente sottratta l’identità:... mi prende acuta nostalgia / per una forma di vita estinta: la mia.
Altrove, come nella poesia
dedicata al mese di Marzo (alle idi di
Marzo), cerca d’incitare se stesso a essere pronto, reattivo rispetto agli
agguati dei falsi amici:
“Tu quoque?”. Non così./ Meglio: “Ego quoque!”sostituendo al passivo
incredulo interrogativo, la forza di un esclamativo assertivamente accentuato
sull’io.
Siamo tornati alle prime sezioni
del libro quelle che più chiaramente rivelano l’amore per la geometria, per un ordine
imposto a suggerimenti e suggestioni non richiesti, a un rumore di fondo che
occorre smorzare e disciplinare per non soccomberne.
Nella prima sezione le poesie
procedono infatti a due per due (Coppie
di nomi propri), anche in forme chiuse a cominciare da sonetti di stampo elisabettiano
o con il ricorso frequente alla rima.
I riferimenti al mondo delle
arti visive (body-art, visual-art),
della musica, della letteratura, della divulgazione scientifica sono adottati con estrema semplicità, come
chi si muova tra gli oggetti di tutti i giorni, che pure – soprattutto utensili
e suppellettili del bagno: doccia, spazzolino, phon – abitano queste pagine.
Molta acqua vi scorre, una
rete di tubi avvolge la casa, e un ruolo importante riveste il bagno come luogo
non solo di lustrali purificazioni ma anche di intuizioni, di rasserenanti
rivelazioni:
Ingegnoso, mio figlio si chiude nella doccia
incolla un foglio al vetro, dall’esterno,
e per un’ora immerso nel vapore,
impara a memoria Ugolino.
Scendono l’acqua e i versi, lui sussurra,
mi costa una fortuna, ma alla fine
esce lavato, profumato, pieno
zeppo di endecasillabi.
*****
Mi lavo i denti in bagno.
Ho un bagno.
Ho i denti.
Ho una figlia che canta
di là dalla parete.
Ho una figlia che ha voglia di cantare
e canta.
Può bastare.
I figli, la famiglia, sono il tremendo tesoro/ che fa argine al ciglio
del non-essere. Sono possesso geloso. Dichiarata e perfettamente descritta,
la gelosia, in una poesia che parla di un segno quasi invisibile, sul volto
della figlia, traccia del graffio di una compagna:
...
La seguo di continuo col mio sguardo,
la cerco, nella speranza di non trovarla,
la trovo, col rimpianto di averla cercata,
ma è più forte di me, è la stessa forza
insopprimibile della gelosia, forza dell’organismo
che nutre il suo male: conoscere. Che sarà mai!, mi
dico,
e intanto frugo avidamente
per rintracciarne
la curva, segno e solco irreversibile.
…
Come è impossibile salvare il
volto della figlia dalle impronte che il Tempo vi imprime, così altrettanto
impossibile è penetrare nella mente e nella sensibilità della sua donna immersa
nella lettura. Questa impossibilità, l’autore chiama crudeltà.
La lettura è crudele. Undici endecasillabi in forma di
ipertesto compongono un poemetto
d’amore e frustrazione. Esprimono il tentativo di entrare nell’intelligenza
dell’altra, nell’atto stesso che lei la applica, con concentrazione, ad altro, nella
profonda relazione con questo altro-pensiero. L’unica soluzione è l’attesa, tessendo
nel gioco dei versi, le possibili varianti dell’esclusione. Rivelando in tal
modo cosa resta nel nòcciolo della personalità di ogni adulto: un bambino che
si sente disperatamente solo quando non gli è concesso di disturbare la
concentrazione dei grandi, di penetrare nel loro pensiero, avvertito come astratto, assoluto
competitore.
Ogni tragedia nasce lì,
nell’infanzia. Anzi nasce con la nascita, come afferma il pastore errante rivolto
alla luna: è funesto a chi nasce il dì
natale. Dì natale quindi come data non scelta, irruzione nel mondo subìta.
Non ci sarebbe niente da festeggiare quando qualcuno viene al mondo, non ci
sarebbe niente da festeggiare nel Natale cristiano. E se si viene al mondo
senza volere, il matematico esatto contrario del giorno della nascita non è il giorno della morte, ma quello
della morte volontaria – eutanasia, suicidio – di cui Montaigne reclamava la bellezza, parlando dell’usanza dell’Isola di Ceo.
Altri potranno concentrare la
loro attenzione su altre poesie di questo libro. Alla vasta cultura che
sottintende abbiamo solo accennato, e abbiamo forse trascurato del tutto i molti
spunti socio-politici. Qui abbiamo accentuato quanto più intensamente ci
corrisponde. Nella sua essenza più profonda “Sangue Amaro” ci sembra il libro di
un grande pessimista, che tuttavia, contraddizione dolorosa, vuole essere ed è
buon padre, che dai sentimenti gelosi e tenerissimi verso gli abitatori del suo
nido ricava ispirazione. È anche il libro della maturità, della piena e
riconosciuta maturità, come l’età in cui non tanto si diventa saggi quanto si
prende per sé, come naturale e acquisito diritto, la libertà di dire, anche di
gridare, lo scontento, la disperazione, e infine anche il fastidio,
l’idiosincrasia – come nel folgorante haiku Contro
l’abuso di haiku – nei confronti di vizi e vezzi letterari.
Foto prese alla presentazione del libro "Cercando una città " di Pietro Spataro, Manni editori (Roma, Campidoglio 2007)
nella foto in basso: Pietro Spataro, Anna Grazia D'Oria, Piera Mattei, Valerio Magrelli, Pietro Ingrao
Foto prese alla presentazione del libro "Cercando una città " di Pietro Spataro, Manni editori (Roma, Campidoglio 2007)
nella foto in basso: Pietro Spataro, Anna Grazia D'Oria, Piera Mattei, Valerio Magrelli, Pietro Ingrao