venerdì 25 marzo 2011

tuttavia è entrata la primavera



Poesia è un difetto della vista – di Piera Mattei

Giuseppe D'Alessandro – L'autostrada e altre poesie (1967-2008) – Manni, 2010

Poco meno di duecentocinquanta poesie: in un'autoantologia che abbraccia l'arco di quarant'anni una voce che varia restando tuttavia sempre nitida, sincera. Chiamare un libro così complesso e impegnativo col nome di una poesia che compare già nella prima raccolta (Mare Lungo, 1967), vorrà certo significare fedeltà alla propria originaria ispirazione. Forse anche alludere a una filosofia per cui, nonostante i cambiamenti che gli anni e le esperienze portano, si rimane sostanzialmente identici a se stessi. Forse si allude anche a un'identità irrinunciabile e – non vorrei spingermi troppo oltre – a un'anima sostanziale che renderà sempre riconoscibile quell'uomo (il poeta) da tutti gli altri uomini. A quella unicità potrebbe fare ironico riferimento la difesa di un difetto della vista, l'astigmatismo, nella raccolta Il tamburo di sabbia (1978): Sono astigmatico / e non ho voglia di mettere gli occhiali / per vedere le cose tutte eguali / e con lo stesso valore di soglia / di tutti i mortali.
Il titolo a cui sopra facevamo allusione è L'autostrada (1967), poesia che apre il volume. "Autostrada" sta a indicare un non-luogo per eccellenza, l'immagine non direi della vita, ma di un tempo astratto, necessario contenitore entro il quale tutto, i pensieri e gli eventi, scorrono senza requie, quasi senza permettere assunzioni di responsabilità e invenzioni di altre logiche: E' tutto scritto qui / per terra come / sulle piste degli aerei / in strisce bianche / e larghe come garze / le deviazioni / le decisioni / le precedenze. Il miracolo può avvenire sì, lungo il tragitto, come D'Alessandro scriverà più tardi in La nebbia sull'autostrada (2008) – poesia che compare qui tra gli inediti – sotto la forma, nell'angoscioso, impenetrabile biancore, di un camion-guida. Strade e tempo ci percorrono, mentre noi le percorriamo: per il poeta, medico di professione, scrutare il corpo ammalato, o che ha esaurito la vita, è ugualmente un riandare per sentieri tortuosi a individuare dove è avvenuto l'infarto, il punto del transito interrotto / da una frana (L'Autopsia).
Già dalle prime raccolte, accanto a questa poesia di riflessione esistenziale, risuonano altre note di timbro diverso. Persone ci vengono incontro, personaggi ritratti in interni o contro orizzonti aperti. Da subito si fanno spazio sulla pagina il paesaggio del cuore e il mare: Le canne / del mio paese / vanno tutte al mare. Da nord, da sud / e da ovest vanno tutte / verso il mare. In una raccolta del 2002, Velocità di sedimentazione, D'Alessandro dedicherà al suo paese natale – quale era nel 1950, prima del suo trasferimento a Roma – un rapido scatto che ricorda, nell'affettuosità ironica dello sguardo, il palazzeschiano Rio Bo: Rutigliano, / come una mano. / Un palmo di case, / cinque dita di strade. / E tutt'intorno / a tappeto: / i vigneti. Una terra goduta, con gli occhi e tutti gli altri sensi, non escluso quello del gusto, che gli fa riconoscere, ad esempio, senza possibilità d'errore e senza ricorrere alla coltivata esperienza di un enologo, quale sia il vino che nutre e quello che fa male. Terra che, suo padre gli dice, è storia: una volta produceva poco grano e poche olive e negli anni sessanta è stata convertita a vite, vino / che va tutto in bottiglia.
Presente fin dalle prime pagine è la corda giocosa: Il mare sulla riva / cerca bottiglie e pipe. […] il mare sulla riva / cerca una foglia / di fico e una coda / di lupo. / Il fico non ha foglia / il lupo non ha voglia. Tenerezza che muove al sorriso e giocosità serena ispirano le tre poesie che concludono la selezione da Il tamburo di sabbia, dedicate al canarino solitario prima e quindi alla coppia dei canarini, con Ciuffettina smaniosa e il compagno che si affanna a spiegarle.
Straordinarie similarità con quanto avviene nella gabbia degli uccellini, ha l'amore domestico, un amore fiero di saper individuare semplici strategie: Quando tu sei triste / io divento più triste di te. / (Una furbizia dell'anima?) / Tu pentita ti sforzi / di sorridermi, ti schiari / e come pulendo l'argento con il daino togli / al mio cuore tutto / il verderame. Dove certo la sorpresa è in quell' osmotico trapasso per cui, quasi con valenza dantesca, al sorriso di lei e lei schiarendosi, è lui che torna pulito di ogni "sucidume".
Un amore che ostenta di avere convinzioni inamovibili, per quanto debba poi riflettere che tutto, come sull'autostrada, come dentro le vene, sia in continuo movimento. Un movimento dotato di un ritmo circolare e necessario: Io non posso essere / che il muratore / e tu la pietra / che si lascia mutare. / Io non posso essere / che il vento / che ti tocca / e tu la foglia / che canta. Ma tu sei il cuore e io il sangue / che corre a raggiungerlo: (respinto sempre, / sempre al cuore / ritorna).
E' evidente pertanto che accanto all'ascolto di diversi toni poetici, lirici, gnomici, giocosi, il libro presenta un fitto tessuto narrativo e si dispone a essere letto anche come un'autobiografia. Le 11 poesie per Lorenza, sono per l'amata madre che sta morendo: muore, anche se con incredula obbedienza ha trangugiato tutte le pasticche che il figlio le prescriveva. La data di questo lutto segna nella biografia un confine, una linea divisoria, e nella poesia fa spazio a una corda patetica. Vibra ogniqualvolta il ricordo della madre s'affaccia, spesso rispecchiato dal preoccupato, protettivo amore per il figlio: il nome "madre" nei primi versi, quello di "figlio" in coda alla lirica, la madre a dare pace, alimento, mentre c'è solo il grido / di tuo figlio / che ti chiama / urlando da lontano (Sogno). Alla muta e santa immagine della madre fa da contrappunto un ritratto vivido del padre, tutto discorsi concreti, battute serrate, contenuti rimproveri. Si osserva dimagrire inesorabilmente e lo denuncia al figlio medico, solo forse per eccitare la sua tenerezza: sei sempre più diviso / tra noi qua tutti vivi / e lei, là, sola tra i morti. Vive a lungo da rendersi più ingombrante di un armadio e riuscendo a far sentire nel sangue del figlio, nei gesti che si osserva fare e persino nelle pantofole che infila ai piedi, una continuità senza fratture. A questo sviluppo narrativo di filiale pietas, nella raccolta Venti di mare e di costa del 1993, s'intrecciano, non senza effetto sorpresa, poesie di amore–passione che hanno anche la forza di un canto-riso per un regalo tutto nuovo della vita. Da una nota in appendice al libro ci pare di poter dedurre che la data di composizione dell'Itinerario amoroso è di molto precedente alla sua pubblicazione. Sarebbero quindi poesie contemporanee e parallele a quelle d'amore casto e coniugale? Poesie a cui finalmente si è aperto l'uscio, si è concesso di venire gioisamente alla luce? Alcune sono di chiaro e divertito contenuto erotico, come ad esempio: Le piccole morti, Quell'affannoso ingresso, Il treno per Venezia.
Preziosi intanto rintracciamo alcuni schizzi che rimandano a Campana, Palazzeschi e, perché no, a Caproni, a cui in questo libro è dedicato un intero capitolo: Ridono due suorine / tenendosi strette, vicine. / Ridono di niente / e di tutto / su questo mondo distrutto.
Di Giuseppe (Peppino) D'Alessandro abbiamo detto che ha esercitato tutta la vita la professione di medico. Dove veramente il suo sguardo di poeta si sovrappone perfettamente all'occhio del clinico è nel già citato capitolo, unico non datato, dedicato a Caproni: C'era il mio amico Giorgio. Caproni paziente e amico: sue parole e flash della sua personalità circolano del resto anche in altre parti del libro. Raccontano la storia di un'amicizia, una storia dentro la storia: il primo incontro, il dono di un violino, i cambi di casa, la malattia, l'ultimo periodo, come appunto suona la composizione che chiude quella sezione: Ma, prima di cena, / in una tazza da caffè / un dito di Cognac / succhiavi con uno / spaghetto col buco. / Dicevi che ti recava / poco danno perché / una parte dell'alcool / se la prendeva / la pasta-semola / di quella inusitata cannuccia.

Come il corpo con gli anni s'asciuga e ne resta l'essenza vitale, il soffio, così in questo libro le sezioni che portano le date degli anni Duemila ospitano una poesia che tende alla consistenza di un sospiro, spesso di un'invocazione al divino, mai presente, nel suo esplicito tono di preghiera, nelle poesie precedenti. Si accenna, è vero, al superamento di una depressione, e certo tornare a scrivere, a riconoscere le forme e i colori, dopo che tutto era apparso informe e grigio, implica una riconquistata accettazione del vivere. Eppure, in una delle poesie più belle di una delle ultime sezioni, addirittura un luogo di sole e spensieratezza quale dovrebbe essere una spiaggia, diventa un cimitero, formato solo di polvere, di cenere di morti:…Tutta la polvere è fatta dei nostri morti / e quando il vento la solleva / porta la loro carezza sul nostro viso. / Domani la polvere dei morti / tornerà a toccarmi ancora / finché non saremo noi / polvere che avvolge altri vivi. / Le madri non sanno / che ogni granello di sabbia / della spiaggia è un nostro / antenato che scorre / nelle mani dei bambini. Certo, le madri "non sanno", e così deve essere se vogliono, senza sensi di colpa, portare avanti il loro destino di dispensatrici di vita. Noi tutti cerchiamo di dimenticare nella quotidianità, la "forza operosa" che affatica la materia, anche dentro il nostro corpo, "di moto in moto".
Altrove è come se il poeta, uscito da quel tunnel, si sia fatto tutto anima, o speranza di essere e restare solo anima, ancora durando la vita. I ricordi persino, che sono stati all'origine di tanta ispirazione, si stanno allontanando, quasi svanendo in nuvole: Io amo tutte le nuvole / che sono vestite di bianco. / Non amo le nuvole nere / che mi ricordano il male del mondo. Qui mi pare importante sottolineare quell'incipit sul pronome di prima persona, certo non casuale, necessario a ribadire la forte personalità del poeta. Che con questa autoantologia-biografia si ripropone "a tutto tondo": non solo affetti, lutti, amicizie, ricordi, amori, autostrade, paesaggi e mare ma una vita di riconoscimenti e di incontri umanamente e letterariamente importanti – come Walter Pedullà ricorda nell'ampia Prefazione – d'impegno umano, di riflessione concreta sul corpo, sulla salute fisica e psichica degli uomini. Lo fa nel modo sempre coerente della sua scrittura limpida, senza schermi, non lasciando in ombra, ci sembra, nessun particolare della sua ricca e complessa avventura poetica.

Piera Mattei

Serietà gemella del gioco – di Piera Mattei

Lino Angiuli – L'appello della mano – Nino Aragno editore, 2010

inutile chiudere sotto chiave tutto / […] ho ben altro da fare / con i cinque sensi: potrebbe sembrare l'enunciazione di una filosofia-poetica della placida dissipazione, visto che questi versi sono riportati anche al centro della copertina del libro. Andando a leggere poi tutto quello di cui il libro "si riempie" si trova ben altro: uno sguardo acuto e un udito perfetto, anche se, come Angiuli ama ricordare, unidirezionale. E un amore per tutto quanto le varie porzioni di corpo catturano, anche di-vertendosi a in-vertire le specifiche proprietà sensoriali: le mani hanno cento occhi / gli occhi cento mani. L'appello della mano, tuttavia, come recita il titolo, sembra dare assoluta priorità a quel tatto che per primo spinge le labbra verso il seno della madre da cui succhieranno il nutrimento, sperimentando e riconoscendo il primo essenziale piacere. Il tatto, con i ciechi olfatto e gusto e prima che i più sapienti sguardo e udito siano in grado di organizzare i dati che catturano:tre sensi che guidano verso il cibo, la sopravvivenza. E quanti nomi di cibi essenziali al vivere o di cibi semplicemente gustosi, paesani, compaiono qui! Se le parole che li designano s'intridono del loro sapore, sono parole buone, si trasformano in spirituale e fisico legame alla madre, alla terra materna. Così nella prima poesia dal tascapane vengono estratte le parole che indicano l'olio, il pomo d'oro, accanto allo iapigio lampascione, alla pagnotta d'altamura. Pane e saporito cibo vegetale come companatico: così in prevalenza si sono nutrite per secoli le popolazioni del sud – la bocca del poeta ne è rimasta fragrante. Canta anche i fiori semplici dell'estate, zinnie e gerani, come sfondo a infantili crudeltà: quando io e noi senza saperlo / andavamo in campagna a cogliere cicale / aggrappate a una controra / me le ricordo bene come friggevano / tenacemente / dentro il loro ardente deprofundis. Accanto alla campagna, per quanto devastata dalla ottusa cementificazione, si spalanca il mare e cercano la loro pace i camposanti. La morte è sereno trapasso:
in compagnia del paternostro e dei parenti / vivi o morti che differenza fa?;
… il mestiere della morte s'impara imparando / a svuotare i cassetti,

sorridente parodia dell' ungarettiano "la morte / si sconta / vivendo", in chiave di eroismo domestico e periodica disciplina di francescana spoliazione.
La prima sezione, alla quale ci siamo qui in gran parte attenuti, s'intitola Meditareneo ed ha come sottotitolo undici undicesimi nonostante tutto, dove si esprimono la passione di Lino Angiuli per i nomi meticciati – quando sensi e sapori diversi s'abbracciano – e un'altra passione che, non meno, la sua poesia ha bisogno di soddisfare. Mi riferisco alla misura perfetta e insieme originale, adatta a costruire un oggetto concreto, maneggiabile, quasi dotato di spigoli e di lati. Poesia anche geometrica e numerologica. Qui si tratta di undici poesie di undici versi, ciascuna per due volte spezzata da un avverbio di modo in -mente, isolato da solo nel verso. Contro ogni forma di razzismo antiavverbiale, quasi una programmatica rivalutazione di quella forma grammaticale di solito discriminata in poesia. E già che parliamo di inquadrature metriche e confini determinati, la sezione successiva In lungo e in largo comprende le orazioni settimanali, dove la misura del sette si diverte a moltiplicarsi in forma ossessiva: ognuno dei componimenti, sette come i giorni della settimana – i nomi in lingue diverse – ha sette strofe di sette righe compatte ciascuna, ma non siamo sicuri che altre simmetrie non restino nascoste a uno sguardo anche attento.
In questa poesia la serietà è gemella del gioco, l'equivoco e gli scambi sono ricercati. Così il flaubertiano "Madame Bovary c'est moi", ordina di mettersi con tutti i sensi vivi, "dalla parte di lei" e immaginare S'io fossi donna, con ardore degno di Cecco, soprattutto nell'atto dell'amore.
Se dovessi a questo punto trovare una formula per definire la poesia di Angiuli parlerei di intenzionalità libera, di ardore incatenato, di sempre pronto sorriso sulla tragedia umana. Forse così sintetizzo, anche troppo, quanto, con argomentare più rotondo, Daniela Marcheschi scrive nell'acuta postfazione: Se la minimizzazione ironica, il sistematico sfocamento ritmico e tonale del discorso, sembrano frapporre ostacoli a una più intensa espressione dell'affettività, creando spinte centrifughe e nei fatti frammentando i testi, è pure comprensibile quanto, con simile dissolvenza, Angiuli abbia puntato sia a un più libero sviluppo delle esperienze sia a contenere i toni di una poesia che irride positivamente, fra i tanti pseudovalori, a ogni facile retorica.
Davvero non c'è argomento dove sarebbe più semplice scivolare nella retorica vieta che nel canto innamorato della propria terra e Angiuli è, se non anzitutto certo appassionatamente, cantore della propria terra. Il modo con cui Angiuli risolve la sua esigenza espressiva trovando la strada per una personale retorica, quella che il proprio stile, e "il fren dell'arte" gli concede, è evidente in Quaggiù, nella sesta delle dieci vedute dal basso. Lì, esordisce con una dichiarazione appassionata: Dovete sapere che mai e poi mai il cuore mio / spatrierà vivo o morto dal luogo del tempo / dove succhiai il latte e la luce insieme a voi. Dove vanno sottolineati il solenne tono enunciativo (Dovete sapere che), la negazione fortemente assertiva, raddoppiata (mai e poi mai) l'uso di un lessico romanticissimo, verbi e aggettivi possessivi e in funzione predicativa compresi: il cuore mio / spatrierà vivo o morto. Ma ecco s'introduce accanto all'avverbio di luogo che un tale verbo s'attende, la complessità di significato, la retrocessione prodotta da un'inaspettata specificazione: dal luogo del tempo. Espressione che c'induce a una pausa, a un rapido riavvolgimento di pellicola e d'immagini, per trovarci lì, dove succhiai il latte e la luce insieme a voi. Quindi, al punto in cui ci ha caricato di emozioni, lì improvvisamente ci lascia, iniziando il verso successivo con un prosaico pure se adesso. Lo scenario torna all'oggi per un attimo, subito appresso ricadendo in un passato lontano, ai tempi delle scelte e del primo amore. Apre un intatto scenario nuovamente con i toni del predicatore o del profeta: dovreste ormai saperlo che una banca non vale / quanto il sorriso di vanna allorquando usciva / per andare incontro al suo primo bacio / con l'amore di basilico fresco nella bocca. Qui è il sorriso di Lino Angiuli (Angiulino), affettuoso ma indubitabilmente ironico, che smorza senza violenza il pathos col ricorso alla parlata domestica, e ricolloca i ricordi nel paesaggio fisso che si apre oltre i vetri della casa: dopo aver lucidato i lastri di quella finestra che / dà sul largo dei nostri megli ricordi in carneossa.

Piera Mattei

Inventarsi una nuova patria di Piera Mattei

Il 22 marzo scorso la casa editrice Manni ha organizzato la presentazione di una sua nuova pubblicazione: la traduzione italiana, a cura di Daniela Bonerba e Angela Liguori di Addio Babilonia, dello scrittore canadese di origine irachena, Naim Kattan. Walter Pedullà offriva una sua interessante analisi che collocava questo romanzo nelle autobiografie condivisibili, cioè tra le autobiografie che escono dai margini del sé, aprendosi all'identificazione di una pluralità, di un "noi".

Il libro è quindi inserito nella collana Plurale a buon motivo, essendo l'opera in ogni senso polivalente.
Infatti Naim Kattam, che oggi si proclama canadese di lingua francese, non solo è nato a Bagdad, ma era ed è membro della comunità ebraica che abitava Babilonia dai tempi di Nabucodonosor, molto prima quindi che gli arabi vi si stanziassero. Una cultura che – l'autore, presente alla biblioteca Rispoli lo scorso 22 marzo ci tiene a ribadirlo – precede la divisione della nazione ebraica in askenaziti e sefarditi, come del resto la comunità ebraica romana, che ha rituali molto simili a quelli babilonesi.
Quella comunità parlava un arabo con forti connotazioni del gruppo di appartenenza: Kattan vi fa riferimento, proprio all'inizio di questo romanzo autobiografico, che copre gli anni dell'adolescenza, agli inizi degli anni quaranta. Erano gli anni che avevano scandito prima il trionfo del nazifascismo, poi la seconda guerra mondiale, e gli echi di quella in medio oriente, più forti di quanto un'analisi storica eurocentrica potrebbe far congetturare. I giovani ebrei iracheni, che non avevano saputo direttamente di persecuzioni, e contro il parere degli anziani, erano spregiudicatamente favorevoli ai nazisti, e quasi affascinati da quei biondi disciplinati soldati che, speravano, li avrebbero aiutati a liberarsi dall'oppressione inglese.

Oggi che l'Iraq ha conosciuto profondi cambiamenti e l'esodo quasi totale dei suoi ebrei in Israele e in altre parti del mondo, questa autobiografia è anche la tessera di un mosaico che forse solo la memoria di singoli individui riesce a collocare nel complesso disegno storico. Si può leggere infatti secondo tre focalizzazioni spazio-temporali.
La prima è quella dell'Iraq degli inizi anni quaranta, di cui abbiamo accennato, cioè il tempo a cui torna il ricordo, tempo in cui l'adolescente era quasi inconsapevole di rientrare attivamente nel processo politico, mentre tuttavia aveva una profonda consapevolezza del suo corpo e della sua mente in rapido sviluppo. Nel ricordo sono quelli gli anni di un apprendistato culturale ed erotico d'importanza assoluta. Più determinante ancora che la passione per le donne, o meglio, più caratterizzato dalla scelta personale rispetto ad impulsi soprattutto naturali, appare al lettore l'amore per la lingua francese che gli aprirà l'accesso a una nuova identità, non più mediorientale, ma occidentale, anzi québéqois, con dislocazione certo impensabile per i suoi antenati babilonesi. Kattan afferma, che dalla partenza narrata nelle ultime pagine del libro, non ha mia più fatto ritorno nel luogo che lo vide nascere: la prima identità non sarà condivisa con la nuova, non sarà scandita, come per molti esuli, da periodici ritorni, ma tutta interiorizzata e dispiegata nell'ambito di una nuova comunità multietnica, accogliente e plurale, come si vanta di essere la cultura canadese.
La seconda focalizzazione spazio-temporale è appunto quella del Canada francese, Montréal, della metà degli anni Settanta, tempo e luogo in cui il libro viene scritto, che coincide con la piena maturità dello scrittore e con l'acquisizione di uno sguardo in ogni senso distaccato. La distanza, ma soprattutto la traduzione dei sentimenti e delle esperienze in un universo linguistico "altro", conferiscono al racconto quel velo di epos personale, di sorridente compiacimento per la conclusione positiva delle avventure anche più tragiche, che fanno di questo libro, una narrazione anche leggera.
Infine la terza collocazione spazio-temporale è quella dell'Italia del 2011, dove questo racconto giunge per la prima volta in traduzione, con l'ottimo viatico di una prefazione di Bernardo Valli, accompagnato dalla presenza fisica del suo autore e con tutte le implicazioni che la storia successiva ha dato alla storia dell'Iraq e alla storia degli ebrei nel mondo. Addio Babilonia arriva nelle nostre librerie in un momento in cui, meno che mai, possiamo ignorare la realtà del medio oriente e dei paesi a maggioranza islamica. Vi plana, come dicevo, con una sua leggerezza letteraria, la giovinezza di un adolescente che ha fiducia in se stesso e ora è un uomo, uno scrittore più che ottantenne, dallo spirito e dall'aspetto vivace, che ancora si riconosce in quel ragazzo e nella sua decisione di partire inventandosi una nuova patria.