sabato 12 ottobre 2013

Conversazione con Opus Lapidus di Piera Mattei


 


(l’amore e la famiglia, le esperienze lavorative e culturali, le letture, la religione, la partenza)

Incontro Dan Opus Lapidus (Danut Dogaru), in un bar del quartiere romano di San Lorenzo, un quartiere proletario ormai ampiamente colonizzato dagli studenti della vicina Università La Sapienza.
Dan è alla vigilia del suo definitivo trasferimento in Germania. Il guadagno di una giornata di lavoro non qualificato, mi dice, è lì mediamente inferiore, ma tutto, nella piccola storica città dove andrà a vivere, sembra più sicuro, e la vita costa la metà che a Roma. Lo raggiungerà presto dalla Romania la moglie. I figli restano a Focsani dove hanno la casa. Focsani si trova a circa 200 km da Bucarest dove studiano e lavorano. Il maggiore sta prendendo un dottorato in Filosofia comparata. La figlia studia lingue, italiano e arabo, ma l’italiano sarà una passeggiata per lei perché è molto brava. Inoltre tutti e due i figli di Danut hanno fatto le scuole, per dieci anni, qui a Roma.

Sono le sette della sera quando c’incontriamo. Quando ci salutiamo sono quasi le dieci. Danut è un ottimo parlatore. Lo interrompo di tanto in tanto con alcune domande, ma non ha certo bisogno di stimoli. Il discorso spazia dalla sua storia personale ai libri che legge, al suo atteggiamento nei confronti della religione, delle religioni anzi, a riferimenti polemici che riguardano la storia recente dell’Italia.

“Ricominciare a quarantasette anni, dopo quattordici anni trascorsi in Italia. Ricominciare a parlare una lingua straniera… Sono stato lì,  in Germania, quindici giorni e tutto quanto ho imparato sono quindici parole. È cinese per me. Quando sono arrivato in Italia è stato più facile. L’Italia è più prossima linguisticamente e culturalmente. Pochi giorni fa, quando sono rientrato dal mio primo viaggio, a Bressanone sono sceso dalla macchina, sono entrato in un bar ho chiesto un caffè. Mi sembrava di tornare a parlare la mia lingua.

Sono nato in Romania, una piccola città che appunto si chiama Roman. Sorge su un castrum fondato da Traiano 1900 anni fa.

[Parla di Traiano come il più crudele dei tiranni. Si meraviglia molto quando gli dico che Dante, , nel Purgatorio della sua Commedia, lo propone tra gli esempi di clemenza. Non proseguo, non gli dico che per Dante l’anima di quell’imperatore risplende addirittura lucentissima in Paradiso, nell’occhio dell’aquila. Medito sulla complessità delle distanze culturali, sulle diverse prospettive storiche]

“Venne da conquistatore su un popolo che credeva primitivo e disorganizzato militarmente, e tuttavia solo dopo due tremende sconfitte riuscì a impadronirsi di quelle terre.
Contribuì così all’etnogenesi dei rumeni. Per quanto, certo non so quanto di sangue romano ci fosse in quei legionari che venivano da tutte le parti dell’Impero”.

 [Gli chiedo se posso fargli una foto da mettere nel libro]

“La foto ce l’ho già!”

[me la dà tutta arrotolata come un papiro, come già faceva con le sue poesie].

“È una foto di tre anni fa, quando ho cominciato ad aderire al Buddismo e a scrivere poesie.
Ho la barba e sembro più vecchio di quanto non sia adesso. Forse sto ringiovanendo.”

[Guardo la foto e lo guardo, ha ragione!]

“Sono circa 50.000 i buddisti romani, e il 90% aderisce a una scuola giapponese. Mi hanno battezzato da bambino nella chiesa cattolica romana– noi aggiungiamo questo secondo aggettivo, romana– ma sono un cristiano riluttante e forse anche un buddista riluttante.  Sono stato sempre un libero pensatore. Un buddista non prega, recita. Così io, cristiano-buddista, al mattino recito le preghiere, le cinque preghiere della mia tradizione cattolica, una dietro l’altra come un mantra.
Quando poi nella mia vita ha fatto irruzione il Trattato di ateologia di Michel Onfray  tutto si è ulteriormente complicato. In molte cose lui ha  ragione, i suoi libri mi convincono. Forse quindi sono anche un ateo.
In realtà mi dispiace di non essere un prete, passerei il tempo a celebrare i riti e cantare.

Non voglio essere frainteso: amo la mia famiglia. Mia moglie che chiamo la foca, perché dovresti vederla, proprio somiglia a una foca. Le foche riescono a comandare e poi, tra splendore e buffo [dice proprio così] ti fanno un po’ divertire.
Amo i miei figli. La piccola che ora a venti anni ed è bravissima, ha vinto le olimpiadi di lingua italiana. Ora, potresti crederlo? è andata a innamorarsi di un poliziotto di primo livello. La foca dice di stare tranquillo che le passerà. I padri crescono le figlie con tanto amore e poi viene uno qualunque, un estraneo, e se le porta via!
Mio figlio, 24 anni, brillantemente laureato, come quasi tutti i laureati di Bucarest lavora in un call center. È  pagato abbastanza bene perché è un call center ricco, in quanto risponde alle stupide domande di quelli che giocano al casinò.

A proposito di amore voglio raccontarti un episodio. Era inverno e avevo lavorato fino a tardi. Faceva freddo – anche a Roma fa freddo – forse eravamo a zero gradi. Come un disperato mi sono comprato una birra e mi sono messo a berla seduto sul gradino del marciapiedi, proprio qui accanto, in piazza dei Sanniti. Sopra di me si apre una finestra e alcune ragazze, potevano essere studentesse in vena di scherzare, mi chiamano:
“Signore, scusi, stiamo facendo un’indagine di mercato, vuole rispondere, per favore? Secondo lei, l’amore è eterno?” Io lì, miseramente seduto sul gradino con la mia birra in mano, ho risposto ”Non ne sarei sicuro, ma il lavoro, sì, è eterno!”

Quanti dicono che i quattordici anni che ho trascorso a Roma, non sono poi tanti sono superficiali. Vorrei veramente il parere di una persona che è stata fuori del suo paese per un periodo altrettanto lungo. Quattordici anni non si possono cancellare.


Ho cominciato a scrivere nel 2010, appunto quando mi sono anche rivolto al buddismo e ho cominciato a leggere poeti orientali. Ero un po’esaurito. Mia moglie era tornata in Romania con i figli. Del resto, non so se è un’immagine poco originale, se qualcun altro lo ha già detto, ma sento di essere come una candela che brucia lo stoppino da tutte e due le estremità. La sensibilità è un difetto. Distrugge. Così ho cominciato a scrivere le mie cose ingenue, le mie poesie. Del resto so di non essere un uomo di lettere, sono un tecnico.

In Romania la mia qualifica è quella di ingegnere agrario, che è anche la qualifica di mia moglie. Quando mi sono laureato, nel 1990, c’era appena stata la Caduta del Muro. Dal 1990 al 1994 ho fatto ricerca agraria, ho seguito corsi di genetica animale sperimentando incroci con tre differenti razze di mucche. A ventisei anni dirigevo 40 persone.
Nel 1994 sono stato trasferito alla carica d’ispettore della Banca Agricola. Facevo analisi dei crediti per quella banca, cioè, da esperto del settore, controllavo se il piano d’investimento del prestito richiesto era ben strutturato e sarebbe stato produttivo. Sono rimasto in quella carica per cinque anni, quando la Banca Agricola è fallita ed è stata acquistata dalla Raiffeisen Bank austriaca.

Sarebbe legittimo chiedersi perché non ho continuato nella mia attività, anche una volta giunto a Roma. Ma nel Lazio non c’è ricerca agricola. Invece c’era richiesta di manodopera nell’edilizia e, dato che sono molto pigro, alla cucchiara [dice così, col termine usato dai muratori romani] ho preferito il pennello. Con questo lavoro ho potuto comprare una casa che ho intestato ai figli e una bellissima Mercedes – che però ormai ha dieci anni – di cui è proprietaria mia moglie. Niente del genere potevo permettermi prima, col mio lavoro in Romania. A meno che non avessi accettato le bustarelle che mi proponevano i richiedenti prestiti, per avere una relazione positiva.

Io però non sono venuto qui per restare, per morire qui, come tanti che non hanno nulla. Sono venuto per fare esperienza.

Quanto al nome con cui mi firmo: il nome con cui mi hanno battezzato, Danut, Daniele, è molto bello, ma non l’ho scelto io. Quindi per firmare le mie poesie ne ho scelto uno nuovo: Lapidus.

Di Daniele mi dice che era nell’esercito di Nerone e molto amato dall’imperatore. Che gli invidiosi lo denunciano come cristiano, che Nerone lo fa gettare in una fossa con i leoni, ma i leoni videro intorno a lui un’aura divina e non osarono toccarlo.”

[Qui davvero mi meraviglio ma non gli chiedo da dove gli venga questa riedizione cristiana dell’episodio biblico. Il racconto di Daniele, che ha come coprotagonista Dario, re dei persiani nel secolo ottavo a. C. , l’ha trasportato ai tempi di Nerone, imperatore romano, nel primo secolo d.C.
Lo registro come riferimento ostinato, e polemica ancora viva verso il mondo della Roma Imperiale]

“Il nome Lapidus l’avevo incontrato a Parigi nel 1993, quando ero andato a seguire lì dei corsi di genetica animale. L’ho letto su una vetrina di gioielli. I Lapidus sono grandi gioiellieri parigini, ma di origine romana. Non che mi piaccia l’oro, ma quel nome mi è rimasto dentro fino al 2010, quando l’ho scelto per il suono e il significato. Ho anche elaborato una firma in cui si può leggere il mio cognome al rovescio [sì, certo, l’avevo notato. Firma ciascuno dei fogli su cui scrive le sue poesie, come fossero quadri].

È  tardi, ci salutiamo. Auguro a lui un buon viaggio e una buona fortuna nella città in cui andrà a vivere. Ma già me ne parla con simpatia per l’uso intensivo delle biciclette, per il verde, per la cura che ogni proprietario direttamente (senza fare ricorso a extracomunitari o stranieri) riserva al suo giardino privato, abitudini tutte che approva.

Saluto quest’uomo gentile, curioso, versatile, insieme umile e orgoglioso.
Ho nella borsa uno dei foglietti che mi lasciava in dono quando veniva a lavorare da noi. Lì, sul retro di una poesia, mi aveva abbozzato – ancora una volta in versi – una sorta di breve autopresentazione del suo stile:
Lo stile lapidico, cupo e
                     malinconico
non è unico come sentiero
via, originale per la tristezza
                             trasmessa

nascita e morte, cose consuete
ma dimenticate da qualche
             frenesia quotidiana
debbono essere rilevate
                    ripetutamente
perché Lapidus ha una
sola promessa (utopica)
afferrare l’inafferrabile

Anticipazione edizioni Gattomerlino

dal volume “Il mio letto ha tre gambe”

di Dan Opus Lapidus