venerdì 10 luglio 2009

Piera Mattei –Tempera (AQ) – 6 luglio 2009


Quanto scrivono i giornali negli ultimi mesi, terremoti, disastri aerei e ferroviari, centinaia di corpi di clandestini morti di sfinimento in mare, mentre siamo privi di un governo in cui riconoscersi, ci fa sentire degli orfani, dei sopravvissuti, con il senso di colpa che a tali condizioni si accompagna.
Come uscire dalla condizione d'impotenza? Non possiamo, no, non siamo in grado, noi che continuiamo a vivere sicuri nelle nostre case, farci carico di tutti. Dobbiamo tuttavia, anche per superare il complesso di sopravvissuti, non dimenticare almeno coloro che il caso, la Fortuna, ci ha posto accanto.


Così, perché lo sentivamo necessario e doveroso per noi, lunedì 6 luglio, a tre mesi dall'orribile notte dell'Aquila e provincia, siamo tornati, lontani dai riflettori, con la guida di Marco, studente di Fisica alla Sapienza, nel suo piccolo borgo di Tempera, per vedere cosa è cambiato dal sabato Santo 11 aprile, quando per la prima volta visitammo i luoghi di quella tragedia. Non sapevamo cosa offrire, oltre alla nostra presenza e il nostro ascolto e siamo stati colmati d'attenzione e di doni: non solo il pranzo ma frutta dal sapore diverso, vedure colte nell'orto e annaffiate con l'acqua del fiume Vera, così prossimo alla sua origine.


A Tempera nulla è cambiato, tranne che tutto il piccolo centro, prima del 6 aprile una realtà idilliaca da RioBo, è stato classificato ZONA ROSSA e l'accesso ne è vietato a tutti.
Ma almeno il campetto di calcio, sul quale non minaccia nessuna costruzione, devono considerarlo agibile! Questo è il ragionamento del fratello minore di Marco che, batti e ribatti con i responsabili della Protezione Civile, ha avuto ragione. Nel suo racconto una sfumatura divertente è proprio questo sottolineare i rapporti di mentalità e di accento nell'uso della lingua, tra i cittadini aquilani e i soccorritori giunti da tutte le parti d'Italia.

Il nostro unico punto di riferimento a Tempera è stata la famiglia di Marco, ma non è stato poco. Ognuno aveva una sua storia da raccontare. Il padre che, negli anni passati, ha avuto responsabilità politiche e amministrative nel progetto di una Riserva naturale del fiume Vera, nonché nel ridare decoro alle vie del piccolo centro, ora, sopratutto per quel che riguarda l'abitato, vede tutto il lavoro ridotto in polvere.
Nel discorso della mamma, che allertata dalle scosse dei mesi precedenti, quella notte aveva organizzato tutto per fuggire rapidamente verso l'aperto, mi colpisce la descrizione del pavimento agitato da un'onda come lo scuotesse un serpente, il terrore del "rumore" del terremoto. Torno a pensare a Lucrezio, alla furia dei venti sotterranei.

Da quello che ascolto le donne sono le più ferite, perché con la casa hanno un rapporto d'amore e ora si sentono, da una parte, tradite, dall'altra quasi colpevoli di quell'amore, di volere vivere all'interno, di curare tanto e desiderare quel tetto che si è tramutato per tutte in luogo di spavento, per alcune, in trappola mortale.


Marco ci accompagna a vedere i cantieri dei nuovi quartieri che dovranno sorgere, lì dove per il momento iniziano a impiantare pilastri. Il progetto è che, dopo la ricostruzione, quegli alloggi diventino quartieri per gli studenti.

Lungo la strada nei pressi di Onna, restiamo bloccati in un imponente traffico di mezzi blindati e auto della polizia. Sta arrivando Angela Merkel, perché il progetto tedesco è di offrirne la ricostruzione in riparazione di un orribile eccidio compiuto lì sui civili, durante la Seconda Guerra Mondiale.

Vediamo le chiese imbrigliate, ma le case, dice polemicamente Marco, ancora aspettano. Bisognerebbe rimboccarci le maniche, come avvenne in Friuli, ma chissà se ne saremo capaci. I fondi per le catastrofi sono stati stanziati dalla Comunità Europea, speriamo non finiscano nelle tasche degli amministratori.

Tra due giorni, qui, il G8. Lungo l'autostrada tutti i ponti sono presidiati, dovunque forze dell'ordine. Nel pomeriggio tuoni e fulmini, ma dopo mezz'ora il sole torna a splendere.