venerdì 25 gennaio 2008

Alessandro Centinaro IL PUNTO DI VISTA

Sapere e verità

Il problema che si pone, ancora una volta rispetto ai rapporti che stiamo dibattendo, è quello del rapporto fra “sapere” e “verità”, e fra “ragione” e “tradizione”.
Per il Pontefice, quale depositario di immutabili princìpi della tradizione ecclesiale, non può esservi dubbio che il sapere non è fine in sé, ma strumento di Verità; neppure può esservi (per Lui) dubbio che la Verità non è un “quid in fieri”, un “work in progress”, derivando invece essa la sua essenza da una fonte che ne ha dettato una volta per tutte (per via di rivelazione) i fondamenti.
Qui è il nodo del problema, e qui si pone la questione su quale senso od utilità avrebbe mai potuto avere l’intervento del Pontefice (in quanto Pontefice) in quell’Ateneo.
Contrariamente all’assunto del Pontefice, va infatti detto che i sapienti, se li intendiamo come coloro che ricercano il sapere, non possono, nella loro ricerca, prescindere dal dubbio, che è motore della stessa ricerca e metodo di scelta fra le alternative conoscitive, tutte convalidabili o falsificabili attraverso il confronto fra percorsi argomentativi ed investigativi della logica, od attraverso verifiche sperimentali, ove si tratti “de rebus naturae”: il dubbio è dunque, per chi è alla ricerca del sapere, l’attrezzo fondamentale, come il martello per il fabbro o la bilancia per il mercante: in difetto di quello strumento conoscitivo che è dato dal dubbio, non ha senso parlare di ricerca della verità, poiché in tal caso la verità si intende già data, e dunque non v’è nulla da ricercare, ma solo da ricapitolare, o al massimo chiosare.
Se due sapienti, alla ricerca del vero, procedono per percorsi non coincidenti, un dialogo o confronto fra loro può aver senso solo a patto che ciascuno dei due sia disposto, nella prospettiva dialogica della ricerca speculativa, a mettere in gioco ed in discussione i presupposti del proprio rispettivo percorso.
Esemplificando in termini elementari, poniamo che due presocratici, amanti del sapere, e disposti al confronto critico e speculativo, discutano dell’essenza delle cose, sostenendo l’uno consistere essa nell’essere, l’altro nel divenire: l’uno e l’altro, se realmente vogliono interagire nello sforzo critico verso il vero, dovranno esser disposti ad accettare il punto di vista dell’interlocutore, ed a rinnegare il proprio, se attraverso il confronto (svoltosi con il mezzo condiviso della ragione speculativa ed inquisitrice) sia emersa la prevalenza di una ipotesi sull’altra.
Orbene, se un cristiano ed un non credente discutono su Cristo, il confronto può aver senso solo se il cristiano sia disposto (nella prospettiva del confronto) a mettere in dubbio la esistenza o essenza di Cristo, e se a sua volta il non credente sia disposto a porre in discussione la propria incredulità, accettando il Cristo, laddove il confronto si svolga, anche qui, avvalendosi di un metodo di ricerca e di confronto condiviso.
Il sapere filosofico occidentale è nato così, ed è andato avanti così: attraverso il dubbio ed attraverso la discussione; nelle scuole greco-romane non si insegnava che una cosa è bianca o nera, ma si addestravano i discenti a sostenere prima che una cosa è bianca, e poi che è nera: per l’apprendimento della tecnica del dubbio, e della ricerca attraverso la argomentazione speculativa e la verifica logica od empirica.
Siamo dunque pervenuti ad una prima, graduale conclusione (di tipo alternativo) riguardo agli interrogativi posti in premessa: o la verità è data (presupposta e/o rivelata), oppure essa non è data, ed allora va ricercata e conquistata.
Nel primo caso ha un senso molto limitato porre il problema del rapporto fra verità e sapere, poiché il secondo termine (il sapere) non può esser altro che eterna ricapitolazione o spiegazione o descrizione della verità già data.

A questo punto occorre fare una scelta, trattandosi di posizioni nettamente alternative, quindi inconciliabili.
Come ogni scelta umana, essa non può che dipendere da motivazioni umane.
E’ una scelta umanamente rispettabile quella di ancorarsi ad una verità teologica “data” una volta per tutte, qualunque ne sia la fonte di rivelazione, e quantunque la attendibilità di tale fonte non sia dimostrata, se non autoreferenzialmente; Blaise Pascal diceva che la fede è una “scommessa”, e nulla vi è di censurabile nello scommettere, tanto più che taluni scommettitori vincono (ancorché altri dilapidino tutto il proprio avere).
Ma se si fa ancoraggio su di una idea del divino basata su una rivelazione autoreferenziale, su una verità del divino che si assume discendente “ab alto”, ciò costituisce in effetti una scommessa, che non si può escludere che possa essere una scommessa vincente, come pure non si può escludere che sia ingenuo “credere” (che in latino vuol dire “dare a credito”) incuranti del fatto che il “credito” non sia garantito.
Il problema che stiamo esaminando, dunque, non si pone, in generale, per chi creda in una indeterminata ed invisibile realtà “trascendente” (in senso lato) la dimensione empirica, che può esser essa stessa (il “dio ignoto”) oggetto di ricerca “in interiore homine” e fra i segni del visibile (che potrebbe essere la punta dell’ “iceberg” del reale); il problema si pone invece per coloro i quali credono in una divinità che pretenda di esser “vera” in quanto “rivelata” una volta per tutte, e che sia portatrice di una Verità (sul divino, sul mondo, sull’uomo) che sia stata data attraverso un disvelamento “ab alto”, e che escluda e neghi ogni alternativa ipotesi sulla essenza delle cose, e sul loro essere trascendenti od immanenti.
A questo punto torniamo alle questioni di base: chi già possiede, od ha ricevuto, per via di rivelazione, la Verità, non abbisogna di alcun sapere, se non descrittivo, di quella Verità; chi ritiene di non possedere, o di non aver ricevuto, per via di rivelazione, quella od altra verità data, ha bisogno del sapere, perché il sapere stesso, nel suo naturale divenire, si identifica con la unica possibile verità, una verità “in fieri”, ossia una verità coincidente con il progredire relativo della storia umana, in consonanza con la natura della psiche umana, che è desiderante e diveniente.
Vero è che la idea del “divenire” non necessariamente coincide con quella di “progresso”, giacchè la stessa esperienza storica insegna che può esservi un divenire regredente rispetto a taluni punti di vista; vero è però anche il fatto che l’uomo, per sua costituzione bio-psicologica, è “naturaliter” proteso al cambiamento ed al divenire, come del resto l’intero mondo naturale, del quale l’uomo potrebbe definirsi il vertice consapevolmente diveniente.
Se l’uomo è dotato di braccia e di gambe, di apparato digerente e di apparato visivo, ecc., è naturale che usi tali organi ed apparati; se l’uomo è dotato di quell’organo che è la ragione, è naturale che la usi, ed è invece contro-natura che non ne faccia uso; se la ragione confligge con la “fede” (nel senso che la fede non è razionalmente giustificabile) è contro-natura aver fede in contrasto con la ragione, la quale invece è cosa ed organo naturale.

Peraltro neppure si può dire che la “bontà” o meno dei percorsi della ragione umana sia verificabile in base al fatto di essere essi o meno sedimentati in una Tradizione (come pare evincersi dal testo del Pontefice), posto che l’essersi per lungo sedimentata una consuetudine di convinzioni non è garanzia della loro aderenza alla ragione, che anzi procede spesso per salti e per rivoluzioni; del resto, se la tradizione fosse garanzia di attendibilità, un qualche eschimese potrebbe ben dire che il mondo nasce da una Grande Balena, visto che da tempo immemorabile, da quelle parti, si è magari inclini a crederlo; così pure paradossalmente si dovrebbe credere che il sole gira intorno alla terra solo perché una tradizione scritturale plurimillenaria lo insegnava (qui non pare fuor di luogo accennare alla mal rispolverata “questione” galileiana: vero è che Galileo non aveva prove definitive dell’assetto eliocentrico, vero però è anche che, ai nostri moderni occhi, non è ovviamente accettabile l’idea di un “processo penale” avente ad oggetto i modi di investigazione scientifica; la questione andava, caso mai, storicizzata, e non forzosamente riattualizzata, parlando assurdamente di “processo giusto e razionale”, in termini a-temporali ed in assoluto).
Fin qui non abbiamo fatto altro se non porre in semplice ordine logico (parliamo di logica umana, non potendo esser marziani) alcune considerazioni che crediamo siano di solare evidenza.
A questo punto, però, tirando le fila del discorso (che prende le mosse dal mancato appuntamento del Pontefice con l’Ateneo romano), crediamo di poter affermare quanto segue, pur senza alcuna pretesa di affiggere alcunché sui battenti della cattedrale di Wittenberg:
1) vero è che il Pontefice era stato ufficialmente invitato dalle autorità accademiche, e che, pertanto, è stato forse fuori luogo, da parte di taluni docenti (lasciamo stare i discenti) dar vita ad una imbarazzante protesta.
2) altrettanto vero è, però, il fatto che non si capisce a che titolo, e con quale utilità, il Sommo Pontefice sarebbe andato a tenere una allocuzione magistrale presso la Università romana: se vi fosse stato invitato in qualità di docente di filosofia, come a Ratisbona, la cosa sarebbe stata sensata, poiché, in veste di filosofo, egli avrebbe potuto, al pari di ogni altro filosofo, mettersi in gioco ed in discussione nel confronto dialettico, secondo i moduli già sopra evidenziati; ma, andandovi in veste di Pontefice, depositario di una Verità rivelata ed immutabile nei suoi princìpi, non avrebbe potuto mettere in discussione nulla, e l’incontro non avrebbe dunque potuto avere gran senso, posto che l’Università è invece, da sempre, sin dal medioevo, il tempio del libero, ricercante e diveniente sapere, il luogo ove si discute, ed ove si mettono in gioco ed in discussione tutti i principi (oltre che i prìncipi).
Il giorno in cui il Sommo Pontefice sarà disponibile (come filosofo qual egli ricorda spesso di essere) a mettere pubblicamente in discussione persino la resurrezione di Cristo, discutendone da filosofo, e non da custode del sigillo di Pietro, ebbene, che egli ben venga in qualunque contesto del sapere non-ecclesiale; potrebbe forse convincere tutti, o forse nessuno, ma almeno rivitalizzerebbe un certo spirito del cristianesimo delle origini, quando i padri della chiesa (che non potevano allora contare sulle vocianti moltitudini preconfezionate a mezzo pullmann e sui miracolanti Padre-Pii) dovevano confrontarsi pubblicamente con politeisti, manichei, zoroastristi, donatisti, gnostici, mitraisti, circoncellioni, ecc., ossia con tutto il Pantheon (e con tutto lo “a-theion”) di quella tarda romanità che, per quanto decadente e corrotta, aveva ancora vivo quel senso e quel gusto della discussione e della critica speculativa che ha da allora (pur con successive cadute) animato la civiltà dell’Occidente.

Alessandro Centinaro
scrittore

mercoledì 23 gennaio 2008

LETTERE

DA PERUGIA

Sono un ricercatore dell'Università di Perugia e, da ricercatore, cerco di stare ai dati in questa strana vicenda dell'invito del Papa alla Sapienza. Faccio, quindi, una breve sintesi dei fatti (almeno come io li ho appresi dalla stampa) nella loro sequenza temporale e pongo qualche domanda: Un gruppo di professori della Sapienza invia al Rettore una lettera in cui viene “auspicato” che “l'incongruo evento dell'invito del papa per l'inaugurazione dell'anno accademico possa ancora essere annullato”. E’ questo un atto illegittimo, intollerante, inopportuno o comunque di una gravità tale da suscitare le conseguenze che abbiamo visto? Non mi pare! Si potrebbe obiettare che la lettera incriminata, di per sè legittima, è stata inopportuna o ingenua in quanto ha innescato una serie di reazioni a catena di grande portata. In tal caso, tuttavia, la lettera avrebbe fornito soltanto la cosiddetta “energia di attivazione” a delle reazioni che erano pronte ad evolversi spontaneamente e che hanno cause ben più vaste e remote che non una lettera di “auspicio” di pochi docenti. Se è lecito, si potrebbe addirittura ipotizzare che le "reazioni" non aspettavano altro che un minimo di energia di attivazione per innescarsi e compiersi con le modalità esplosive che abbiamo avuto modo di osservare. Alcuni gruppi di studenti hanno iniziato contestazioni rumorose e goliardiche contro la visita del Papa. Queste sono assolutamente da condannare e, a quanto mi risulta, alcuni dei firmatari lo hanno fatto. Dovevano questi dissociarsi tutti in gruppo? Forse sì, ma la cosa è quanto meno opinabile. Un'altra domanda è se ci sia un rapporto di causa-effetto tra la lettera e le contestazioni studentesche oppure se queste ultime ci sarebbero state comunque, anche se la lettera non fosse stata inviata. A questa domanda non saprei rispondere e in ogni caso, come dicevo, la causa remota di tutta la vicenda, incluse le contestazioni, non è certo la lettera dei docenti. Vista la situazione, il Papa declina l’invito del Rettore, scatenando l’ira universale di politici, di destra e di sinistra, della stampa e anche, ahinoi, di parte del mondo accademico e degli intellettuali laici, oltre che, ovviamente, delle gerarchie ecclesiastiche. Ma le modalità con cui i professori hanno manifestato il loro dissenso mi sembrano appropriate. Pretendere il silenzio da parte dei ricercatori sarebbe, questo sì, un grave atto di censura.

Angelo Peccerillo del Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Perugia


DA ROMA

Trovo alquanto deprecabile questo incidente che con molto ottimismo potremmo definire “diplomatico” tra Santa Sede e Università della Sapienza. Così come mi sembra approssimativo (in entrambe le accezioni, difetto ed eccesso) definire laico tutto ciò che abbia a che fare con la scienza, anche quella linguistica chiamata poesia o, diciamo, più estesamente, con l’arte. Potrebbe darsi che alla fine, il pensiero scientifico finisca col trovarsi davanti il portone del pensiero teologico. Non c’è dato prevederlo e non è detto avvenga. Ma perché il pensiero, per sua natura omnicomprensivo, non può ammettere che una forma religiosa contenga in sé almeno una ragionevole parte di laicità? Qualsiasi termine, ridotto a strettoia, comporta una visione umana e troppo umana, quindi limitativa, del sapere stesso. Comunque sia, penso che il problema risieda altrove, penso che sia un fatto puramente formale. La simbologia estesa non è digeribile. E’ un ossimoro. In un ambito di cultura tout-court, quale è quella universitaria, ogni simbologia (anche quella immanente, vedi potere militare) è inopportuna. Sarebbe come voler infilare trascendenza in un database. Non si dovrebbero mai confondere i mestieri. L’equivoco o errore è partito, a mio giudizio, dal Rettore dell’ Università che non doveva invitare, all’inaugurazione dell’Anno Accademico, l’Anima, quella poi, soltanto, più globalmente riconosciuta. Mondo dunque, e non Vaticano. Premi Nobel, questi sì, nazionali e internazionali della scienza, della letteratura, della pace e così via. Culturalmente rappresentativi, e almeno testimonianze adeguate dell'Anima vera della Sapienza.

Cristina Annino, scrittrice



DA CATANIA

Credo che la reazione di rifiuto dei laici verso il Papa, nel contesto di un evento prettamente accademico, rappresenti un fenomeno interessante, una presa di coscienza notevole per un riscatto dal potere condizionante della Chiesa.
E' ora di cominciare a ribadirla la "sacrosanta" laicità dello stato. E non mi dicano che si tratta di inciviltà o di forme di intolleranza - si tratta semplicemente di senso della convenienza. Avere il Papa a quell'apertura di anno accademico avrebbe significato tornare a uccidere Bruno e Galilei una seconda volta.

Luigi La Rosa, scrittore

martedì 22 gennaio 2008

Biancamaria Frabotta L’UOMO DELLA VERITA' (uno, nessuno, centomila)

Giovedì 17 gennaio, all’interno dell’Aula Magna di una Sapienza militarizzata, in occasione della cerimonia d’apertura del 705° anno accademico 2007-2008, volarono parole grosse. Il Papa, per propria autonoma decisione, o, dice Bagnasco per esplicito invito del governo, ma il governo nega (vai a sapere la Verità) aveva rinunciato alla sua partecipazione all’evento in seguito alla legittima manifestazione di un dissenso espresso da una minoranza del corpo docente e degli studenti. Non posso accettare, dirà, l’invito di una famiglia divisa.
Strano modo di concepire il proprio mandato pastorale.
Capiamo che egli preferisca masse compatte a festeggiarlo ogni domenica all’Angelus sotto il suo balcone, ma la storia del Cristianesimo, disciplina che da anni viene insegnata con profitto nella Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza dove io insegno, è una storia mista di bene e di male, una sequela ininterrotta di scismi, eresie, profonde lacerazioni, tentate egemonie. Come tutte le storie del mondo gronda di lacrime e sangue. Anche quando si ammanta di grande poesia. Andate a rileggervi in quale basso luogo dell’Inferno Dante sprofonda Maometto, seminatore di discordie. E provate a commentarne il passo agli studenti islamici che stanno arrivando nelle nostre scuole. Protette all’esterno dunque da un efficiente ordine poliziesco venivano pronunciate parole violentemente stridenti con la situazione, come Democrazia, Libertà, Tolleranza, valori ai quali molte vite in passato sono state sacrificate e che meriterebbero rispetto, chiarezza e soprattutto buona fede. Sì, la buona, piccola verità della fiducia umana, virtù minimale e minuscola, al confronto della Fede che coincide con Santa Sede e alla lunga (ma in Italia sembra alle corte, per dirla con un satanasso come Landolfi) con Santa Fede. Ma la buona fede non spirava nei cupi volti dei politici, lasciando da parte le desuete mantelline d’ermellino aspiranti al clamore mediatico delle loro “incongrue” iniziative. Tempi bui, dirà Veltroni e tempi veramente bui corrono quando chi sta fondando un nuovo partito democratico confonde dissenso con censura e cade in astute trappole. Non capisco, veramente non capisco, fa eco il “sinistro” Mussi che infatti non riesce nemmeno più a capire che le inaugurazioni delle Università le fanno i prof. e non i papi e che in quel giorno tremila poliziotti erano di troppo sui prati malconci della Sapienza. Buona fede: virtù poco appariscente che i media non amano, ma “onesta”. Nel senso del grande poeta Umberto Saba che ormai più di cento anni fa in un intervento (quello sì censurato dai colleghi della “Voce”) esortava i poeti a scrivere una poesia “onesta”. E pensare che lui mezzo ebreo vi contrapponeva il “sincero” e cristianissimo Manzoni al “falso” D’Annunzio! E’ una delle tante piccole, fragili, eroiche verità della poesia, una delle centomila di cui il nostro “frammentario” mondo moderno è disseminato, a dire del Professor Ratzinger, nel discorso da lui inviato all’Aula Magna, per la mancanza della luce unificante della Fede.
Ma chi parla, in quel discorso? Chi stiamo noi ascoltando? Il Professore Emerito, come si è definito nello strano Angelus di domenica scorsa (che ne dice Cacciari esperto di angeli, cretinerie altrui e mancata sicurezza del lavoro a Marghera?), l’intellettuale fiero della sua dottrina e lievemente vanesio come tutti i suoi colleghi?

Il filosofo-teologo che secondo la nota tradizione tedesca scrive una prosa profonda e un po’ oscura, ma, alla bisogna chiarissima e sin troppo esplicita. “La vera intima origine dell’Università sta nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuole sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità”.

Forse a causa del mio limitante corpo di donna così intimamente coinvolto dalle leggi biologiche nel mirabile processo della riproduzione della specie che gli impedisce, soprattutto se gravido, di sollevarsi agevolmente in questi voli cosmici, io preferirei interrogarmi sulla verità a partire dai suoi immediati dintorni. E, nei dintorni delle supreme Verità, capita allora di imbattersi in menzogne, strumentalizzazioni, continue ingerenze delle autorità ecclesiastiche sulle decisioni della politica, per esempio. Come si è sentito Veltroni bacchettato sulla sua opera di sindaco dal Vescovo di Roma, episcopos o “sorvegliante” anche dell’Urbe, immagino, come egli dottamente ci ricorda?

Perché il Prof. Ratzinger è anche un capo politico, sovrano assoluto di uno stato teocratico recintato da poderose e bellissime mura ma piantato nel cuore della capitale d’Italia. E pare che da lì egli possa dire quello che gli pare, a destra, a sinistra e al centro, provocando solo ansiosi palpiti e balbettii di risposta. E’ dunque il leader del Vaticano che può, come continuamente fa, condizionare le decisioni di uno stato che si dice laico esponendo le sue “ragioni etiche”, curiosa dittologia su cui varrebbe la pena riflettere, ostacolando l’approvazione di leggi a lui sgradite? E soprattutto inserendosi nelle vite delle persone e sui loro affetti, profonde fragilità e umane incertezze, con cuore e mente armati da un’aporistica Ragione che restando “sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana” perderebbe “il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola”? Come dovrebbero sentirsi le donne che si dibattono nella difficile decisione di una gravidanza non desiderata di fronte alla condanna di chi si professa Pastore delle loro anime? Forse le donne non ragionano sempre “alla grande”. Ma intendono perfettamente l’oscura e pur chiarissima proposta della “moratoria dell’aborto”, entusiasticamente accolta e sostenuta da noti provocatori di professione. Cosa ne pensa il raffinatissimo Prof. Ratzinger di ciò che un suo fedele seguace, direttore di una radio cristiana dotata di potentissime frequenze afferma in tutta serietà che intorno ai firmatari della lettera si sprigiona l’odore del diavolo? Non si sente un po’ imbarazzato? Ma già, dimenticavo. Il Prof., quando vuole abbandona la corta mantellina e si ammanta della candida veste del Papa, infallibile, intoccabile e inevitabilmente monologante rappresentante del Cristo in terra. Alla Sapienza, in Vaticano, in Italia e nel mondo. E tutto com-prende nella sacra identità di Uomo della Verità, uno e trino:professore, capo di stato, pontefice. Dunque Umano e Divino. Uno, Nessuno e all’ora dell’Angelus, centomila. Anzi duecentomila.

Scusatemi, ma preferisco fermarmi a Dante, tragicamente insicuro e orgoglioso della sua grande missione, che arriva alla Teologia per forza di poesia inducendoci a credere, con la folgorante bellezza dei suoi versi che “come stella in cielo il ver si vide” (Par.,XXVIII, v. 85). Per un attimo solo anche noi comuni e moderni mortali finalmente in Paradiso.

Biancamaria Frabotta

lunedì 21 gennaio 2008

Piera Mattei LETTERA APERTA A CLAUDIO MAGRIS

In ogni testo è possibile leggere il tessuto argomentativo, che nella migliore delle ipotesi è evidente, e il contesto emotivo che invece violentemente balza agli occhi, (e vuole balzare agli occhi) magari in palese contraddizione con quanto argomentato.

E' quanto ho pensato leggendo il lungo articolo di Magris sul Corriere della sera del 20 gennaio 2008: Chi è laico chi è clericale.
Vediamo quindi il tessuto razionale, la definizione di laico e i fatti quali vengono riportati, per passare poi al contesto emotivo.
Condivido pienamente la definizione di laico e mi scuso per non avere tanto spazio da riportarla per intero:
"laicità è una forma mentis... distingue le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato". Appunto, sono pienamente d'accordo.
Più avanti riporta la bellissima definizione di Bobbio (in cui mi riconosco e a cui m'ispiro) che laico è "chi si appassiona ai propri "valori caldi" (amore, amicizia, poesia, fede generoso progetto politico) ma difende i valori freddi (la legge, la democrazia, le regole del gioco politico) che soli permettono a tutti di coltivare i propri valori caldi."
Il punto su cui discordo è in quale modo e con quali conclusioni questi concetti vengono applicati agli avvenimenti di questi giorni. In particolare non capisco perché i professori della Sapienza che firmano una lettera al rettore in cui affermavano di ritenere inopportuno un intervento del Papa in apertura dell'anno accademico, non possano essere visti come difensori dei loro valori caldi, che in nessun modo ledono i valori freddi.
Difatti, a quanto risulta, non il Senato accademico ha invitato il Papa, ma il Rettore, di sua iniziativa, informando poi l'organo collegiale. Di qui, la necessaria polemica con lui, non con il Papa o con gli organi di stampa, che sono i responsabili di aver dato all'episodio una visibilità non richiesta. Cadrebbe così uno dei fatti che Magris dà per scontato: "deciso, egli scrive, da chi aveva legittimamente la facoltà d'invitarlo". Poniamo che il Rettore possa decidere di invitare per l'apertura dell'anno accademico chi vuole, non si può far finta in tempi d'imperante politica dell'immagine che un papa corrisponda alla definizione "chi vuole". E' vero che molte persone di cultura cercano la luce dei riflettori, ma altri (forse una maggioranza) ne sono disturbati.

Scrive ancora Magris: "all'università si studiano fisica, letteratura, storia e così via. Anche alcuni grandi filosofi hanno insegnato all'università, proponendo la loro concezione filosofica pure a studenti di altre convinzioni; non per questo è stata loro tolta la parola". Ora mi chiedo: stiamo parlando di pluralità di concezioni tra professori universitari, o tra loro e un Papa, depositario di dogmi e precetti della Chiesa cattolica? I fisici firmatari della lettera non hanno con quella tappato la bocca a nessuno (non ai giovani di Comunione e Liberazione), tanto meno ai professori di altre facoltà. Né mi risulta che la scienza si sia mai detta depositaria di verità, quanto solo impegnata nella ricerca (vedi anche la citazione in questa rivista del grande genetista Luca Cavalli Sforza).

Dove non riesco più a seguire il filo logico del discorso è lì dove si lancia in ipotesi. Non si parla di quanto è accaduto, ma di quanto forse poteva accadere, e lui lo sa? se si fosse concretizzato un invito al Dalai Lama. Io non mi azzardo su ipotesi del genere e tuttavia l'impatto della presenza del Dalai Lama, all'inaugurazione dell'anno accademico nella università più popolosa del bacino mediterraneo, sarebbe, fuori di ogni proporzione, inferiore a quella del Vescovo di Roma, e di questo vescovo di Roma. Perché mai, anziché sui fatti, Magris argomenta con dei "se"? Lui è troppo intelligente per non sapere che, dopo tutto, molto spesso le reazioni umane e collettive sono imprevedibili.
Infine dalla penna di un intellettuale mi hanno colpito espressioni violente, non da letterato, che ha sparso nelle sue "laiche"e "tolleranti" argomentazioni. E qui le trascrivo: "autogol (siamo in un gioco del pallone e chi fa autogol è la squadra avversaria o tra esponenti, come "anche" è il suo caso, Magris, autorevoli della cultura?) gazzarra; elemento pacchiano; uso scorretto; distorto; pasticcio oscurantista; cagnara; scemenza; febbre autodistruttiva; allegra irresponsabilità, spensierata vocazione a una disastrosa sconfitta..." E mi scuso se l'elenco è incompleto.
Qui ci chiediamo, cos'è che turba così il discorso razionale, che si perde nelle deduzioni e fa invece ampio ricorso al linguaggio ascientifico del discredito, al gioco masmediatico dell'insulto, quando di ben altri mezzi potrebbe disporre?
Professor Magris, non un discorso laico leggo qui, ma, dolorosamente, astio verso la comunità scientifica (che, certo, si figuri se non comprende anche gli umanisti, qui le scriviamo appunto da una rivista che si chiama Lucreziana). La comunità scientifica in nessun modo ce l'ha con lei, né con i cattolici, ma difende i suoi valori caldi, vorrebbe avere la possibilità di lavorare tranquilla da interferenze, come avviene (ma non vogliamo essere costretti a emigrare!) in altri paesi del mondo.

Piera Mattei

N.B.
l'articolo di Magris "Chi è laico chi è clericale" si può leggere nel sito web:
http://www.corriere.it/editoriali/08_gennaio_20/magris_d0329b1e-c72f-11dc-8899-0003ba99c667.shtml

domenica 20 gennaio 2008

Brunella Antomarini DOGMA E RICERCA

Che ci sia incompatibilità tra la Chiesa e la ricerca scientifica non è una novità. Le loro rispettive spiegazioni del mondo si escludono a vicenda. Una teoria scientifica spiega le cose con se stesse ed esclude perciò per principio che siano dovute a interventi "esterni". Perciò invitare il Papa in un contesto che lui esclude e che lo esclude, non poteva che provocare attrito e essere sentito come un cavallo di Troia. Quello che sorprende, è come mai nessuno ci aveva pensato.... Forse, si è per caso voluto considerare il Papa come studioso, essendo un teologo? Ma allora bisognava, contemporaneamente all'invito, preparare un contesto di confronto teorico con i docenti. Non facendolo, si è mancato di rispetto ai docenti che avrebbero dovuto sentirsi legittimati da un discorso che li esclude.
Una conferma in più dell'incapacità politica italiana di dare un ruolo sociale alla ricerca scientifica. Insomma, un feedback loop, in cui una laicità politicamente indebolita nel suo ruolo sociale, ha creduto di avere bisogno di un po' di pubblicità, finendo per spostare tutta l'attenzione sul Papa, che ha tenuto una "lectio" veramente "magistralis" di vittimismo. Un vero disastro.
Meno male ci sono le donne, con la loro forza esterna alla politica, che ha sempre salvato la politica in extremis. Una cosa è certa, nonostante gli inviti a mischiare e confondere, la legge sull'aborto non si toccherà né si modificherà in senso retrivo, neanche questa volta.

Prof. Brunella Antomarini

Docente di filosofia contemporanea
alla John Cabot University

venerdì 18 gennaio 2008

Nicola Poccia IO, PROTESTANTE

Ci hanno chiamati estremisti ignoranti che istigano all'odio.
Io dico:
“Dire questo, è odio”.
Ci hanno paragonato ai brigatisti.
Io dico:
“Questa, è incoscienza”.
Si è arrivati addirittura a chiedere il licenziamento dei professori firmatari.
Si può esprimere un’opinione in questo paese senza esser considerati terroristi?
Si chiama terrore tutto ciò che non si capisce, e non solo ciò che non si condivide.
Ma non è mia intenzione spingere i toni verso uno scontro.
Davanti a tutto questo, i fatti parlano più delle parole, e seppure non ora, forse non domani, forse neppure tra qualche anno, le cose, gli eventi e le persone diranno ciò che è successo in questi giorni e la storia, pur dimenticando i volti dei “cattivi maestri” e degli studenti “ignoranti”, non cancellerà nulla.
Fa paura ai più, ma una grande pagina, per quanto invece piccola su diversi giornali, è stata scritta. E non ci saranno dimissioni, non ci sarà tempesta mediatica e neppure governo che potrà porre una parola fine. Non esiste armata al mondo capace di sconfiggere un’idea quando nasce.
Ieri è infatti nata un’idea, evidentemente non abbastanza ribadita in questo paese ove quasi un terzo del palinsesto televisivo è asservito al potere chiesastico e l’altro terzo ad un potere politico dissolto e terrorizzato - sostanzialmente da un confronto con la società. Quest'idea rivendica il diritto di autonomia non verso il pensiero religioso, sul quale bene o male si può discutere, ma nei confronti dell’autorità religiosa con la quale non si può per definizione discutere, essendo espressione e custode di un pensiero dogmatico.

L’amarezza che sento, come molti altri prima e dopo di me, è di vedere l’Università sotto attacco, con il mondo politico per lo più compatto nella condanna di questo gruppo di "scalmanati".
Se la CNN avesse intitolato la striscia scorrevole del notiziario: “Breaking News: Italy University is under attack” non mi sarei stupito, gli americani amano usare toni forti, ma efficaci.
Allo stesso modo se avessi sentito in Italia un prete sostenere che toccando un fisico ci si può scottare, non mi sarei stupito, e non mi sono affatto meravigliato quando l’ho sentito.
Non posso allora salvare la mente da questo naufragio, verso una deriva istintiva a Giuseppe Garibaldi e lì, nella memoria storica, cercare un'àncora.
L’eroe dei due mondi scriveva in un suo libro celebre quanto raro (nascosto tra gli scaffali):
“Mi trattenni colla gioventù Italiana – sui fatti da lei compiuti e sul debito sacrosanto di compiere il resto – accennando colla coscienza del vero le turpitudini ed i tradimenti dei governi e dei preti”.

Il papa oggi decide di non venire all'inaugurazione dell'anno accademico all'Università La sapienza, dove era stato formalmente invitato, perché prevede di essere duramente contestato.
E il cielo è sempre più blu.
Fortunatamente al confine non abbiamo l’Impero Asburgico o la Francia di Napoleone III, ma siamo parte dell’Unione Europea e dopo questo episodio temo proprio che una costituzione in cui siano evidenziati i valori cristiani dell’Europa se la possono scordare.
La marcia è appena cominciata e già solo tenere il passo sarà il più grande successo mai visto in Italia dall’epoca di Dante, che senza suscitare troppi scandali e diventando il più grande classico di tutti i tempi, mandava un papa all’Inferno, duecento anni prima che un mistico cristiano, Martin Lutero, aprisse gli occhi agli uomini del Nord Europa.
Nella storia, per quanto strano possa sembrare, i più grandi fallimenti alle gerarchie ecclesiastiche li hanno sottolineati o causati i cristiani stessi.
Non capisco allora perché avete paura di me, che sono solo un laico.


Nicola Poccia, studente di Fisica

giovedì 17 gennaio 2008

Piera Mattei INDIETRO DI CENTO ANNI?

Nell'intervista rilasciata al corriere della sera proprio ieri, l'ex-presidente della repubblica ciampi affermava che così, con la protesta di professori e studenti universitari, in risposta all'invito del rettore al papa per una lectio magistralis alla sapienza, il rapporto tra stato e chiesa tornava indietro di cento anni.
Forse è vero. Forse tuttavia non è un male arretrare un po' e vedere con una certa prospettiva dove sta andando la cultura. Forse non è sicuro che gli ultimi cento anni abbiano fatto avanzare la nostra cultura verso il progresso. e quando parlo di cultura mi riferisco non alla società in generale (è un discorso diverso) ma proprio all'ambiente di chi dedica la vita al sapere e all'arte. L'idea stessa di progresso, intesa come avanzamento generale verso il meglio è senz'altro un concetto che non può essere acriticamente adottato. Da un punto di vista della libertà, del non condizionamento da parte del potere religioso, cento anni fa, quando, se ben ricordo, crispi faceva innalzare in campo de'fiori la splendida statua di giordano bruno a memento che simili roghi non si sarebbero accesi mai più, erano certo altri tempi, e non è detto, no, che fossero tempi peggiori.
Scriveva sofri, sulla repubblica due giorni fa, che l'università la sapienza è stata fondata da bonifacio VIII (forse direi sotto il papa bonifacio che era un sovrano più di quanto non fosse uomo di cultura), ma se vogliamo andare così indietro perché non ricordare allora che il titolo stesso di "pontifex maximus" era titolo della tradizione poi detta pagana, di cui augusto si fregiava al pari di quello di imperator? I papi nel medioevo riempirono certamente un vuoto di potere, ma cosa sta avvenendo adesso, è il problema che ci riguarda.
Un papa che si dichiara, per dogma, infallibile, quando parla ex cathedra (e, paradossalmente, alla sapienza l'equivoco avrebbe potuto innestarsi) non è figura con cui, come alcuni hanno detto, rispettando il protocollo che addirittura impone il bacio dell'anello, si possa dialogare. E ricordiamo che il dogma dell'infallibilità papale viene proclamato da pio IX, alla vigilia dell'esproprio del suo stato da parte del nuovo stato italiano.
Ci sono nel mondo molti capi religiosi, ma nessuno così potente come il vescovo di roma e forse il motivo risiede nel fatto che i papi si sono fatti eredi dell'universalismo del diritto romano. Il vangelo non c'entra molto. Del resto lo studio, direi democratico, dei testi sacri non è mai stato una preoccupazione della chiesa cattolica, perché anzi è stato una delle cause di separazione di altri cristiani.
Oggi credo che il papa riceva più danno da chi lo adula che da chi, pur rispettandolo quando, molto frequentemente, esprime il suo pensiero attraverso i preti, la gerarchia ecclesiastica e gli organi di stampa, vede la sua presenza inopportuna, nel giorno stesso molto simbolico dell'inaugurazione dell'anno accademico, in una sede universitaria. Agli occhi di chi, possibilmente con umiltà, sicuramente con fatica, è in cammino nel labirinto della conoscenza, l'immagine del vescovo di roma riceve discredito maggiore da un libro dedicato ai bambini ove si "spiega" che il papa indossa scarpe rosse perché rosso è il colore del martirio e san pietro di cui il papa è successore è martire. Chi si fa portatore di verità come può non vedere che non c'è relazione tra la verità e questo tipo d'insegnamenti impartiti all'infanzia? (la notizia sul libro, edito da cantagalli "perché il papa ha le scarpe rosse?" la traggo da un articolo di aldo cazzulo, il corriere della sera, venerdì 31 dicembre 2007)
Piera Mattei
scrittrice