sabato 30 marzo 2013

Angelo Australi – Vittoria e altre storie di volo – Pezzini 2012



Sarà solo una coincidenza se, nel giro di un mese leggo, su romanzi diversi che nulla immagino possano avere in comune, di corpi dissepolti al cimitero, di capelli morti ma ancora non definitivamente decomposti di donne, madri, nonne, di abiti che non ricoprono più che cenere e ossa? Sarà un caso che in quegli stessi libri si parli di vecchi consumati dagli anni, che i figli devono accudire con amore contagiato di disperazione e pena e fastidio?

Voglio provare a risolvere questo quesito e a darmi una risposta. Forse viviamo in una società rivolta più che alla vita, al trapasso, in una comunità di micromondi contratti, specchianti, per cui tutto il mondo non può essere osservato che da lì, da quell'ambito familiare, che include anche, anzi impone, l'oscenità dei riti del disseppellimento?

Ora però voglio fermarmi su questo libro, in particolare su Vittoria, il racconto più lungo che dà il nome al libro, quasi un romanzo breve composto di episodi, come appunto l'altro che subito mi ha richiamato alla memoria – per analogia di immagini non di stile – cioè Geologia di un padre di Valerio Magrelli (recensito su questo stesso blog in questo stesso mese). Quello di Magrelli è un romanzo costruito su dati strettamente autobiografici, verità intorno alla quali la scrittura, con acuta, sottilissima intelligenza, richiamando il mito, la scienza, creando legami logico-estetici, tesse il suo filo narrativo.

Qui, siamo, almeno in parte, nell'ambito della finzione narrativa, perché lo scrittore, Angelo Australi, dota il personaggio protagonista che parla in prima persona, di una voce femminile. Sono le vicende della vita di un'operaia che vengono narrate, con andirivieni della memoria, intorno al fulcro di uno strano, paurosissimo incidente. E davvero sembrano scritte da una donna.

Gli episodi che più mi hanno colpito sono appunto quello iniziale, dell' incidente, che, come tutti gli incidenti inverosimili, rocamboleschi, possiamo immaginare realmente sperimentato, e l'altro, del primo incontro della ragazza, ancora ragazzina, col sesso. Incontro furioso, agguato che sfiora la violenza, ma soddisfa anche una curiosità. Quasi un necessario apprendistato, destinato a non lasciare, sembra, alcuna conseguenza dolorosa.


Altro racconto è quello che ha a protagonista (non nel titolo, ma nella resa narrativa) il cane Gino, una creatura inadatta al ruolo: un lupo che abbaia a tutti gli uccelli, come fosse un cane da caccia. E la voce narrante sotto il mugugno, il rimprovero, racconta dell'intesa straordinaria, dell'amore assoluto, che lega l'animale e il suo "padrone".

Vite del tutto normali, raccontate in uno stile che non conosce eccessi: disperazioni tenute a freno, sorde insoddisfazioni. In sintesi direi di questo autore, di cui mi sto occupando per la prima volta, che ha una scrittura convincente e, a tratti, veramente avvincente – che questo è un buon libro.


foto di murali di Alice, in Via dei Sabelli, Roma

venerdì 29 marzo 2013

Dedicato a grillini militanti e simpatizzanti da Piera Mattei

Divina Commedia, Canto VI vv. 130-139

Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca,
Per non venir sanza consiglio all'arco:
Ma il popol tuo l'ha in sommo della bocca,

Molti rifiutan lo comune incarco;
Ma il popol tuo sollicito rispode
Sanza chiamare, e grida: "I' mi sobbarco!"

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
Tu ricca, tu  con pace, tu con senno!
S'io dico ver, l'effetto nol nasconde.

mercoledì 20 marzo 2013

Valerio Magrelli – Geologia di un padre – Einaudi, 2013



Padre: l'identità lontana – nota di lettura di Piera Mattei


Il libro ha un esordio quasi teatrale. Siamo in un interno – allestita una cerimonia del caffè – possiamo immaginare ospiti al di fuori della cerchia familiare: il regista immobile ma che controlla l'intera scena dalla sua lente è l'autore bambino. La bevanda viene versata dal padre, con gioviale noncuranza per la mano che ha un dito ferito. Il dito  – lui non se n'è accorto, il bambino sì –s'immerge nel liquido bollente, la sensazione è schermata inizialmente dalla pesante fasciatura. Il figlio vede e tace, è in attesa sospensione di cosa accadrà. Tace forse per timidezza di fronte agli ospiti forse per innocente malvagità infantile. Ed ecco succede: la reazione plateale, il grido, scompiglio, oggetti che cadono a terra e vanno in frantumi.

Le cortine si sono alzate sul carattere principale del racconto in uno dei suoi accessi di temperamento, qui di fatto giustificato da un improvviso acuto dolore. Si aprono anche sul suo assorto osservatore e comprimario, che necessariamente varierà, nei vari episodi, d'età, e quindi d'atteggiamento – non più lo sguardo rivolto in alto, ma allo stesso livello – rimanendo l'altro sostanzialmente identico a se stesso: nella sua fisicità meticolosamente descritta, più simile a un' idea, a un mito antico. In questo senso ha una forte valenza metaforica, che indica anche una scelta o necessità metodologica, il paragrafo che si riferisce alla nudità di Noè nella Bibbia e al bisogno, nella malattia, d'infrangere il tabù dello sguardo sul sesso del padre. Mai, nessuna inversione dei ruoli, come nelle commedie familiari al cinema o alla TV – siamo piuttosto nel tono epico – nessun pietoso libertinismo, rincorsa del figlio, lui sempre simile a un vero Classico, Giove, Saturno. Un padre iroso, ma solo contro "gli altri" e gli oggetti che gli resistono, se il figlio può, scorrendo i fotogrammi della memoria, ricordare solo uno schiaffo, una reazione incontrollabile di riappropriazione, dopo che il figlio, timoroso d'averla combinata grossa, era sparito. Il figlio, a parte l'aspetto fisico che sempre più si plasma su quello dell'antenato, rimane soprattutto sguardo, con quanto di spietato lo sguardo comporta. Si specchia anche, guarda la sua immagine riflessa e scopre non solo l'identica forma di calvizie, ma anche una parte di quella eredità terribile, il cedere all'ira, che scorre nelle sue vene con le eliche del DNA. Come sempre va a cercare il nome scientifico per quella disposizione genetica alla furia contro gli oggetti che oppongono resistenza. Clastomani: la nostra è una famiglia di clastomani, ovvero di creature sofferenti, offese dalla vita, dagli oggetti medesimi. Trovato il nome esatto per il disturbo ci si può placare, osservarlo e illudersi così, tramite la sua definizione, come fanno medici e scienziati, di cominciare a dominarlo.

Come sempre in Valerio Magrelli ci troviamo di fronte a una scrittura che fa scaturire l'invenzione poetica solo dalla verità più nuda. Il tono conosce quella che ho altrove chiamato "la sottolineatura dell'ironia e talvolta dell'amara comicità inerente ai fatti e aderente ai corpi". Altro paragrafo che illustra questo concetto e insieme sembra negarlo: quello che si riferisce al rapporto del padre col mare. Dichiaratamente comico, con quel riferimento a Jacques Tati. Ma poi ne risulta un'immagine poetica, nei luminosi colori del pigmento: i capelli, rossi e ondulati come quelli di un fiammante  David Niven [...] Candido, secco, leggero, trasparente, un ossicino di seppia sospinto dalla corrente. Brezza.Teme il sole. Chiaro di pelle.

Ritornando al paragrafo iniziale, individuiamo una seconda funzione di quella scena. Avevamo infatti dimenticato il terzo protagonista, quel caffè elemento necessario a dipanare sul filo  di sostanze materiche il discorso sulla morte. Il Tempo e l'agguato della fine sono infatti la cupola di quel teatro dove ogni gesto per quanto sdegnoso, potente o prepotente, per quanto talvolta amoroso, diventa minuscolo gesto, anzi inutile gesticolazione.
L'incontro con corpi decomposti dalla morte e la necessità (così vuole non la sorte, ma il tiro a sorte) di doversene occupare, suggerisce allo sguardo e alla mente l'analogia nel colore e nella consistenza con i fondi del caffè. Un racconto che annulla il macabro, esponendo ogni frammento e dettaglio di realtà alla stessa luce diurna. La similitudine materica, col tramite di Jean Cocteau, trapassa quindi dal caffè al tabacco, il tono diventa affettuoso, divertito. Siamo in presenza di un padre, che non avendo mai fumato in obbedienza all'imperativo della madre, diventa fumatore solo alla morte di lei, in età molto avanzata. Di nuovo costretto alla rinuncia, ridotto alla razione quotidiana di una sola sigaretta, si regala un puro piacere concedendosene una sola, sì, come il medico ordina, ma lunga, la più lunga mai vista, d'una marca che chissà dove è riuscito a trovare.

Torno, per additare un metodo di scrittura, a quella improvvisa esplosione di grida e oggetti rotti del paragrafo d'inizio, parabola di un carattere iroso: Non so da dove venga quel senso di pienezza che nasce rispondendo a un'aggressione. Deve avere a che fare con le endorfine, una reazione chimica elementare, tribale, testicolare. Nell'improvviso vuoto lasciato dal flusso adrenalinico, si leva una luce radiante, la piccola atomica degli umiliati e offesi. Ulisse con i Proci, o Sandokan, Mandrake, erano pallide prefigurazioni di quanto poteva mio padre. Non so come sia arrivato sano e salvo fino a ottantatre anni. Certo è che non lo vidi mai tollerare un affronto. Era il suo lato splendido e insensato, fantastico, brutale e leggendario.
Questo inizio del paragrafo nove in modo esemplare riassume il modo di sentire, ripensare e scrivere questi ricordi. All'inizio l'interpretazione scientifica del fenomeno (deve avere a che fare con le endorfine), quindi la sua fulminante metafora poetica (si leva una luce radiante, la piccola atomica degli umiliati e offesi), di seguito il riferimento ai classici o al mondo del cinema e della musica (Ulisse con i Proci, Sandokan, Mandrake) infine rapito, affascinato, ma anche atterrito il sentimento del figlio (era il suo lato splendido e insensato, fantastico, brutale e leggendario).

Abbiamo detto già che sulla scena ci sono sempre loro due, il padre sotto lo sguardo del figlio: con la morte è stata la nostra coppia a scomparire.
Come in una enciclopedia duale si svolgono i temi della complicità e della somiglianza: il calcio, i nei, la musica, la religione e le bestemmie, l'architettura, le automobili, i disegni, di cui alcuni  di Giacinto Magrelli, il padre protagonista, all'interno del volume e anche in copertina. Tanti ricordi, tanti dettagli, che rivelano uno sguardo rivolto a lui, come se tutti gli altri non esistessero. Una madre pure dovrebbe esserci. E mamma? s'intitola con inflessione infantile, ma dando per scontato  che con lei non è stata la stessa avventura, il paragrafo 72. Lei ormai, incapace più di farlo soffrire, ridotta a un oggettino (sembra uno scupidù). No, nella vita domestica del giovane Magrelli, su quel palco, non c'è nessun altro, o se c'è rimane ostile dietro le quinte, e non conta. Meglio andare a cercare i parenti lontani, gli antenati, nel paese di pietra vulcanica, Pofi, in Ciociaria.
Questa ricerca, questo riandare ai ricordi e dissodarli, portarli in pieno sole, è quanto può definirsi geologia di un padre, come si trattasse di un fossile da riportare alla luce, come riconoscendo una somiglianza assoluta dalla quale ci separano tempi preistorici.

Se l'osservazione, la denominazione scientifica di quanto ci riguarda, è l'imprescindibile, la tenerezza che è in quello sguardo deve risultare impercettibile. Così il ricordo preciso di un abbraccio, di apicale dolcezza è subito scomposto nella sua valenza semantica, perché il sentimentalismo non lo contamini.
Il ricordo continua a zigzagare dall'infanzia dell'autore alla vecchiaia e malattia del genitore, sempre con sguardo così asciutto da sembrare crudele, indice che punta sulla realtà, sul decadimento e la morte progressiva. Un temperamento, quello di Valerio Magrelli, in cui la verità sembra non poter essere appannabile. Necessario lasciarla esposta senza veli. Devo dire che, per quanto mi sia stato doloroso,  mai prima della lettura di questo libro  avevo compreso con tanta esattezza cosa fosse la malattia di Parkinson. Il suo presentarsi con un colpo preciso e inesorabile: Avere un corpo immacolato, ma col sistema elettrico fuori gioco. Tanta fatica per tenersi in forma e poi ti si fulmina la centralina.

Aggiunge l'autore: Se mi accanisco sulla ricostruzione della sua decostruzione non è, ritengo per morbosità. Questo bisturi che incide sui  sintomi del male ha forse anche un altro significato oltre a quello che l'autore fornisce (avvicinarmi alla persona). Individuo in tutto il progetto letterario di Magrelli una componente etica, filosofica, alla maniera dei filosofi antichi. Lucrezio anzitutto: mostrare la morte nel suo aspetto naturale, per separarla dal ribrezzo e dalla paura. Dignitas, il diritto di lasciare la vita prima che tutta l'umanità si sia consumata: "perché cerchi ancora di continuare ciò che presto avrà dolorosa fine e ingrato totale tramonto (De rerum natura,libro III, 941- 42)". Sul modo con cui il libro è nato, di nuovo sul nome da dare stavolta alla sua modalità di scrittura (intratestualità), l'autore ci fornisce una nota precisa e sintetica. Scienza, poesia, disegni note e citazioni, tutti materiali che ruotano intorno al mito del padre, per liberarsene infine, per liberarlo, dargli pace, come con un antico rito sepolcrale.
Foto1: Roma, Cappella Sistina –Michelangelo, L'ebrezza di Noè
Foto 2: Trieste, Piazza Hortis, dettaglio del murale dedicato a Italo Svevo (Piera Mattei)

Marco Ercolani – Si minore – Premio Letterario Ulteriora Mirari – Edizioni Smacher 2012





Una roccia a forma di nave – nota di lettura di Piera Mattei

Poesie in Si minore, scritte sulla tonalità dell'Incompiuta di Schubert, poesie di tonalità romantica? A ben considerare non sarebbe la caratteristica precipua di questo libro di Marco Ercolani, dato che tutta la produzione di questo scrittore, ossessionata dal buio, dalla follia, dalla morte è, nel senso più autentico del termine, romantica. Non sentimentale tuttavia – mai – né popolare, anzi costruita su una scrittura e a una lettura insieme marginale e elitaria.

Pratica romantica è anche la rilettura-attualizzazione dei classici e qui l'ultima sezione che porta in esergo alcuni versi tratti dall'Odissea, costruisce le sue poesie con riflessi dell'immagine originalissima dell'episodio citato. Occorre accennarne, perché, per quanto di mirabile forza, il racconto, tutto fondato su una sola "pietrificante" immagine, rimane tronco, senza reali conseguenze sugli sviluppi successivi e sul destino dell'eroe protagonista. Siamo dunque nella parte centrale del poema. I Feaci hanno deposto, con dovizia  di doni, Odisseo addormentato sul suolo della sua Itaca. Il loro gesto, di grande umanità e generosità, provoca le ire di Poseidone, che vede minacciato il suo potere di far naufragare gli umani o sospingerli erranti nel regno che gli appartiene. Il dio del mare vorrebbe punire i Feaci distruggendo la loro nave e ricoprire la loro bella città con un monte. Zeus, con  finezza crudele, rivede il progetto, nello stesso tempo lasciando ai Feaci la possibilità di pentirsi della loro generosità e convertirsi all'indifferenza verso i naufraghi che il mare getta sulle loro rive. Così stabilisce, con i versi, appunto, riportati nell'esergo: "quella nave subito diventi roccia a forma di nave, in vista della costa! E siano presi dal sacro stupore tutti quanti gli uomini. E poi una montagna enorme li travolga essi e la loro città".
Gli dei ottengono quanto volevano: i Feaci terrorizzati dalla punizione che ha reso la loro nave immobile e di pietra, per scongiurare che il malefizio si compia nella sua interezza, faranno a Poseidone l'offerta di dodici tori, con la promessa che smetteranno infine "di accompagnare i mortali".

Gli dei ci puniscono della nostra generosità. Chi si muove e attraversa gli oceani per riportare alla sua terra un naufrago (per quanto re della sua isola) rischia di restare radicato alle profondità marine, su una nave di pietra, "in vista della costa". Può essere questo il senso nascosto nelle poesie dell'ultima sezione del libro? Non è da escludere, per quanto il poeta sembri soprattutto affascinato da quella maligna magia in sé, incantato anche lui, nell'idea di una solida immobilità: Noi, grande pietra nera / a forma di nave / ancorata nell'acqua  / niente sangue nessuno / dice nulla / alberi immobili / svettano sul ponte
Letto dunque nella prospettiva offerta dall'ultima sezione, il libro rende anzitutto l'idea di un mare a sua volta colpito da immobilità su cui come relitti nuotano sogni, frammenti d'esperienze al confine col sonno. E di nuovo torna l'acqua: Vortice / nelle vie inondate, incubo sordo / cose familiari come estranee macerie / nell'acqua nera, cofani, vetri / scarpe. Qui l'incubo si è fatto cronaca, anzi viceversa: l'alluvione prospetta allo sguardo un incubo reale, con oggetti che la furia dell'acqua toglie al loro significato familiare, per ridurli in macerie, come avviene anche – sempre, e spesso molto prima che alle cose – per gli esseri viventi. Anche la terra compare, terra di laguna, la laguna di Grado, Aquileia, mentre l'autore trascrive il suo sguardo su una bellezza disegnata anche dalla storia. La preferenza per l'acqua tuttavia è fin troppo evidente e apertamente dichiarata: Ma preferisco altre visioni: / un continente d'acqua, senza figure, / che comprenda le nostre vite terrene / in una navigazione lentissima.

Abbiamo detto dell'acqua, del mare. La raccolta comprende però anche poesie strettamente liriche, poesie che raccontano l'amore, e  – grata sorpresa in una produzione che conoscevamo soprattutto legata allo scavo e al rovello psichico e intellettuale – sensuali, con sottolineata rivincita del tatto sugli altri sensi. Le labbra, le mani, la pelle diventano protagoniste: Pelle contro pelle, / ombra contro ombra, / con l'impulso di rinascere ancora, / furiosi e muti. Il ritmo, in queste poesie, si fa altra volta morbido e il racconto del dolore o dell'amore diventa discorso triste, sì, ma piano, quasi una confessione totalmente accessibile: Anni / che non arriva il silenzio / e il ritratto di te / si moltiplica // anni che appena respiro / mi disinganna l'aria / e devo smettere con il fiato / tenermi la testa stretta tra le mani

nella Foto: Trieste, Molo san Giusto (Piera Mattei)



domenica 3 marzo 2013

Kalju Kruusa: il terzo autore estone di Gattomerlino edizioni


Da "La quinta ruota di scorta" di Kalju Kruusa

Traduzione di Maarja Kangro e Piera Mattei

con moto
eppur si muove

facendo ginnastica al mattino
piegandomi estendendomi flettendo le gambe
scuoto nel frattempo i tetti fuori della finestra
e muovo le nuvole e il sole
afferro il tetrapak del succo
e lo agito prima di aprirlo
al tempo stesso quello mi scuote la mano
come fanno salutandosi i visi pallidi
e mi agita notevolmente
e mi toccano le particelle di luce
che dalla finestra cadono su di me
e anche le nuvole
mi
muovono
ah una delle qualità
più salde dell’universo
è di essere con-movente


***

decidemmo di avere il tè pronto nella teiera
per potercelo godere dopo il bagno
tu ti avviasti al mare
io rimasi in cucina a preparare il tè
mischiai con un cucchiaio d’alluminio la polvere di tè nella teiera
per ricavarne tutto lo spettro dei sapori
e dalla finestra ti vidi 
barcollare un po’ goffamente tra i sassi
scendere in acqua nella luce occidentale
delle nove di sera che scendeva
staccandosi dal sole giallo e caldo e sulle tue spalle si spezzava
rimasi a guardarti
senza che tu lo sapessi
a meno che tu non percepisca il mio sguardo con il sedere
come un getto caldo
mi voltasti le spalle, erano chiare
l’acqua era abbastanza chiara
non c’era niente da chiarire
nell’acqua risplendevano ciocche di alghe e curve di sassi
provai a sentire con te, in anticipo, se il mare fosse caldo o fresco
giudicando dal vento del nord ovest era calduccio
dall’ora ormai tarda freschino
l’unico modo di intuirlo fu dal portamento del tuo corpo
scendevi lentamente nell’acqua sempre più alta
sentii un dolore bruciante
sulle dita
che mi fece cadere di mano il cucchiaio


* * *

ah cosa ci sarebbe di meglio
che fare qualcosa insieme
sentirlo provarlo insieme
ah che andare insieme dove
una volta si andava da soli
e trasferire all’altro, liberandosene,
ciò che si è portato con inquietudine in sé
ah che montare in sella
così leggeri con il fruscio delle gomme
tra e sopra e in mezzo
alle foglie autunnali variopinte
le pozzanghere piatte e le castagne, sempre in due
al volo tra le bacche del rialto
scivolando e serpeggiando in avanti
cosa meglio che sentire la vicinanza l’uno dell’altra
del pedalare respirare tacere
ah che guardarsi l’un l’altra e ridere
come volendo spingere oltre il sentimento importante molto importante
che è proprio quello
sapendo che è davvero quello
tanto è evidente per tutti e due
è proprio quello


il linguaggio è un paio di pantaloni

a volte così stretto
che è difficile camminare
a volte ampio
i calzoni si trascinano
e ostacolano il cammino
fanno inciampare

quando i calzoni
vanno bene
ti calzano
come un guanto
ogni tanto
li tengono a posto le bretelle

ogni tanto pare
che i pantaloni da soli
muovano le gambe
che l’uomo cammini
grazie ai pantaloni
mah, che pantaloni preziosi


LA FINESTRA È APPANNATA

dimenticai l’acqua sul fuoco
la finestra cominciò a sudare
per scherzo scrissi col dito sul vetro
LA FINESTRA È APPANNATA

e quando un’altra volta
cominciò a sudare di nuovo
apparve la stessa scritta
LA FINESTRA È APPANNATA
chiaro la punta del dito
con cui avevo scritto era un po’ unta

e così ogni volta
che la finestra si appanna
appare anche la scritta
LA FINESTRA È APPANNATA

la finestra non è una chiacchierona
scrive solo l’essenziale
quando c’è bisogno
in altre circostanze la scritta
LA FINESTRA È APPANNATA
non avrebbe dimostrazione
perché non avrebbe senso

è praticamente
solo sulla scritta
che la finestra non è appannata
e così a causa della scritta
la finestra non può
essere tutta appannata

è un’inezia per una finestra come quella
ma un gigantesco dilemma per un saccente sofista


L’ARMADIO DI CUCINA della mamma
è un nido dada
ma sei un’avanguardista mamma
le ho chiesto

ma che dici
mi ha risposto
comunque l’ho visto
in ogni scatola delle erbe

nelle scatole di cartone
la mamma ha messo le erbe da infusione
sulle scatole
ci sono delle scritte

su una scatola
c’è scritto
PIANTAGGINE
e dentro ci sono ortiche

su una scatola
c’è scritto
ORTICHE
e dentro ci sono fiori di tiglio

su una scatola
c’è scritto
FIORI DI TIGLIO
e dentro c’è la camomilla

su una scatola
c’è scritto
CAMOMILLA
e dentro non c’è niente

ci sono scatole
sulle quali
non c’è scritto niente
e dentro c’è qualcosa

però in un angolo
distante c’è
anche una scatola originale
del KAKAO

e dentro c’è cacao


il fazzoletto

la nonna portava sempre sulla testa il fazzoletto
con il freddo e con il caldo
dentro e fuori
nei giorni feriali e alle feste

dissi alla nonna
perché ti metti sempre il fazzoletto
stai un po’ anche senza
potrebbe essere interessante

lei rispose
no non posso
ho i capelli spettinati
è meglio portare il fazzoletto

poi un giorno la vidi
tornata dalla sauna
pettinarsi davanti allo specchio da tavolo
senza il fazzoletto

le dissi
quando ti sarai pettinata
potresti anche restare
un po’ senza

ribattè
devo comunque
metterlo
altrimenti i capelli si spettinano