domenica 27 settembre 2009

Maria Luisa Spaziani – L'incrocio delle mediane – Edizioni San Marco dei Giustiniani 2009

La poesia dove ritrovo l'espressione che dà il titolo all'opera è forse, tra tutte, la più misteriosa del libro. Si compone di due quartine dove i primi tre versi sono endecasillabi e l'ultimo un settenario:
Ecco le anforette del mio tesoro, / cor cordium, un incrocio di mediane. / Una è piena di lacrime, ma l'altra / sprizza lampi di gloria. // Come i due seni, i due occhi, i piedi, / l'uno all'altro è equilibrio, salvezza. / Qualcuno con due mani mi percorra / tutta, e mi benedica.
Il verso più enigmatico è il secondo della prima quartina, perché appunto all'incrocio delle mediane c'è il baricentro o centro di gravità, concetto geometrico astratto nonché preciso luogo che permette l'equilibrio dei corpi nello spazio. Spaziani ne fa il sinonimo di cor cordium, espressione ripresa dalla lapide di Shelley, per quanto lì sotto, in quella tomba, non ci siano che poche ceneri e non certo quel cuore che una bella leggenda vuole fosse incorruttibile: non bruciò col resto del corpo, e Mary lo portò in Inghilterra e lo tenne con sé fino all'ultimo.
Dunque un mito romanticissimo, quello del cuore superlativo e immortale, s'interseca, è il caso di dire, con un concetto ricavabile dal disegno di un geometra, a indicare due qualità diverse del tesoro. Ancora più complesso si fa il discorso se risaliamo alle due anforette che conterrebbero le qualità forse equivalenti ma anche opposte. E tuttavia neppure opposte perché l'una è colma di lacrime, l'altra però non di gioia, come una netta opposizione richiederebbe, sprizza bensì "lampi di gloria". Da questa immagine concreta ma fantasiosa delle anforette che contengono la vita stessa, il dualismo si diffonde al corpo che duale è naturalmente, come tutti i corpi animali. Ma sentirlo, tornare a scoprirlo, conferisce a questa dualità una valenza nuova, quasi la conferma di una scissione perturbante. Un dualismo, una scissione che richiedono di essere percorsi da mani guaritrici, di essere benedetti, per realizzare la miracolosa ricomposizione.

La stessa condizione, ancora in una poesia in due quartine, Spaziani fa vivere alla luna, corpo astrale molto presente in queste pagine. La cito per intero:
Newton ci spiega perché la luna non può / cadere sulla terra né allontanarsi di un metro. / Due forze opposte la spingono e incatenano: / l'attrazione terrestre e la forza d'inerzia : // La luna aspira a ricongiungersi a noi? La sua radice lo vorrebbe, ma / un alieno destino sempre la chiama altrove. / Vuole tornare a casa o vuole andarsene?
Questa poesia si trova nella sezione "Cieli", ma è chiaro che la luna, qui come altrove, non è una fredda pietra che gira nel cosmo seguendo le leggi di tutti i gravi. Se anche lei si muove secondo la risultante di due forze diverse è perché è una sorta di gemella, quale Spaziani la chiama nella poesia che ricorda l'attimo del suo concepimento sotto un plenilunio d'aprile: Sorella, pastorella, ostia sacrale, / verrai, estrema, per riportarmi a casa.

Vorrei tornare, lasciando ora la luna, alla dicotomia, alla concordia discors delle due anforette. Dato che L'incrocio delle mediane è il titolo dell'intera raccolta, questo vorrà additare la preferenza dell'autore per la sua parte equilibrata, oraziana, sorridente e misurata, rispetto all'elemento romantico, passionale? Questa forse è la scelta consapevole. Il tono, la metrica con la brevità musicale e conchiusa delle strofe, la ricerca di una risposta certa e rassicurante agli interrogativi, sembrano esserne conferma: Massimo sogno è vivere come un frutto o un fiore / e fare della morte una cellula di vita. E, d'altra parte, anche al di fuori dell'armonia naturale, Spaziani sembra amare in tutto l'eleganza misurata di cui qui compare, simbolo primaverile culturalmente connotato, un tailleur di Chanel: Comprare a marzo un tailleur di Chanel, / come per l'olmo mettere le foglie. // Ora lo so che l'abito fa il monaco, / che la brutta stagione è finita. Proprio questi versi di brevità aforìstica fanno riflettere sul concetto prescelto di semplicità e naturalezza: preziosa e fissata a canoni di classicità storicamente determinata, cui si tende a dare una valenza assoluta, appunto, come, per l'olmo mettere le foglie. Ritrovo qui, oltre la misura, un'accettata obbedienza alla "buona" alla "giusta" tradizione, col sospetto di un'ironia leggera, clima nel quale si muovono anche le liriche delle sezioni "Arie cristiane" e "Chiuse".

Eppure tra tanta ragionevolezza e serenità, colpisce in questo libro un'immagine lugubre e tragica, mutuata dalla Ballata degli impiccati di Villon. Corpi che pendono senza vita, fantocci, sono ciò che rimane di coloro che non hanno raggiunto la gloria: …Milioni di uomini passano / e uno solo ha un nome. // Gli altri, invisibili scheletri, // pendono dai rami, fantocci di Villon. / Invano li diedero alla luce, le madri, / urlando di dolore e di dolore inutile. Quindi, se l'uomo non lascia il suo nome, se non è baciato dalla gloria, sarà stato inutile il suo venire al mondo. L'artista avverte il suo destino come super-natura se non anti-natura: non si adegua al tempo, ma si oppone, intende ritardarne la corsa travolgente. Non si realizzerà pertanto col rinnovare stagionalmente l'abito, come avviene, per l'appunto agli alberi, alle foglie. Trovo conferma di questa opposizione in altri versi: Scende la sera, il ritmo imperturbato / da milioni di anni, cerimonia / ripetitiva, senza fantasia / né scarti d'imprevisto. La natura / copia se stessa, formula vincente / legata a sbocci, semine e maree. / Dille che non ci stai, che a comandare / all'universo nessun Dio l'ha eletta.
Contro la serena ripetizione, una delle due anforette almeno deve sprizzare lampi di gloria. E il tempo poi, col suo ritmo imperturbato, Maria Luisa vorrebbe morderlo …come il pane, / lasciarci il segno dei miei denti, dove è evidente non solo il desiderio di gustare con slancio la vita senza arrendersi a ritmi prestabiliti, ma anche la volontà di lasciare un'impronta persino fisica del proprio passaggio.

Un'altra serie di poesie esondano dalla misura per liberarsi nella passione, nella sezione "Affetti", dalla quale pure ho scelto la prima lirica presa in esame. Compaiono nomi che tanta importanza hanno avuto nella vita di Spaziani, come quello di Montale, ricordato in un infantile scoppio di pianto, il volto celato in una gardenia, il giorno che, lui avanti negli anni, nessuno ricorda il suo anniversario. Ma non c'è pianto nel notare che ormai, alla stessa età, succede lo stesso a lei: che nessuno si sia ricordato del suo compleanno.
Altri nomi sono quelli di Oriana e, infine, di Stelvio a cui mi pare siano dedicate le poesie più appassionate. Tra tutte, devo evidenziare le due quartine costruite su tre immagini, dove quella centrale (il confessionale) collega due immagini lontane e diversissime. Nella prima si ricorda re Mida, che per il desiderio di confessare il suo segreto scava un buco nella terra e lo riversa lì. Re Mida però doveva gridare quanto nessuno doveva sapere, qui l'autore vuole assolutamente essere ascoltato, il foro nel terreno diventa appunto, uno stratagemma, un confessionale dove sacramento è l'attenzione estrema alla voce dell'altro, per convincere quello, che non vuol saperne, a inginocchiarsi in ascolto: Il difficile è indurti ad ascoltare, / a mettere l'orecchio contro il suolo. / Chi ti vedesse riderebbe: ecco / l'indiano sulla rotaia del treno. Ecco il geniale scarto finale: in otto versi trapassiamo dalla favola classica ai fumetti, passando per il tramite di un rituale cattolico. Gioco perfetto, dove l'ironia la vince sul desiderio, sulla richiesta appassionata.
Dobbiamo ricordare che sorriso e autoironia sono due corde che Spaziani sa far risuonare magistralmente. Assento in pieno a quanto Stefano Verdino scrive, nella ottima introduzione, sulla voce di Maria Luisa "netta e mai tremante", a cui sono naturali ironia, "autoironia e capacità di distacco da sé," mentre dimostra "fede nella parola e in particolare nella parola della poesia". Sottolinerei questo aspetto, che mi pare abbia la forza di una militanza.
Perfetta misura e ironia trovo nella poesia che inizia senza falsi pudori inalberando il pronome di prima persona: Io sono intatta, pare. La fanciulla / che fui, qui mi rinasce a giorni alterni. / E oggi è aprile a tutto sole, scendono / dal Pincio viole e zenzeri d'oriente. // Rinasco? pare. Dicono Vangeli / purtroppo rifiutati, che vagava / Lazzaro, dopo, macilento zombie / fra complimenti e abbracci all'infinito. Dopo quel pronome impudico, una ancòra meno pudica dichiarazione è subito smorzata da un verbo dubitativo-assertivo nella sua forma impersonale. Nel pronunziare quel "pare" sembra di vederlo fiammeggiare divertito lo sguardo di Maria Luisa, anche se lo splendore di un aprile assollato potrebbe invece suggerire conferma della prima certezza. Solo nella seconda quartina l'ironia sceglie toni più amari, con la figura di Lazzaro che è rinato sì, ma quasi inutilmente anche lui, se va vagando macilento ormai, tra baci e abbracci.
PIERA MATTEI