PRIA CHE PASSIN MILL’ANNI
nota critica di Piera Mattei
La prima considerazione che si affaccia dopo la lettura di
questo libro è di carattere antropologico. Persino etologico, direi, in una
prospettiva che non differenzia sostanzialmente l’uomo dal resto del mondo
animale. Cosa è, infine, un millennio rispetto ai tempi, ai milioni di anni trascorsi
dall’invenzione del linguaggio prima, della scrittura poi, della formazione di
diverse lingue, della trasformazione del latino nelle varie lingue romanze ?
Questa la domanda, ed ecco le rime che, nonostante il titolo
inglese del libro, mi sono subito rimbalzate nella mente. Dante, sempre ancora
l’immenso nostro moderno delle origini :
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e il ‘dindi’,
pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio all’etterno, c’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.
La connessione non voluta, istantanea, che la memoria mi ha
regalato mi è sembrata straordinaria per due motivi. Vengo al primo. Mille anni sono un tempo che
la mente e il gusto personale di uno studioso della poesia italiana, un poeta, può
far liberamente attraversare al lettore nel giro di poche ore. E che Valerio
Magrelli sia uno studioso eccellente della poesia italiana oggi, nessuno lo
metterà in dubbio, neanche l’autore di questo libro, anche se gli piace
presentarsi come un « non addetto » e giocare con gli scrupoli che in lui,
un non-accademico della materia, si sono affacciati prima d’intraprendere il
suo viaggio. L’enunciazione di questi scrupoli credo serva a Magrelli soprattutto
per prendersi poi tutta la libertà di cui ha bisogno per indicare ciò che gli
piace e ciò che lo diverte. Questo libro è infatti certamente anche un
divertimento, nel senso etimologico del termine, cioè un lavoro di dirottamento
della storia della poesia da quella matrice lirica, ripetitiva e malinconica,
che da Petrarca in poi segna il flusso principale della nostra letteratura
poetica. Non che la melanconia non abbia
qui spazio, ma di quale natura essa sia lo vedremo presto.
Dante, che in ogni registro raggiunge vette assolute, viene
qui presentato da Magrelli, con la citazione delle sue famose terzine
provenzali messe in bocca a Arnaldo
Daniello in Pur. XXVI e per altre sue
invenzioni linguistiche, essenzialmente per avere un valido pretesto di riflettere
sulla «vastità del panorama e del repertorio poetico alloglotta» nella nostra
letteratura.
Petrarca, più che
come padre della poesia d’amore in Italia e in Europa, è visto come il primo di
quanti poeti cercano nello specchio le conferme della propria personalità o le
prime tracce dell’irreversibile naturale cambiamento. Tema ripreso poi, nei
noti narcisistici sonetti di Alfieri e Foscolo, che in questo viaggio
incontreremo più avanti.
Qui veniamo al secondo tema presente nelle terzine dantesche
che ho più sopra citato, quello dell’invecchiamento, della morte (“se vecchia
scindi/ da te la carne”). Se la morte è necessaria e ogni umana esistenza solo
da quella acquista forma, nessuno vedrà mai la forma completa della propria
vita, anche se è quanto vorrebbe (cfr.Alfieri: “Muori, e il saprai”). Quella
forma è infatti necessariamente postuma.
Ma è la malattia in poesia a farla da padrona in queste
pagine. Valerio Magrelli raduna molti degli sfoghi ipocondriaci dei nostri
poeti, a cominciare da quel campione del genere che è il grande passionale Jacopone
da Todi :
“O Segnor, per cortesia, manname la malsania!”
Che la malattia venga richiesta come punizione dei peccati e risarcimento
alla morte di Cristo, come in questo caso, o sia il nome che si dà alla propria
sofferenza e al lamento, l’aspetto comune in queste liriche è la conoscenza
dettagliata di tutte le malattie possibili e i loro nomi. Si veda la rabbiosa descrizione dei propri
mali in Michelangelo: « I’ sto rinchiuso come la midolla», l’anatomia
cruda, viva e vera di Campanella nel madrigale «Di’: come al buio hai tu
distinto l’ossa? », dove la percezione del corpo è quella di un uomo
sopravvissuto a lunghe torture e a lunghi anni di prigionia. Ciro di Pers
invece dedica un suo sonetto a una specifica malattia, la calcolosi renale:
«Son nelle rene mie, dunque, formati / i duri sassi alla mia vita infesti ».
Presente qui è anche l’ansia, il tormento che non ha cause e
nome, da un lato l’attrazione senza
oggetto... dall’altro una sofferenza senza origine , come in Ariosto, « Lasso! che bramo ancor, che più
vogli’io ». Poesia in cui Magrelli indica la condizione di stallo in cui
giungono gli amanti ariosteschi quanto, terminata la caccia, raggiungono l’oggetto
del desiderio. In questa composizione
tuttavia vedo additata anche un’altra delle predilezioni di Magrelli: nelle
loro varie forme la ripetizione e il gioco linguistico: « Io voglio, ma io
non so quel ch’io mi voglia ; / e volendo mi doglio; ah duro fato, / che
senza alcun dolor sempre mi doglia! »
Si diverte Magrelli. Molto lo fa prendendo le distanze da
malinconia e ipocondria, ma anche in altri modi. Per esempio segnalando quella
che definirei la sincera ipocrisia di Monsignor della Casa che fugge ormai dal
« fallace mondo » dopo aver inutilmente rincorso, non senza contraddizioni
e incidenti di percorso, il traguardo della porpora cardinalizia.
Il sorriso, l’ironia e anche il sarcasmo aleggiano in tutte
queste pagine. Pagine di un serio ricercatore che, attraverso le idiosincrasie
dei poeti nei secoli, segue con compiaciuto distacco le proprie. Anche lì dove
sento un’ammirazione senza riferimenti espliciti all’ipocondria e alla
malinconia, quando cioè viene a parlare del Belli, Magrelli non può trattenersi
dal citare la scoperta che il poeta enuncia in Er cimiterio de la Morte: « che ll’omo vivo come ll’omo morto
/ Ha una testa de morto in de la testa ».
Proseguendo nel suo viaggio, se certo non è troppo originale
citare una poesia sui morti venendo a Pascoli, più particolare lo è parlando di
D’Annunzio. Qui giacciono i miei cani
è una poesia che si colloca fuori del dannunzianesimo più noto, anche se persiste
nelle tematiche e nello stile decadente.
Quale maggior poeta della malinconia, tra quelli nati
nell’Ottocento, che Guido Gozzano, che
più ripete il ritornello : « Bada che non ti parlo / per
acrimonia mia : / da tempo ho ucciso il tarlo /della malinconia »,
meno riesce a farcene convinti?
Tra i classici moderni, venendo a Montale, Magrelli sceglie la
poesia L’anguilla che incita a
imparare a memoria, forse ricordando come amasse ripeterla a memoria, quando
l’occasione se ne presentasse, l’amica di Montale Maria Luisa Spaziani.
Montale. gli dà
l’occasione di sottolineare ancora una volta l’esistenza di un legame tra
enigmistica e poesia : preme
ribadire, scrive, come quest’ultima
sia innanzitutto una sorta di forma- pensiero, pensiero fatto forma , forma
fatta pensiero, chimica non soltanto di parole, bensì di sillabe, lettere,
spazi.
Concludendo questo mio breve viaggio sul viaggio magrelliano
nella letteratura italiana di un intero
millennio mi sentirei di confutare, almeno in parte, la possibilità di usare
questa originale antologia come una gioiosa
propedeutica che raggiunga una fascia
di lettori finora estranea alla nostra tradizione poetica. Va bene il giocosa, va bene anche definire i
materiali di questo libro una schedatura
ludica e sentimentale. Ma questi, se vogliamo continuare nella metafora che
usa Magrelli, ripresa sul retro di copertina, non sono starters per stomachi digiuni. Direi, e torniamo a Dante, al suo Convivio,
che l’invito a questa tavola è piuttosto rivolto a chi del cibo della poesia si
è saziato, ne ha già avuto abbastanza. A chi non ne ha più appetito, perché ha
gustato sempre dello stesso cibo, in maniera conformista, con scarsa curiosità per
cibi meno tradizionali. Magrelli qui, anche apparecchiando lingue diverse o di
autori stranieri che hanno voluto saltuariamente esprimersi in italiano, cerca
di farci avventurare verso esperienze il più possibile nuove.
Come attraverso un viaggio nell’anti-materia, Magrelli ci ha
traghettato non nella poesia italiana tout
court ma in una sua zona rimasta fino ad ora (quasi) invisibile.