sabato 14 gennaio 2012

Occhi che guardano fisso chi guarda – Maria Pia Quintavalla – China – Stellefilanti, 2010


Un titolo che reclama interpretazioni e, di contro, una copertina che, con due foto-ritratto, opera una scelta che appare esplicita, perentoria.
Dobbiamo anzitutto parlare di queste foto, perché sicuramente scelte dall'autrice a dare un volto, un'età, alle due protagoniste. Sul fronte c'è quella di una giovane donna di profilo e di spalle, quasi voltasse il capo mentre se ne sta andando. I fotografi degli anni quaranta – in margine in rilievo la firma Idorni e Torregiani – amavano creare per ogni volto una leggera aura di mito. Qui le spalle dritte e esili in primo piano, il colletto rialzato, la manica armoniosamente arricciata, e, sopra il bianco di quell'abito, appena intuibile, una nuca dalla pettinatura rialzata, un volto che emerge da un gioco d'ombre, pienamente illuminato solo nella parte centrale del profilo, dove aleggia un sorriso a labbra chiuse. Mi soffermo su questa foto non per rendere omaggio alla grazia inventiva del fotografo, ma perché rappresenta una "madre" forse poco più che ventenne, forse non ancora madre, ma quale l'autrice intende ricordarla, quasi astraendo, tramite quell'immagine, l'idea stessa di madre.
Questo è infatti un libro in morte della madre, una "china", un disegno che si staglia nero sul foglio bianco, e anche un omaggio a un volto dai tratti vagamente esotici, così da meritare il soprannome di "China". L'immagine di copertina corrisponde al volto remoto, ideale della genitrice, che dalle prime pagine del libro appare invece come una donna consumata dalla vita, in attesa, o nel desiderio, che la morte la liberi. Ma tra l'immagine della donna giovane e graziosa e la donna risucchiata nell'impenetrabile magrezza ultima grandeggia, ride e spadroneggia una creatura autoironica sia nell'aspetto che nelle parole:
Tu, che la ciccia dolce e imperturbabile / portavi addosso come collana d'oro; / che non osasti mai smentire tale, / il grande corpo della madre.
Chi è questa donna? Un enigma, certo, come ogni madre ai figli, alle figlie in particolare. Un individuo che la figlia avrebbe voluto risolto in quella sola, fondamentale relazione (madre a figlia) e che scopre con stupore e disappunto, dotato di suoi pregi e difetti, non esclusivamente dedito alla cura e all'amore della prole, anzi talvolta disposta a giocare col suo potere, con le sue predilezioni.

Questa prole, anzi la figlia che ricorda, è ritratta sul retro del libro, abbigliata e pettinata in modo essenziale: una canottiera bianca, appena decorata da un lineare disegno attorno alla scollatura, lascia scoperti gli omeri e rimane aderente al seno acerbo. I capelli scendono liberi sulle spalle:
Mi cimentavo, nella corsa libera / nei modi dello svettamento solitario, / non del gruppo. / La maestra Feldmann amatissima, / malata, me ne stavo / come una capra selvatica insediata / in cortile
Un'adolescente, ma forse non troppi anni la separano dalla giovane donna dell'altra fotografia. Un volto forte, ribelle. Il solo tratto che rende simili i due volti è quel sorriso appena intuito, sulle labbra chiuse. L'inquadratura è frontale, gli occhi guardano fisso chi guarda, e tutta l'immagine emerge, da un fondo scuro, in luce piena, senza evidenti contrasti di ombre. Certamente una foto scattata all'aperto, un ritratto non da studio. Una foto cara, tuttavia, se oppone ai contorni ritagliati ad arte e intatti del ritratto materno, angoli sfrangiati e consumati.
Figlia che frontalmente interpella la madre:
Non ero entrata in casa, dichiarando / un giorno, Non vado più in chiesa / non ci vado, e ti mostravo i libri, / pensando dire il vero fosse il bene?
La madre risponde con accuse, altre volte evasiva e sfuggente. Un rapporto particolare nei suoi biografici dettagli e nello stesso tempo mitico. Un rapporto che la scrittura, con forza e chiarezza, sviluppa nei suoi passaggi, rendendo questo libro denso di significati universali.

Ma China non è solo il libro della madre con la figlia: Spesso, / dal bordo di una cartolina / dalle curve collinari e le viti marroni, ho sognato / lo sfondo ideale di una famiglia.
Sono questi i versi finali del libro, un libro dove Maria Pia Quintavalla, partendo dal ricordo di sé, apre il cerchio a includere oltre la madre, la sorella, il padre, anche una varia e ricca parentela.
Solleva la cortina di un teatro dove lo spettacolo inizia con un "Prologo", che racconta dei momenti finali, della notizia della morte: Era questa una zona del tempo, / dove ruspe per l'aria, e macerie, / cadevano per terra come stelle fitte, / pezzi di realtà volavano cedevano senza dolore [… ] giovane, quasi irriverente la mattina, / quando l'infermiera, Come va? / mia madre, con un cenno tranquillo della mano, / Non c'è male, aveva detto; / più tardi si era messa a cantare Bella Ciao.
Dov'è ora la madre? Niente dipenderà ormai più dalla sua volontà. Lascia figli (figlie) diversi, divisi ancora / dalla tua grande, e atroce vita. Una madre amata, certamente amabile, ma anche carceriera, dispotica, come il costume dei tempi concedeva o esigeva. Una famiglia dove l'amore è piuttosto un dato "scontato" che reale, dove una madre, forse inconsapevolmente, cavalca dolorosi contrasti dal suo scranno di sacra onnipotenza, che mai le è sottratto, e che mai abbandona: Ti illudeva un dominio del mondo / che se fuggiva al volo;
Senza te risorta niente esisteva, / incapaci stanche, senza te che fare.

Nella "prima parte" il panorama umano si è già allargato ai parenti, a quello strano composto di vicinanza e fastidio che la parentela comporta: tutte donne, tutte pietose e disponibili. Ma subito, nella "seconda parte", un rapido riavvolgimento di pellicola, e ci troviamo di fronte a una giovane protagonista, l'autrice, che scrive lettere ai genitori indirizzandole al Caro Hitler e al caro Stalin, mentre matura da quei despoti un distacco culturale e anche affettivo, legandosi agli "altri", tra cui l'insegnante d'italiano, al liceo. Nei capitoli successivi la protagonista appare a sua volta madre, e nondimeno ancora soprattutto figlia, ad annodare la catena delle vite:
Poi pace fu per Sara piccola, / che voleva succhiarmi il latte della vita. / Al battesimo arrivasti vulnerabile, / sotto l'effetto di tranquillanti, ma eri tu / la nonna

Meraviglia e prende il lettore, per la sua affettuosa ironia, per la sua aspra intelligenza, soprattutto per lo scrupolo di verità, una narrazione che trapassa dal presente al passato, da un personaggio all'altro, una sorella, le nonne. Sullo sfondo sempre quel duello-abbraccio tra la protagonista e la madre, quella volontà di scavare l'odio-amore, la repulsione e l'intera sfera della sensibilità catturata.
Romanzo di formazione: un'infanzia capricciosa e precoce, una forte ma solitaria adolescenza, un carattere che sembra corrispondere pienamente all'immagine di copertina, mentre l'altra no, nella foto troppo graziosa rispetto alla matriarca aggressiva, con potere anche sul marito-padre:
a testa bassa, Lo sai già, ammonivi, / nella vita ho giurato di difendere sempre / vostra madre.
Romanzo corale, che racconta dettagli di fatti, accadimenti, tragedie, ripicche e gelosie, primi amori, avventure, maturità, mitologie familiari nel registro dell' epos familiare. Questo modo di fare poesia, di raccontare in versi, versi corposi e variopinti, è quasi una novità nella produzione originalissima di Maria Pia Quintavalla, anche se esempi illustri sono rintracciabili nella letteratura del secolo scorso, e come non citare, nella diversità dei linguaggi e delle atmosfere l'epopea familiare di Bertolucci. Qui il modo di combinare lingua e dialetto, lo sguardo curioso e intento su una cultura provinciale – d'economia domestica con le sue leggi ferre, bigotta e spudorata a un tempo – il suo riprodurre con sapienza e distacco chiacchiere e segreti di donne, giustificandoli e innalzandoli a poesia, ci appare come l'esito rimarchevole di anni di "lungo studio e grande amore"alla scrittura.

Piera Mattei