Il poeta e il suo amico ventriloquo
Nel Novembre del 2009 leggevo in rete tutta la poesia contemporanea che mi capitasse a tiro. Incappai nel sito in cui Biagio Cepollaro raccolse libri importanti che erano ormai fuori commercio, c’era il PDF di “Madrid”, il libro del 1987 con cui Cristina Annino vinse ex aequo nel 1988 il Premio Pozzale Luigi Russo.
La prima poesia [1] bastò per catturarmi e non mi sono più liberato, né credo mi sarà possible sottrarmi a questo testo finché campo:
Se un ospite mi lascia la casa, io
le faccio domande, frugo ovunque, specie
nei materassi. Quando esco, è passato un ladro.
Ma non la dimentico, la ripenso. Dove mettono
l’amore gli altri? Che non sia visibile, un oggetto
ad esempio, mi terrorizza. Odore c’è, quasi
sale a volte fumo o cemento rigido, o quel
senso di lavato che dà le vertigini.
Mi porterei
dietro un cane se l’amore non dovesse essere
concreto. Come io credo.
Quale fu ed è la forza di questo testo per me: parte sparato, con l’immagine del poeta ospite (da amici si presume, erano gli anni in cui Cristina passava molto tempo a Madrid senza fissa dimora) e l’ossessione investigativa con la quale egli cerca in casa altrui le tracce domestiche dell’amore. Le immagini si scompongono e il visibile e l’invisibile si alternano come l’interno e l’esterno della cosa di cui si sta parlando. Il testo vive d’ambiguità e di polisemia (è l’amore concreto o astratto? È l’amore un luogo, un oggetto, un odore?). L’asciuttezza, il rigore, l’esattezza mi avvincono in questo testo, e persino quel che costituiva per Franco Fortini un aspetto problematico (da una sua lettera ad Annino: “Unica, ma seria, obiezione: ogni composizione si ciude su sé stessa, e questo mi va benissimo ma la sequenza rischia una specie di monotonia o di monomania, di iterazione immobile del procedimento.” [2]). Perché a me – anche grazie a quell ripiegamento su sé stesso - appena finisco di leggere vien voglia di tornare all’inizio (e il testo diventa un microcosmo).
Trovai il sito web del poeta e l’indirizzo E-mail, le scrissi : “Due righe per dirLe che per la prima volta oggi la leggo avidamente e divento subito un suo grande amico.” E lei la sera stessa mi rispose: “La ringrazio, Pietro, non ci conosciamo, ma è bello quello che mi dice, sta leggendo Magnificat? A presto e, spero per me, con la stessa stima. Cristina Annino. Se diventiamo amici, dovremo darci del tu, non crede?”
Così iniziò per me l’avventura di lettore e allo stesso tempo di corrispondente epistolare di Cristina e poi dal 2014 (quando andai per la prima volta a trovarla a Roma) la nostra amicizia: il tutto con le difficoltà del caso, certo – ma il piacere, la meraviglia e l’emozione che trovo nei suoi testi sono rimasti forti come all’inizio, e finché lei è stata in vita - anche l’intensità la generosità l’intelligenza della sua compagnia.
Questo però è il poeta che nel suo Curriculum [3] scrive:
“Penso: vorrei fosse
nota soltanto la mia opera, io dieci
figli, portare – si dice? – una croce. Correndo
sempre avanti così mi ritorna lo spirito
indietro.”
associando il proprio lascito artistico (“la mia opera”) alla propria identità (“io”), alla discendenza che non volle avere (“dieci figli”, anche se poi suoi libri veri e propri saranno dodici) e tutt’assieme in un sol colpo anche alla difficoltà del vivere e all’assurdità/il ridicolo del parlarne (“-si dice?-”).
Da qui in avanti vorrei quindi continuare questo contributo semplicemente attraverso qualche altro testo, iniziando personalmente e pubblicamente il processo di trasformazione dell’amico poeta nel poeta già amico. Scelgo la lealtà e la fedeltà assolute che Cristina aveva per sé stessa (nel bene e nel male) come principii guida della gestione del ricordo dell’amico e della permanenza del poeta. O almeno ci provo.
Per l’occasione mi concentro su due tipi di testi: quell in cui fanno capolino il “signor Mortis” [4] – e quelli che parlano dell’eredità del poeta - perché in questi giorni m’interessa a posteriori rileggere specialmente quel che Cristina “correndo / sempre avanti” [3] disse anzitempo della propria futura scomparsa e del proprio lascito artistico.
In “Troppe fiches, signor Mortis” [4 ] il poeta siede con la morte al tavolo della roulette (“alto il tono della / partita”) e regge per un po’ la sfida, lo ascolta e lo osserva “che / finge e lo sa, che fa scappare I santi dalle / teche. (…) barando”. Ci vuole insomma coraggio per stare al gioco sporco del signor Mortis, soprattutto sapendo che la partita è impari in quanto lui bara (il gioco di parole macabre è mio qui involontario – o sta nascosto nel testo?) e si sa dall’inizio come andrà a finire (“Scordo, alla / fine chi io sia.”).
Il testo seguente nel libro [5] lo riporto qui di seguito per intero invece:
“Moriranno le passioni, nostre
criniere, passando
per strada coi colli
pesanti di lana, agili
gambe in avanti, dietro, di
lato. Le
guarderemo stupefacenti – almeno
come la vedo io – in questa
serata che sembra
mammina d’Europa. Tristi
e tonali, accese. Mai
vissuto un
tempo più madre di questo
ricordo di loro, care, nate
eterne, scolo del
mondo magari ma forse
vere, il
meglio di noi chissà, gregarie
comunque nella volata.
Le passioni qui sono le figlie del poeta, sono il meglio di sé (e difatti sono animali), non importa che morranno perché saranno tutte assieme fino all’ultimo, collettive/corali – segno sicuro che qui il poeta parla di sé stesso: “L’io, quando troppo presente, mi infastidisce, preferisco non parlare di me stessa in maniera diretta; spesso succede, ovvio, e in questi casi, cerco di rendere il mio io il più possibile corale o ironico.” [6]
Ho già scritto altrove [7] della natura profetica dello scrivere di Cristina e trovo naturale che in un testo recente [8] si colga una riflessione sull’affievolirsi del suo ruolo, sull’attenzione del mondo al suo dettato (come ogni profeta anche questo riflette sull’impatto del proprio messaggio):
“Ci vorrebbero
giorni di grande udito per
dire che sto sparendo. Su chi
correranno, ora penso, i
titoli della tele, giornali che
che svuotano piatti
più lesti d’un ladro; io
zitto.”
Questo, riprendendo la citazione di cui sopra, è l’altro tipo di io di questo poeta – quello in chiave ironica: mentre il poeta sta sparendo e soprattutto quando arrivi al silenzio finale, come riempire la smodata attenzione mediatica per la sua voce importantissima? Lezione per i poeti che dimenticano che la poesia è per la maggior parte inascoltata o dimenticata.
E si arriva al testo-testamento [9]:
“Penso: non ci fossi più m’aprirebbero
con cerimonia, su fondo turchino e
le dita fari, leggendo quanto
ci misi a scalare
una casa vivendo. Sarebbe
la Verità, perch’avevo ragione
in tutto, e parlavo ai pesci del mare.”
dove il poeta morto è diventato tutt’uno con il suo proprio libro e i posteri lo aprono solenni e lo scansionano (“le dita fari”) portando alla luce la sua fatica di vivere. Di nuovo l’Ego ironico ipertrofico asserisce al tempo stesso il valore esagerato del proprio lavoro (“la Verità, perch’avevo ragione / in tutto”) e ribadisce la scelta obbligata o ostinata di parlare a chi non ascolta né può propagare il messaggio (“parlavo ai pesci del mare”).
Infine: Cristina era acutamente conscia che un poeta è sopravvissuto dal proprio lavoro quando questo sia di valore, ma che - sparendo il poeta - toccherà ad altri il lavoro di far brillare la sua opera. Questo rapporto tra il poeta e i suoi proseliti (che aspettano la sua scomparsa per attivarsi al servizio della sua memoria) è una delle forme esplosive dell’amore - ovvero di quella forma di schiavitù che è l’eredità [10]:
“Ecco, lo
dico a chi mi capisce, all’idea tormento
d’esserci, che l’amore empie le
tasche di mine. E Lui farà
faville vedendola
svenire, aspetterà il
via, ginocchio sul piancito, che
parli, alla
fine. Poi bravo “Sì!!”. Bagna
il buio alberi radi coi gradi del
famelico Ma, mentre astratta
sul lenzuolo con gatta, rimbalza
la baia notturna. “Sì! se ti serve uno
schiavo”.
Mi fermo qui e concludo mettendomi ancora una volta nel mezzo: durante il 2021 ho avuto il privilegio e la gioia di seguire (prima per lettera e poi durante la mia ultima visita a Ostia) la scrittura dell’ultimo libro di Cristina, che uscirà postumo. È un altro campo minato di testi del tipo di cui sopra, in cui la prospettiva sulla fine e sul quel che segue si fa vorticosa, veloce e sempre più densa di emozioni – alcune nuove ed altre rivisitate – o dovrei dire ridigerite e poi rigurgitate. La mia menzione di quel libro che deve uscire postumo qui possa fungere da piccola anteprima cinematografica – sia pure nel rispetto dei diritti d’autore. Questo assaggio negato piacerebbe a Cristina che era sempre avida d’essere letta ma solo in prima persona e soprattutto in contesti da lei scelti. Non dirò altro per non rovinarvi il finale!
Riferimenti bibliografici
[1] “Se un ospite mi lascia la casa, io” da Madrid, Corpo 10,Milano 1987; seconda ed., Stampa 2009, Azzate (Varese) 2013
[2] Lettera di Franco Fortini a Cristina Annino, riprodotta in Magnificat (Poesie 1969-2009), Puntoacapo, Novi Ligure 2010
[3] Curriculum, in Gemello Carnivoro, Quaderni del circolo degli artisti, Faenza 2002
[4] Troppe fiches, signor Mortis, in Magnificat (Poesie 1969-2009), Puntoacapo, Novi Ligure 2010 https://rebstein.wordpress.com/2008/09/28/accordando-luce-con-vertebre-cristina-annino/
[5] “Moriranno le passioni, nostre” in Magnificat (Poesie 1969-2009), Puntoacapo, Novi Ligure 2010
[6] Intervista di Franz Kraunspenhaar a Cristina Annino: https://www.nazioneindiana.com/2007/12/27/scriverei-anche-di-un-sasso/
[7] Pietro Roversi, L’allarme ipnotico di Cristina Annino, Premio per la Critica “In realtà, la poesia” 2014
[8] Santa Sauna, con una foto di Teresa Mancini e un aforisma critico di Ugo Magnanti, Anzio, FusibiliaLibri, 2021
[9] Casa d’aquila, in Casa d'Aquila, Levante, Bari 2008
[10] Canna lunga, la notte ” in Magnificat (Poesie 1969-2009), Puntoacapo, Novi Ligure 2010