venerdì 28 febbraio 2020

Niente ci accomuna come essere figli?di Piera Mattei

Nota critica a LONTANO DAGLI OCCHI di Paolo Di Paolo  Feltrinelli 2019


Nota critica di Piera Mattei

Cosa hanno in comune  Luciana, una giornalista quasi disoccupata, Valentina, una liceale, e Cecilia, una fragile creatura vagabonda, protagoniste,  almeno nella prima parte, di questa narrazione? Sono tre giovani donne che vivono a Roma, ma non si frequentano né si conoscono. Il fatto che le accomuna è che sono rimaste incinte lo stesso anno, nello stesso periodo dell'anno. Nessuna delle tre ha quello che si chiama un ménage regolare, un partner. Nessuna delle tre ha un vero amore o accende una passione, per tutte e tre l'incontro che le ha rese incinte è stato un atto sessuale che non intendeva avere conseguenze esistenziali.
E invece le esistenze si mettono in moto proprio così, con un semplice atto sessuale. L'autore le segue, senza che mai i loro destini s'intreccino, negli ultimi tre mesi della gravidanza fino al parto.
Cosa hanno in comune ancora? Tutte e tre rifiutano di diventare madri. Madre non si è per il fatto di generare un altro essere della tua stessa specie. Tra genitore e figlio c'è un rapporto biunivoco, quindi se una donna si sottrae all'essere identificata come madre, se non ha la forza di assumere la responsabilità di un'altra vita, anche se quella vita l'ha fatta crescere e l'ha alimentata nel suo corpo, non è madre. E il bambino che ha generato non sarà suo figlio, anzi non sarà "figlio" fino a quando non troverà chi lo accolga come tale. In quell'attesa il piccolo nato vive in un limbo di sensazioni e suoni plurali che non s'identificano con una voce, un odore, un corpo materno.
Ma questa impossibilità di diventare madre, di accettare di cambiare la sua collocazione nella scala biologica, che è comune a Luciana, a Valentina e a Cecilia, personaggi-ipotesi irreali, è diversa dall'abbandono. Proprio oggi la radio dava la notizia di una donna che ha lasciato un bimbo nel passeggino alla Stazione Termini ed è fuggita via portando con sé un altro bambino, poco più grande.  Quello, sì, è un abbandono, perché quella donna il suo figlio l'ha tenuto nelle braccia, l'ha nutrito e vestito prima di lasciarlo solo, agli sguardi di passanti compassionevoli. Ma le tre donne di questo libro, già da "prima" sanno che non saranno mai le madri di quel bambino che pure hanno generato, restano aldiquà, danno per scontata l'incapacità e addirittura l'impossibilità di assumere una responsabilità simile. Forse la liceale, Valentina, quasi vorrebbe, ma lì, stranamente, sono i genitori amorevoli che già hanno deciso per lei.

"Niente ci accomuna come essere figli"? No, direi che niente ci accomuna come essere nati da donna, almeno finché non si troverà un'altra maniera di nascere. Ma figli si diventa in rapporto a chi si riconosce genitore, non prima.
Invece una riflessione che condivido: genitore biologico cosa significa, se ogni uomo potrebbe generare migliaia di figli? E anche ogni donna in età fertile, del resto, ogni mese si dispone a procreare. C'è, nell'atto di generare, insieme necessità, quel DNA, e infinita casualità, quel giorno, quell'ora.

Queste riflessioni e molte altre mi ha mosso il libro di Paolo Di Paolo, libro del quale non si può dire tutto quanto si vorrebbe, mille osservazioni, anche in rapporto al periodo storico, il 1983, nel quale è ambientato.  Non si può dire tutto quanto si vorrebbe perché questo è anche un romanzo che andrà in mano a una quantità di lettori che vogliono essere introdotti alla lettura, ma intendono poi scoprire per loro conto il significato finale di quel racconto, affidato, sì, veramente, al fantasticare su un tempo che è il tempo della nascita, alle riflessioni e ai sentimenti che accompagnano la nascita.
"La mia condanna alla fantasticheria", dice di sé l'autore. Figure fragili quelle dei genitori irrealizzati, sia le donne che gli uomini, questi ultimi che in più si assolvono anche per l'incertezza del loro ruolo. La genitorialità, qui esclusa a priori dai "responsabili" del concepimento, appartiene alla coppia di trentenni che dopo alcuni mesi porta un bambino dal brefotrofio alla sua nuova casa.


C'è nel romanzo una figura secondaria che molto mi ha colpito, quella del custode di notte nel dormitorio delle piccole culle, "conta le ore nell'alternarsi di pianti e di quiete, ma il silenzio vero non esiste", c'è sempre "qualcuno che non tace". Lui, appassionato di astronomia, sa che anche nello spazio non esiste silenzio, che neppure l'universo sta zitto. Personaggio laterale della storia, al quale tuttavia è dedicato un intero breve capitolo, nasce certo da quella naturale propensione dell'autore, che si affina come disposizione al racconto e alla narrazione ,"a soppesare esistenze alternative, scrutare gli sconosciuti con invidia benevola, come sapessero, o avessero, sempre qualcosa in più, un segreto vantaggioso".

martedì 18 febbraio 2020

Franco Ferrarotti: Leopoldo o della memoria riconoscente - Gattomerlino edizioni 2020

PRESENTAZIONE A GATTOMERLINO SPAZIO
 Borgo  Vittorio 95–Roma
16 febbraio 2020





Questa non è solo una presentazione, è anche una piccola celebrazione.
Infatti questo è il decimo volumetto che il prof Ferrarotti pubblica con noi ed è anche il decimo anno delle edizioni Gattomerlino. Pertanto per chi, come me, crede in un meraviglioso potere dei numeri, questa ricorrenza va festeggiata.
Anzitutto con la presenza del prof tra noi.
 Poi con la presenza e il contributo di Lina Lo Giudice Sergi, amica di entrambi, e del Prof Ferrarotti anche ex-allieva, eccellente allieva nello stuolo di centinaia di ex allievi che la città di Roma potrebbe contare.

 Il modo che da editrice adotterò per questa presentazione è tornare a ricordare come ogni singolo libretto sia nato e vorrei che chiunque avesse desiderio di acquistarne uno avesse due altri titoli in dono, a sua scelta.
Dunque come questo rapporto ha avuto inizio è narrato nell'introduzione a Dicembre  1947.

All'inizio dell'estate 2011 ho ricevuto dal suo autore questo piccolo tesoro custodito negli anni: la fotocopia di una copia a carta carbone di alcune poesie. Sulla prima pagina il titolo, Quaderno Inglese, e l'indice. Poi, in alto a destra, tracciata a penna, come chi a distanza di anni cercasse di fissare esattamente nel tempo quei fogli, una data: dicembre 1947.
Dunque l'autore mi affidava quel manoscritto, ma univa a quel gesto la perentoria e contraddittoria richiesta di pubblicarlo anonimo. Questa la sfida: la raccolta doveva mostrare il suo valore umano, storico, poetico a prescindere dall'attrattiva del nome del suo autore. E il dattiloscritto, ricopiato in caratteri nitidi nelle pagine a destra, sarebbe rimasto a fronte, offrendo la base materica per un dialogo illustrativo.

Questo primo libretto e il secondo vennero dunque attribuiti a un Anonimo scienziato e questo in realtà mi permise, anzi mi obbligò a delle introduzioni che feci con molto piacere.   Come opera dell' Anonimo scienziato uscì anche un libretto di terzine di tema erotico che accompagnai con miei acquarelli. Successivamente quando, a cominciare da "1951:Oltre l'Oceano" , i libretti uscirono a nome di Franco Ferrarotti, pensai che essendo lui una personalità più che nota, famosa nella nostra cultura, non sarebbe più stato utile, o opportuno aggiungere alle sue parole il mio intervento critico.

 Uscì poi "La colazione del pellicano". Mi divertono molto tutte le copertine e i titoli di questi libretti. Molte poesie di questo quarto libro, e terza raccolta di poesie, sono ambientate in America. America che ha avuto molta importanza nella vita di Franco Ferrarotti. Lì era nata la moglie di Franco Ferrarotti per quanto come tanti americani, con radici in Europa, l'America per anni ha accolto lelezioni del nostro grande sociologo e dove ancora lui possiede, credo, una casa sul Golfo del Messico. In America è stata scattata l'ironica foto di copertina.

 Poi avvenne nella vita di Franco Ferrarotti un fatto grave, luttuoso. Ferrarotti perse la donna che gli era stata vicina dalla giovinezza, appunto da quel primo viaggio americano, sessanta e più anni di matrimonio, i figli.
 Dal silenzio del suo lutto Ferrarotti mi parlò con un pacco di poesie scritte a mano, nella sua aguzza grafia affidata alla stilografica. Poesie che celebrano il lutto, decantano il dolore. Quella volta come già per la prima raccolta le trasportai sul computer lasciando però la foto della scrittura originale a mano, a fronte. Pubblicammo quel libro fuori collana.

 Ma altri inediti di poesia arrivarono non molto dopo. Allora pensai che avremmo potuto fare un compendio di quanto era già uscito, aggiungere le nuove arrivate, e affrontare un dialogo sul significato della poesia. Nacque così "Dialogo sulla poesia", che ha avuto un'accoglienza più che buona, e ha dato origine a una bella intervista al suo autore su il Venerdì di Repubblica.
Di lì a poco Ferrarotti m'inviava tuttavia altri scritti teorici "Le ragioni della poesia nella società irretita" e, a scadenze non troppo ravvicinate, altri gruppi di liriche , che abbiamo pubblicato con i titoli "Per moto naturale " e "Ipermnesia".

 Ecco, direi che la scadenza ritmica di queste offerte che mi vengono da Ferrarotti hanno un moto naturale. Sono una pulsazione cardiaca, un buon ritmo di pulsazione, e, quanto a me, sono contenta e fiera di accogliere questo battito nelle pagine di un piccolo libro.
Ultimo tra tutti, il libro decimo, queste prose autobiografiche che nel titolo e all'interno portano la dedica a un cugino, un precettore, si direbbe alla vecchia maniera, Leopoldo, un pedagogo che è probabilmente il vero responsabile dell'affinamento di quello strumento che Ferrarotti possiede in maniera straordinaria, la sua memoria.
 Diceva Dante :
non fa scienza senza lo ritener l'avere appreso.
Ecco dunque cosa contribuisce a rendere unico questo grande scienziato, la memoria inossidabile della vita sua e della cultura italiana della seconda metà del Novecento e attuale.





Per concludere dirò che il 7 aprile, alla Biblioteca del Senato, ci sarà la presentazione dell'opera Omnia di Franco Ferrarotti , un'opera di più di 6 mila pagine, in sei grossi volumi. Ed è importante che questa opera ci sia, è importante che ci sia la solenne celebrazione di una mente tra le più brillanti e lucide che  l'Italia ha avuto  dalla seconda metà del Novecento a oggi. 
I libretti Gattomerlino, giunti alla decima prova hanno un significato diverso, e accolgono  a piccole dosi, le provocazioni di una mente che certo nessuna Opera Omnia riesce a comprendere una volta per tutte.




lunedì 17 febbraio 2020

Béla Tarr: un maestro ungherese dell'immagine




Il 20 Febbraio All'Accademia D'Ungheria in Roma, a conclusione degli eventi dedicati al grande regista Béla Tarr, si proietterà il film che viene considerato il suo capolavoro, Satantango, della durata di 7 ore e un quarto. Non andrò a vederlo perché, immagino che nelle intenzioni dell'autore bisognerebbe vederlo per intero, e non credo che reggerei.

 Ma il primo film importante di Béla Tarr, quello che apriva la celebrazione, l'ho visto e, nonostante che anche le due ore circa di questo film non siano leggere da sopportare, tuttavia è stata una visione che si è impressa nella mia mente, con una forza che è difficile trovare nei film di oggi.
Si tratta di Karhozat, Perdizione, del 1987, in quel bianco e nero sempre prescelto da Béla Tarr. 
Si tratta della storia del desiderio ossessivo per una donna, una trama quindi molto semplice.
Nel bar dove avvengono tutti gli incontri c'è sempre una fisarmonica che suona, sempre lo stesso motivo malinconico. Gli uomini giocano stancamente al biliardo, fissano il vuoto. Il protagonista, un debosciato parassita, fa in modo che il padrone del bar incarichi di un losco affare il marito della donna di cui è preso, per poter stare con lei. Ottiene il suo scopo, ma presto il marito torna, inoltre il protagonista capisce che il padrone del bar vorrà anche lui la sua parte di favori dalla donna. Quindi, sola rivalsa, va alla polizia a denunciarli.

Ma ci sono immagini indimenticabili.  L'aria è grigia all'esterno e anche negli interni filtra poca luce, lo sfondo quindi è grigio. Su questo grigio che varia solo in muri scrostati, in una stretta scala che conduce all'appartamento e nell'insegna del bar, si profilano i corpi avvolti negli impermeabili, sotto una pioggia incessante. Camminano noncuranti in un'acqua melmosa, mentre cani randagi senza volontà d'aggredire si muovono intorno. C'è un personaggio misterioso, una donna non giovane, dai tratti nobili ma dal sorriso aspro che compare di tanto in tanto, assediando il protagonista che se ne divincola. Dalla sua bocca escono considerazioni consigli e massime. Lo mette in guardia contro "quella donna". É forse l'immagine della coscienza?
C'è, nella scarsa luce all'interno del bar, un lungo primo piano di Lei, quella che porta alla perdizione, che canta una canzone tristissima di amori e abbandoni. Ma la scena più straordinaria è quella dove un'umanità varia, dagli abiti miseri, dai tratti grossolani si muove senza sosta in circolo in un ballo collettivo. Un lunghissimo piano sequenza. Girare scene lunghissime con soli piccoli movimenti di macchina è lo stile che contraddistingue  questo regista, che certo non ha dimenticato la scuola dei grandi maestri russi, con effetto espressionista di notevole potenza.

Nel 2011, con Il Cavallo di Torino, centrato sullo scatenamento della follia in Nietzsche alla vista di un cavallo malmentato, Béla Tarr ha dichiarato di voler concludere definitivamente la sua carriera di regista.

PIERA MATTEI

La prosa riflessiva e poetica di Silvio Perrella

Silvio Perrella – Io ho paura – Neri Pozza 2018
 di Piera Mattei


Un libro che racconta se stesso, dalla formulazione della sua ipotesi d'esistenza, alla sua completa realizzazione. Un po' come avviene per una forma vivente, una creatura animale, un ovulo fecondato che piano piano cresce, in un processo continuo. Come per un ovulo fecondato qui c'è un tempo fissato entro il quale sarà completo e verrà alla luce.
Fuor di metafora in questo libro Silvio Perrella racconta di aver parlato con il suo editore sul tema della paura, e di aver con lui concordato di scrivere un libro che sia tutta una variazione su quel tema. Il tempo che l'autore si dà è un mese dell'estate. Il luogo dove lavorerà al progetto è la località appartata di mare che chiama Qui, che è stata il nido d'amore dei suoi genitori e adesso è il suo prediletto luogo di vacanza. Uno straordinario luogo d'incubazione.

Il ritmo delle sue riflessioni è soprattutto scandito dai movimenti sincronizzati del nuoto con il quale ogni giorno, ritualmente, raggiunge uno scoglio che sembra ritagliato nel profilo di una divinità azteca, fa lì una pausa breve, e ritorna indietro. All'andata nuota a stile libero, al rientro a dorso. Il ritmo dell'esercizio solitario facilita il movimento del pensiero intorno a quel tema che è, che deve essere per portare a termine il progetto nel tempo stabilito, l'ossessione di quel mese assolato.
Pagine molto belle sono dedicate ai gesti del movimento e del galleggiamento, e alle paure che non sono estranee al pensiero neppure nell'atto di quell'esercizio volontario, che certo provoca un piacere fisico. Ogni rischio è presente, soprattutto nel percorso a dorso, quando occorre affidarsi alla memoria, alla benevolenza delle onde, alla fiducia che non siano presenti ostacoli. In un giorno di burrasca poi succede che il rientro sia particolarmente difficile, pauroso davvero, se la cronaca registra la mattina successiva, tristemente, tre morti in mare.

In quel mese, in quel luogo concluso, i fantasmi della paura sono convocati a diventare, tutti insieme, personaggi del libro a tema. Ci sono i ricordi dell'adolescenza, come la fuga, inseguito da cani randagi, con Luciotto che inutilmente cerca di calmare la sua corsa.  Conosciamo così Antonio, l'amico fotografo e Lorenzo che, a sue spese, ha imparato che doveva buttare via, una volta e per sempre, il fucile del safari africano. Incontriamo un pescatore dal viso segnato e sapiente, e più spesso c'imbattiamo in Nina la pazza, che si aggira sempre con un oggetto inutile tra le mani, e che anche se incontra il tuo sguardo, forse neppure ti vede.
Gli altri personaggi sono fantasmi di cui non avere paura, i fratellini Hansel e Gretel, e Bella, donna solitaria della quale il luogo conserva memoria, morta annegata, forse non per disgrazia. Altri personaggi vengono incontro da pagine di libri, come dalla poesia di Kavafis sull'arrivo (non-arrivo) dei barbari, che è motivo di una lunga riflessione sul bisogno degli organi di potere di avere un nemico, sulla delusione che il potere prova quando scopre che quel nemico di cui tanto aveva concionato, all'arrivo del quale si era preparato, non arriverà. Con ogni evidenza la metafora poetica afferma che il potere non riesce a tenersi in piedi se non sostenendosi sulla paura.

Ma oltre al tema prescelto un'altra passione traspare in queste pagine, l'amore per quel luogo, per Qui, per i suoi colori e sapori, come l'acquasale, una sorta di panzanella realizzata facendo ammollare il pane raffermo nell'acqua di mare, per poi condirlo con olio e pomodoro, i fichi, quelli chiari e quelli neri, e i pomodori dell'orto. Sapori essenziali come la compagnia umana, di poche parole, ma non scontrosa, di quei luoghi.
Quel luogo semplice ed essenziale, che è Qui, un po'sembra somigliare all'indole insieme luminosa e riservata di Silvio Perrella.  Ancora una volta le letture e i personaggi della cultura– quelli profondamente assimilati, quelli dei libri portati con sé nel mese di vita a contatto con il mare – si affacciano al suo discorso serenamente, senza pose narcisistiche, come rielaborati e fatti propri dall'autore in conformità alla sua indole.


E, come messaggio, in tutto il libro circola l'opposizione e il fastidio per il tipo di paura che non è la risposta organica a una situazione d'intuito pericolo, il fastidio per quella condizione che Silvio Perrella chiama la paura preventiva, quell'allarme costante che va alimentato perché il mondo tutto viva nella paura, perché gli uomini vivano nella paura gli uni degli altri: "Abbi paura, sempre, anche se non sai perché devi averla".  Un messaggio che più attuale non potrebbe essere in questi mesi in cui la notizia di prima pagina è sempre quella che riguarda un virus verso il quale non avremmo difese.