sabato 28 maggio 2011

Per Renzo Gherardini – Commiato – di Piera Mattei


Nella curva solenne della notte


Tu mi cammini avanti


Foto di gruppo, allegra

Il 12 aprile ero giunta a Firenze per una lettura e sei venuto nel pubblico a incontrarmi. Abbiamo parlato di poesia: faceva caldo e tu sempre col tuo cappotto e, sotto, la giacca, anche se hai ammesso, mentre molti si sventagliavano, che forse il tuo consueto abbigliamento cominciava a diventare un po' eccessivo. Eri contento che insieme ci muovessimo tra le scaffalature venerande della tua Biblioteca Marucelliana, facevi gli onori di casa.
Il giorno dopo, era una giornata bellissima, con un cielo d'azzurro trasparente e ventoso, ci siamo dati appuntamento alle Cappelle Medicee. Era oramai impossibile che venissimo a Firenze senza essere "tuoi": tuoi amici, tuoi ospiti, tuoi allievi, trattenuti nella stretta affettuosa della tua anima.
Nella foto di gruppo che qui ti mostra sorridente c'è un ragazzo africano che cercava di venderci qualcosa, ma era ugualmente felice di entrare nella foto, e Lucia, un'amica di vecchia data, fiorentina, alla quale tu, con risoluta dolcezza, ci sottraevi per l'intera mattinata. Perché certo noi, di persona, ci conoscevamo solo da tre anni, ma da subito l'amicizia si era fatta così intensa, così densa di scambi e di racconti, di voglia di mostrare, di offrire, un'offerta di amicizia così completa, senza mai un momento di stasi o di noia, che l'atteggiamento più naturale era farsi catturare dal tuo entusiasmo.
Ora non sarà più così. Ora Firenze dovrà inventarsi qualcosa di molto grande per compensare il vuoto della tua perdita.
Ma quell'ultimo giorno che siamo stati insieme, è stato perfetto, quasi – ci siamo detti il giorno dopo al telefono, piano, per non provocare l'invidia di chi o di cosa ci aveva concesso tanto – quasi trasportati in un etere di pura, intatta e immotivata felicità. Dopo le cappelle Medicee ci hai condotti nel chiostro di San Marco e mi hai raccontato dei tuoi convegni con Brunetta, poi giù nella chiesa – dove quasi ci cacciavano perché, entrati dal lato dove non si paga biglietto turistico, non ci eravamo raccolti " in preghiera"– ci hai mostrato l'altare del tuo matrimonio segreto. L'abbiamo anche raccontato alla custode bisbetica il motivo principale del nostro ingresso, e allora ci ha perdonato e quasi si è commossa.
Infine, ed è stato lì che la magia ci ha toccato, tutti e tre – noi quasi ammutoliti dal rispetto di quanto ci accadeva – siamo entrati nel Chiostro di Santa Maria Novella. Fuori brulicava la stazione, ma lì lo spazio era solo nostro, non c'eravamo che noi e la custode al botteghino, mentre ci raccoglievamo in contemplazione degli affreschi di Paolo Uccello e dell'armonia delle volte.
Uscendo abbiamo ringraziato la ragazza, come veramente fosse rimasta lì negli anni, a conservare quella bellezza e quella pace solo per offrircela, quella mattina.

Ci hai accompagnato alla stazione, fino in fondo al lunghissimo binario, e non hai lasciato il marciapiede se non dopo che il treno si era messo in moto. Come si faceva una volta, che ci si sporgeva anche dai finestrini a salutare fino a che le immagini si cancellavano nella lontananza. Ora i finestrini dell'Eurostar sono bloccati, e ti osservavo da quei vetri, ma ugualmente mi resta dentro fissa la tua immagine che scruta il semaforo , conferma il segnale di partenza e con la mano mi fa cenno e ancora mi saluta e mi saluta.

Renzo, stamattina, 28 maggio 2011 alle 9,40, ci hai lasciati, senza che nessun segno di malattia o di decadenza intellettuale o spirituale ti avesse neppure sfiorato. Ci sentiamo affranti, privati, ma ci consola in parte la fierezza di essere stati e di rimanere tuoi amici.

venerdì 27 maggio 2011

Maarja Kangro – La farfalla dell'irreversibilità – Gattomerlino 2011


nella foto di Alar Madisson: Maarja Kangro sul tetto di Radisson

Esce in questi giorni La farfalla dell'irreversibilità, secondo volume della collana Gattomerlino della Ssspress, diretta e curata da Piera Mattei, autrice di questa rivista-blog.
Sono le poesie di una poetessa estone, Maarja Kangro, già presentata in Italia, sulla rivista di poesia internazionale "pagine" dalla stessa Piera Mattei, che firma anche una nota critica al volumetto.

Sono poesie tradotte dalla stessa autrice, con l'effetto di farci ascoltare l'inflessione quasi materiale della voce di Maarja, la sua preziosa ironica asprezza, in un italiano che, restando ineccepibile, conserva la cadenza originale. Una lingua che rifiuta di scivolare via dolcemente quando urta contro i duri spigoli di pensieri e di ossessioni che la storia e la cosmologia odierni ci fanno balenare nelle situazioni più impensate, per esempio mentre osserviamo la pelle indifesa e esposta di nudi corpi sulla spiaggia.

La voce di Maarja Kangro risuona in un paesaggio desolato. Il suo linguaggio aspro, esplicito, ironico, nel rendere il male palese e banale, intende esorcizzarlo. Intende esorcizzare la paura. Non è detto che un evento negativo sia appena avvenuto, non è detto che di lì a poco accadrà, e tuttavia la sua minaccia incombe, si approssima passo dopo passo, strofa dopo strofa. Come se prefigurando l'evento si potesse fermarlo, fermare il tempo, l'irreversibilità dell'accaduto.

Forse ognuna di queste poesie di Maarja Kangro può essere letta come un sintetico, balenante trattato di filosofia pessimista. Un breve sorriso laterale commenta con lucida amarezza la non schivabile crudeltà dell'esiste
re ( p.m.).

LA FARFALLA DELL'IRREVERSIBILITÀ

"ancora" è una grande parola
lentamente e velocemente
ancora

ancora una volta gli uomini alla radio
si complimentano di essere sulla strada giusta
e discutono della ciclicità del tempo

la strada giusta gira intorno, anch'io
riconosco le pelli giovani sulla spiaggia
e l'altoparlante canta "et si tu n'existais pas"

gli uomini alla radio parlano di come tutto è
legato con tutto, uno dice con voce sonora: "l'effetto farfalla"
io dispiego le ali

il tempo ciclico favorisce il buon sonno
un sonno da cui crediamo di risvegliarci
e ancora

sbatto le ali
i brav’uomini alla radio iniziano a tossire
le sbatto più forte e si alza il vento

gli uomini tossiscono ansimando, l'etere si ribella
le navi e i bagnanti annegano, l'ultimo sogno
sarà grigio e tempestoso

pensiamo alla parola che non c'era prima
c'è stata ora
e adesso non c'è più

(a cura della Ssspress)

La definizione poetico-scientifica della noia di vivere in Lucrezio e Orazio


La definizione poetico-scientifica della noia di vivere in Lucrezio e Orazio
saggio e traduzioni di
Maria Grazia Beverini Del Santo

Cominciamo col dare voce direttamente ai poeti e riportiamo di seguito un lungo passo dal De rerum natura di Lucrezio che ci sembra di precisione quasi scientifica, nella connotazione del malessere psichico:

Si possent homines, proinde ac sentire videntur
e quibus id fiat causis quoque noscere et unde
tanta mali tam quam moles in pectore constet,
haut ita vitam agerent, ut nunc plerumque videmus
quid sibi quisque velit nescire et quaerere semper,
commutare locum, quasi onus deponere possit.
exit saepe foras magnis ex aedibus ille,
esse domi quem pertaesumst, subitoque ,
quippe foris nihilo melius qui sentiat esse.
currit agens mannos ad villam praecipitanter
auxilium tectis quasi ferre ardentibus instans;
oscitat extemplo, tetigit cum limina villae,
aut abit in somnum gravis atque oblivia quaerit,
aut etiam properans urbem petit atque revisit.
hoc se quisque modo fugit, at quem scilicet, ut fit,
effugere haut potis est: ingratius haeret et odit
propterea, morbi quia causam non tenet aeger;
quam bene si videat, iam rebus quisque relictis
naturam primum studeat cognoscere rerum,
temporis aeterni quoniam, non unius horae,
ambigitur status, in quo sit mortalibus omnis
aetas, post mortem quae restat cumque manendo.

E’ evidente che gli uomini si rendono conto di portare dentro di sé, nell’animo, un peso che li prostra con la sua gravezza, ebbene, se gli uomini potessero prendere coscienza e capire per quali cause ciò avviene, e donde si accumuli nel loro cuore tanto grande mole di male, non vivrebbero la loro vita come ora vediamo accadere… gente che non sa cosa vuole, che cerca di cambiare sempre luogo, di viaggiare, come se potesse, di quel peso, liberarsi. Esce più volte dalle sue sontuose dimore il padrone, cui è venuto a noia stare in casa ,ma dopo poco rientra, poiché sente che, fuori, il malessere non passa .E allora, sferzando i suoi cavalli da corsa, si precipita, fugge in campagna, come se dovesse portare aiuto alla sua casa in fiamme. Ma non ha ancora varcato la soglia della sua proprietà che già sbadiglia, o, depresso, sprofonda nel sonno alla ricerca dell’oblio, quando addirittura non rientra, in tutta fretta, a rivedere la città. In questo modo, ciascuno cerca di sfuggire se stesso, ma a quel se stesso da cui è naturale che non possa staccarsi, resta attaccato e tanto più prova dolore e lo odia, perché, ammalato, non conosce la causa della malattia. (Lucrezio De rerum natura III 1053-1075)

Nei versi successivi, Lucrezio sostiene che solo lo studio della Natura di tutto ciò che esiste, rispondendo ai dubbi dell’anima, può additare all’uomo la strada cui affidarsi e indica le varie possibilità cui la cultura dell’epoca poteva indirizzare: quella platonica (immortalità dell’anima) quella stoica (durata della vita post mortem limitata dalla fine del mondo) quella epicurea (fine di ogni forma di sopravvivenza post mortem). Scelta la strada, si dovrà coerentemente seguirla, riuscendo in tal modo ad eliminare la paura, il timore della morte, dalla quale tutte le inquietudini discendono e che porta anche al rifiuto della vita.

Dopo aver riconosciuta la genialità del poeta nel riferire ad una "paura" che oggi definiremmo ancestrale – la paura della morte – ogni altro nostro timore, incertezza, infelicità , quand’anche queste si manifestino sotto diversi travestimenti, dobbiamo tuttavia mantenerci dentro i confini della nostra riflessione e fermarci non tanto sul rimedio che Lucrezio suggerisce (e cioè lo Studio, per prendere coscienza della natura di quanto ci circonda) quanto piuttosto sui termini con cui il Poeta analizza il disturbo psichico e lo esprime. I termini usati da Lucrezio, come PONDUS: peso ; GRAVITAS: gravezza, pesantezza; FATIGARE: stancare, estenuare, affaticare; MOLES: mole, massa, ostacolo, ci restituiscono il tentativo di rendere con parole un insieme di sentimenti per i quali, all’epoca, non era possibile riposare o fare affidamento su lasciti terminologici delle generazioni precedenti: dopo un'analisi interiore della sensazione il poeta ha quindi seguito l’intuizione, di avvalersi, per esprimerla, della metafora e della analogia, ricorrendo ad un ambito lessicale che allude con continua coerenza al concetto di ”peso” e di “fatica” fisica. In tal modo, spostando l’attenzione del lettore dalla ricezione di concetti legati alla sfera dello spirito a quelli della fisicità, decisamente più facili ad essere intesi ed acquisiti, ne ha reso accessibile la comprensione. Non solo: Lucrezio individua, del malessere – oggi diremmo “del disagio” – non solo le manifestazioni interiori ma anche quelle esteriori, "i sintomi", riconoscibili all’osservatore : quella smania che porta a viaggiare e a cambiare luogo, quel correre affannosamente, quell’ansia “adrenalinica” poi seguita da sopore, prostrazione, depressione, ricerca di oblio.

Queste descrizioni, nel mondo antico, non sono frequenti e le testimonianze, per quanto possibile leggere, sono localizzate in epoche di crisi, come dimostra il fatto che Lucrezio, vissuto tra il 98 e il 55 a. C., in un’epoca che la fine annunciata della Repubblica rendeva gravida di tensioni e problemi , pur rappresentando un uomo del suo tempo, che non trova requie alla sua insoddisfazione tra ricchezze ed agi, si fa anche portatore di una riflessione che, prima di lui, era stata di Epicuro (341 – 271 a. C.), vissuto anch’egli in una età di crisi. Da numerose testimonianze non solo epicuree, ma anche di tradizione diatribica e cinica, sappiamo infatti della moda dei viaggi, proposti e vissuti come Terapia e cura dell’anima, come rifugio e sollievo contro il fastidio del quotidiano.

Seneca, (5 - 65 d. C.) protagonista di un’altra epoca quanto mai inquieta, si riferisce a Epicuro, nel De otio, quando scrive : Petita relinquimus, relicta repetimus (Abbandoniamo luoghi dove desideravamo ardentemente andare, per tornare là da dove siamo scappati, fuggiti via)e a Lucrezio nel De tranquillitate animi:
ut ait Lucretius: hoc se quisque modo semper fugit. Sed quid prodest, si non effugit? sequitur se ipse et urget gravissimus come
s
(in tal modo ciascuno cerca di fuggire se stesso, ma non c’è scampo, non è possibile il suo Se stesso lo incalza, gli sta sopra, gli fa una “compagnia” continua e insopportabile).

Il sentimento che Lucrezio rappresenta con tanta icasticità è alla base anche della ricca produzione europea sviluppatasi, dal Romanticismo in poi, intorno alla riflessione sulla noia, lo spleen- sempre compagno delle civiltà e delle culture che hanno ormai dato tutti i loro frutti e possono solo attendere mutamenti repentini o decadenza- e questo è anche il motivo per cui questi passi risuonano con tanta pregnanza nel nostro tempo, caratterizzato da una lunga, profonda crisi che tutti ci coinvolge. Ma tornando alle parole, alla rappresentazione che si cerca di dare a sentimenti, sensazioni come quelli descritti, vorrei ricordare, dopo Lucrezio, Orazio, che riuscì nel difficile intento di rappresentare attraverso la parola poetica, forse con maggiore intensità e sinteticità di Lucrezio, le sensazioni prodotte da quella che individua come una malattia dell’anima, neppure riferibile o giustificata da una Paura Primigenia, quella della Morte.

Ricordiamo che il mondo antico, pur pervenuto a vette altissime nel pensiero speculativo e nell’analisi sull’interiorità dell’uomo, non aveva a disposizione la terminologia che sarebbe poi stata appositamente coniata negli ambiti specifici delle discipline di tipo psicologico o psicanalitico; di conseguenza non era neppure pensabile una terapia di tipo medico-farmacologico, (anche se Orazio vi fa ricorso, ma con tutta la sfiducia del caso) ma tutto, l’ analisi della sintomatologia e quella della terapia, tutto doveva avere sede nell’interiorità dell’uomo, analista e terapeuta di se stesso. Nel secondo libro, Lucrezio scrive infatti che il lusso di cui ci si circonda per esorcizzare il vuoto terrore della Paura della morte, – i saloni illuminati da candelabri d’oro in forma di giovani che reggono lampade, lo splendore degli arredi d’argento, i soffitti dorati, i tappeti e i tessuti ricamati – non serve ad allontanare la Paura e le inquietudini, che solo la RAGIONE può tenere a bada insieme al costante esercizio della disciplina interiore.

Dunque, non a farmaci ricorreva il mondo antico, bensì richiamando l’ammalato alla cura che solo la Ragione poteva offrire: la lucida contemplazione della realtà,senza illusioni, impietosa ma vera, poteva portare l’ammalato alla guarigione. Senza illusioni: il male, l’affanno vanno guardati in faccia, non serve fuggire. Orazio, nella Epistola I,8, lo sente in sé il malessere e lo descrive:
vivere nec recte nec suaviter, haud quia grando
contunderit vitis oleamve momorderit aestus,
nec quia longinquis armentum aegrotet in agris;
sed quia mente minus validus quam corpore toto
nil audire velim, nil discere, quod levet aegrum,
fidis offendar medicis, irascar amicis,

cur me funesto properent arcere veterno,
quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam,
Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam.

( non sto bene, non sono sereno, ma non perché la grandine mi abbia distrutto le viti e nemmeno perché gli olivi me li bruci la siccità; Ma perché meno sano nell’animo che in tutto quanto il corpo, non vorrei sentire consigli da nessuno che mi voglia aiutare, e ce l’ho con i medici, me la prendo con gli amici perché si danno da fare per tentare di liberarmi da questo funesto torpore).

Nessuna traduzione può eguagliare la ricerca terminologica esperita dal poeta, l’indagine sulla polisignificanza delle parole scelte secondo una approfondita verifica etimologica, ma possiamo cercare di seguirne il pensiero che ha suggerito i termini.Orazio soffre di “funesto veterno,” soffre ma non vuole aiuti, si indaga e trova il modo di comunicare, con due parole, quello che sente. L’aggettivo, funestus, ha la sua etimologia in FUNUS, morte, morte avvenuta, cadavere freddo, cui solo la sepoltura o il rogo può ancora spettare, ma esprime, rispetto al sostantivo di riferimento, non solo staticità, bensì l’azione di "recare, portare morte": in tal modo, l’aggettivo riesce a comunicare la sensazione dell’ansia dolorosa che non si esaurisce in un dolore statico ma che di continuo si rinnova, vissuta da chi sente in sé qualcosa di simile a quanto si prova davanti ad un annuncio di morte. Il sostantivo, Veternus ha radici in VETUS, vecchio, e significa quel torpore che nulla, nessun interesse può più scuotere. L’immagine della morte, questa volta legata all’immagine della letargia, della sonnolenza, dell’apatia, del torpore. E ancora, Orazio continua con una enunciazione sintomatologica:
faccio ciò che mi ha già fatto male in passato, fuggo ciò che penso potrebbe giovarmi; sono incostante, come lo è il vento: sono a Roma e vorrei essere a Tivoli, ma quando sono a Tivoli, mi manca Roma.

Ancora piu’ alta, se possibile, è la ricerca della parola espressiva nella famosa epistola 11 del libro Primo, quella nella quale Orazio raggiunge la massima icasticità nella definizione dello spleen che lo affligge.
nam si ratio et prudentia curas,
non locus effusi late maris arbiter aufert,
caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt.
Strenua nos exercet inertia: navibus atque
quadrigis petimus bene vivere. Quod petis, hic est,
est Ulubris, animus si te non deficit aequus.

( La serenità viene dalla ragione e dall’equilibrio interiore, non certo dal vivere in un luogo che si affaccia a picco sul mare, perché chi va per mare, può cambiare solo il cielo sopra di sé e non l’animo. Noi affidiamo il nostro desiderio di vivere bene ai viaggi per mare e per terra, ma ci tormenta una indolenza, un torpore ansioso).

Anche qui un binomio: un aggettivo e un sostantivo. L’aggettivo STRENUA, è tratto da un ambito significante di tipo positivo, esprimendo concetti legati ai valori del coraggio, della operatività, della tenacia, della risolutezza. Il sostantivo INERTIA, che letteralmente significa” mancanza di arte”, esprime, all’opposto, l’inettitudine, l’indolenza, la pigrizia, la mancanza di capacità. Il Poeta, in questo caso, riesce a riunire le due facce del disturbo con la forza dell’ossimoro, per esprimere la duplice sintomatologia, caratteristica tipicità del disturbo ansioso che non solo alterna momenti di iperattivita’ ad altri di depressione e di assoluta inattività, ma si configura proprio come una forma di indolenza ansiosa, che rode e tormenta: una STRENUA INERTIA.
Artefici e protagonisti di quella cultura che a buon diritto sarebbe stata definita umanistica in quanto fondata su valori proposti all’uomo come raggiungibili e conseguentemente preposti alla sua formazione ,i nostri predecessori di 2000 anni fa provavano sensazioni, sentimenti, emozioni simili alle nostre e alcuni di essi cercarono di renderne l’immagine ricorrendo alla tecnologia di cui disponevano, una profonda capacità introspettiva , basata su un monito molto più antico, quel "conosci te stesso" considerato un valore tanto profondo da essere attribuito al Dio della Luce e della Conoscenza, Apollo.

[Relazione letta durante la conferenza "Il Gene della Poesia l’Emozione della Scienza", tenutasi giovedì 19 maggio 2011, nella sede di Palazzo Giugni, a Firenze, e organizzata dal Lyceum Club Internazionale di Firenze in collaborazione con la Fondazione Il Fiore.
Obiettivo principale della conferenza, introdotta da Gian Franco Gensini (preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Firenze) che ha posto di fronte uno scienziato, il prof Pietro Pietrini e un'umanista, la prof. Beverini Del Santo, è stato quello di disegnare un percorso tra scienza e poesia, guidato da un bisogno condiviso: la comune ricerca di un senso (scientifico) e una definizione (poetica) per il fenomeno dell’"emozione
"].

Nella foto trasporti e trasferimenti nella Roma antica – Mosaici di Piazza Armerina (Enna)