domenica 31 ottobre 2010

Silvano Anania – Orologio a vento per preghiera – Albatros 2010

L'enigma delle origini, del tempo. Da chi discendiamo e cosa, infine, diventeremo. L'inconscio ripercorre incessantemente il passato anche remotissimo: il libro si apre sul sogno del protagonista, che si comporta, nel sogno, come un primate, in un ambiente dove la percezione del pericolo, dell' abbondanza, della bellezza, si alternano a ritmo mozzafiato. Il presente invece, al risveglio, mostra il suo volto opulento (Il frigorifero era pieno di roba che correva il rischio di andare a male) tecnologico (pubblicità alla radio-televisiva, cellulari che squillano), noioso e privo d'imprevisti (Erano mesi che non accadeva assolutamente niente). Noia che addormenta e tormenta nell'attesa di "qualcosa", un fatto, una sorpresa, che non arriva o, se si presenta, è già irriconoscibile, scialbo e sfumato. Massimo, il protagonista, agli inizi del libro, appare come un uomo sull'orlo della depressione. Si distrae con le trasgressioni erotiche e amorose dei suoi amici, la cosiddetta combriccola. Sono uomini rimasti fissi ai rituali del branco adolescenziale (urinare contro la quercia che segna il limite del bosco, parlare tra loro di donne), a cui hanno aggiunto il rituale delle grasse mangiate. Le descrizioni dei manicaretti sono eccellenti occasioni di una scrittura compiaciuta, di una divertita esibizione di grande competenza culinaria, tuttavia da sconsigliare a risentite sensibilità vegetariane.
Una serie di episodi raccontati con abilità e divertimento, che ricordano blandamente le "zingarate" dello storico film "Amici miei", dove le donne sono ritratte sempre come creature libere, spesso infedeli, estremamente scanzonate, con una punta di crudeltà e cinismo. Massimo tuttavia, se da un lato si distrae e si diverte con gli amici, dall'altra è preso da un amore esclusivo, "eterno" per Teresa. All'inizio della storia, Teresa è una donna che ormai evita gli incontri erotici con Massimo, anche se non rifiuta viaggi con altri corteggiatori. Lui, nonostante tutto, continua ad amarla e a desiderarla. C'è poi un'altra persona a cui lui è legato profondamente: è un artista di origine contadina, Liborio, uno scultore che affida al bosco le sue creazioni. Agli inizi del racconto Liborio è misteriosamente scomparso.
Il protagonista ritorna, in una serie di flashback, ai tempi in cui ha conosciuto l'amico, agli inizi della storia con Teresa. In questi ricordi la Natura non fa da sfondo, piuttosto campeggia come altra grandiosa protagonista. La natura è il mare da cui avrebbe origine la vita, cioè la donna – come sembra ribadire il mito di Venere – ma è soprattutto il bosco con i suoi misteriosi ripari, con i colori e i profumi, con la sorpresa della sempre svariante bellezza. Nella concezione di Liborio, rivista e confermata da Massimo, la donna è lei stessa la Natura, la donna è divina. L'uomo non è, alle origini, che un essere creato dalla donna, per sottrarsi alla noia. Creato però non a sua immagine e somiglianza, bensì a somiglianza dei rozzi primati che lei, liscia e delicata, doveva vedersi attorno. L'uomo non può che desiderare di tornare a lei, dentro di lei, che in tutto gli è superiore, e i migliori tra gli uomini non possono pensare se non a dare alla donna ciò per cui lei li ha creati: il piacere e una rassicurante protezione. Questa concezione così elevata dell'altro sesso è purtroppo complementare ai misogini vizi della combriccola, all'uso, seguito da Liborio, di allontanare le donne, al termine del pranzo di Ognissanti, per restare tra uomini, in ragionamenti e meditazione.
Gli inizi della storia con Teresa sono rivissuti con sensibilità favolistica. Nel bosco, il protagonista che si è perso, incontra una ragazzina, che, proprio come in una fiaba, vive non lontana da lì, con la nonna. Anche se lei si dice "quasi quindicenne", ha parole e comportamenti infantili, sebbene molto intraprendenti, da rustica Lolita. Massimo sta con palpitante perplessità al gioco, per la coscienza dell'equivocità dell'esperienza vissuta. Si incontrano nuovamente e lei è già sposata, ma questo dettaglio non è d'ostacolo all'inizio del loro "assoluto" amore.
L'ultima parte della storia è la più complessa. Nel testamento, che è stato ritrovato nonostante non sia ritrovato il corpo, Liborio ha lasciato a Massimo in eredità il suo computer. Massimo riesce ad aprirlo e vi trova un messaggio che si riferisce al luogo dove sarebbe possibile costruire l'orologio a vento, di cui insieme avevano fantasticato. L'orologio è lo strumento per la misura del tempo, quel tempo opprimente, che fa spesso rimuginare Massimo sui suoi sessantacinque anni, ogni volta che il corpo si mostra inadeguato o tardo ai sempre giovanili desideri, alla voglia di salire, di appartarsi, di cercare i decisivi incontri portandosi in alto, o lontano dagli altri.
Infatti si metterà in viaggio, meta la Terra del Fuoco. La terra agli antipodi, come la montagna del Purgatorio. Senza che ce ne fossero vere premonizioni ci troviamo in un mondo carico di simboli, in cui mi è parso di leggere i riferimenti al viaggio di purificazione dantesco. Gli elefanti marini che, Massimo scaccia con lancio di sassi, potrebbero personificare, pensa il protagonista, i vizi dell'avarizia e dell'invidia, da cui sempre ha voluto tenersi lontano. Ci sono donne gentili, che lo incoraggiano al viaggio, mediatrici necessarie, come nella Commedia Lucia e Matelda. Infine, sulla vetta di questo monte dalle sette balze, che lo porta fuori dal bosco nel quale non deve ricadere, c'è l'incontro con Teresa. Un incontro essenziale: sedersi accanto e restare, mentre l'amore si esprime con parole e gesti semplici, con tenerezza, in modo definitivo. E scopriamo infine anche il giallo della scomparsa di Liborio: non è morto, viaggia verso nuove avventure, forse non è se non un alterego del protagonista.

Al di là dell' intreccio, questo romanzo è, essenzialmente, un'interrogazione sulle origini e il tempo. Sono trascorsi lunghi anni di una vita alla quale non è mancato quasi nulla di quanto si pensa la renda completa: gli amici, le donne, una rispettabile posizione sociale, un amore "eterno". Nulla è mancato, ovvero Massimo ha fatto di tutto perché quella sola, unica vita, risultasse, a sé e agli amici, invidiabile, perfetta? Ora, al punto in cui si colloca la storia, non è rimasto che ripercorrere il passato, cercando finalmente di comprenderlo, di fissare il tempo e i valori. Allora, insieme all'Amore, la scrittura si presenta come la sola efficace "trasgressione", consolazione e sollievo alla noia, non per nulla in epoche precedenti, durante il legame coniugale, sembrava unico vero motivo di gelosia per una moglie delusa e lontana. Di più, come nel Dolce Stile, Amore e scrittura si confondono, se la donna oggetto dell'Amore è anche protagonista privilegiata della maggior parte delle storie che Massimo ha scritto, e ragione stessa dello scrivere.
Perfetto nei quadri d'ambiente contadino e nelle situazioni conviviali, abile a intrecciare episodi anche molto lontani nel tempo, nel descrivere le contraddizioni nella sostanziale coerenza del suo protagonista, svariando nelle note dell'elegia e della favola, dell'ironia e della satira, della memoria e del mito, della riflessione e dell'onirico, Silvano Anania ci pone, in definitiva, di fronte a un romanzo di ascesa e purificazione. Partiti dalle bolge di una provincia annoiata, ce ne trasporta agli antipodi, in un clima simbolico e rarefatto. Si completa così un viaggio verso la conoscenza, verso il riconoscimento dell'appartenenza al Tutto, verso la vicinanza eterna all'Amore, che è non è stato concesso una volta per tutte, ma, dal primo incontro e poi contro le avversità, fortemente voluto e trattenuto.
Piera Mattei

Cristiano Franceschi – Oltre vento e da nessun luogo – Ghenomena Edizioni, 2009

Un libro di poesie dedicato a una donna, non con un semplice esergo ma con l'acrostico che introduce la raccolta. Dunque, da subito, abbiamo la presentazione di un canzoniere (poesie d'amore e di lontananza), da subito il desiderio, la sensualità sono protagonisti, ma rinserrati in forme chiuse: sonetti e madrigali con stretto controllo dei metri e delle rime.
L'autore di queste poesie è lo stesso fotografo che, sulla copertina, colloca un'immagine notturna. Un luogo centrale di Roma, il ponte Duca d'Aosta, vi è quasi irriconoscibile, tanto la foto è limpida, perfetta, e l'immagine, nella sua perfezione, "altra" da quanto normalmente si vede. Sempre in quella foto un dettaglio inquietante: i fari accesi di un'automobile che sembra parcheggiata, sotto il ponte, in cima a un'ampia scalinata.
Ho riferito di quella foto in copertina perché vi leggo, come in altre opere fotografiche di Cristiano Franceschi, la metafora visiva della sua poesia, che costringe l'angoscia pulsante, l'enigma che assilla, nella misura del metro, nella forma accurata e netta.
Del resto la forma chiusa e la rima sono, nell'uso del poeta abile e accorto, per l'orecchio addestrato, lo strumento mediante il quale la lingua scopre da sé la via al discorso che urge, o addirittura lo suscita. Nella seconda strofa della poesia di pag. 11 c'è infatti il riferimento a un "cantare a braccio", anzi direi che l'intera strofa costituisce nel suo insieme una dichiarazione di poetica e un programma esistenziale: Come soltanto un verso preso al laccio / e a sopravvento per l'ostile intorno / delle mani e del mio cantare a braccio, / ho messo all'ancora il vagar del giorno / dov'è sicura la fonda e l'abbraccio / imbarchi il fuoco e il piacere adorno. Un programma esistenziale che avrà quale durata? "Ho messo all'ancora il vagar del giorno": per quanto tempo resterà agli ormeggi una vita che cerca da sempre, ma non riesce a trovare, il luogo dove sistemare i suoi Lari? I luoghi qui citati, vissuti, sono molti. A cominciare da Firenze: Santa Croce, gli Innocenti, Duccio, Via delle belle donne, ma anche la bassa Toscana, Chiusi, Siena, Bagno Vignoni, poi Roma, alla Stazione Termini. Tra i molti ancoraggi, il riferimento a un altrove linguistico nelle poesie in tedesco, idioma che potrebbe rivelare l'Heimat originale e insieme additare un altro termine delle molteplici, irrisolvibili contraddizioni. Nelle metafore, infine, il mare, le acque compaiono come atavico ricordo del viaggio, dell'espatrio, forse della fuga senza sapere verso cosa e a causa di chi: E' un porto come tutti gli altri, ma / pesantemente nei canali domina / quel muschio di bonaccia che si fa / nera insolenza […] E trascinato dai venti che fan- / no alla prima occasione cadere gomene / e sartie, l'ancora e i paranchi inutili / strumenti di salvezza.
Ancorarsi, o rifiutare di scendere a "un porto come tutti gli altri"? Speranza e disperazione si sovrappongono, fino a corteggiare la follia e la morte: Conviene l'omicidio, soluzione / di originale freschezza, modesta / come fanciulla irritabile, clone / del desiderio furioso di Vesta.[…] quel cielo capovolto e quelle fate / ranicchiate sull'angelo, cura- / no della morte anime disamate. Versi assai belli, che "curano" a loro volta la disperazione e, nella loro aperta cantabilità e chiarezza, contrastano con l'enigmaticità di molti versi dove la rima onnipresente spinge alla scoperta d'assonanze e immagini, anche strane.
Dovunque la parola è in caccia dell'amore, dell'eros, non come annientamento ma come ipotesi di rispecchiata identità e, finalmente, d'immobilità. Ma l'immobilità non è anche la fine, la morte? Bellissima fanciulla, / Dolce a veder non quale / La si dipinge la codarda gente, / Gode il fanciullo Amore / Accompagnar sovente. La citazione leopardiana dal canto Amore e Morte, che liberamente si affaccia, mi aiuta a definire lo stile e l'ispirazione di Cristiano Franceschi come poesia fondamentalmente classica, nella forma e anche nelle tematiche. Giudizio che rimane saldo, e non contraddice a un primo approccio con questi versi piuttosto aspro, difficile. Perchè l'armonia, come le fate che ho dianzi citato, è presente ma nascosta, e si richiede al lettore di andarla a stanare, mentre se lei se ne resta immobile, ranicchiata "sull'angelo".
Piera Mattei